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La spia inglese: Una missione per Gabriel Allon
La spia inglese: Una missione per Gabriel Allon
La spia inglese: Una missione per Gabriel Allon
E-book531 pagine6 ore

La spia inglese: Una missione per Gabriel Allon

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Info su questo ebook

"Silva, il re dello spionaggio." Il Giornale

"Il bello dei thriller di Daniel Silva: ritmo, credibilità e Gabriel Allon." Il Venerdì di Repubblica

"Allon l'agente segreto più affascinante dopo quello interpretato da Daniel Craig." Daily Telegraph

A prendere il sole sul ponte dello yacht, in topless e con un drink in mano, c'era la donna più famosa del mondo. E sotto coperta, a preparare una tartare di tonno, cetrioli e ananas, c'era l'uomo che l'avrebbe uccisa.

Quando una violenta esplosione fa saltare in aria lo yacht su cui un membro di spicco della famiglia reale sta trascorrendo le vacanze, i servizi segreti britannici si rivolgono all'unico uomo in grado di rintracciare l'assassino: il leggendario Gabriel Allon. Il suo obiettivo è Eamon Quinn, esperto di esplosivi e mercenario di morte che vende i propri servigi al miglior offerente. È un uomo freddo, crudele, elusivo come un'ombra, ma a dargli la caccia insieme a lui c'è anche Christopher Keller, ex soldato dei corpi speciali inglesi e ora sicario professionista. Entrambi hanno un conto in sospeso con lo spietato terrorista, e per eliminarlo sono pronti a tutto, anche ad assecondare i piani di un'organizzazione che vuole ucciderli. Perché quando si cerca la vendetta, anche la morte ha i suoi vantaggi... 

Dalle assolate spiagge dei Caraibi alle scogliere della Cornovaglia, passando per i vicoli di Belfast, una spietata caccia all'uomo costellata di colpi di scena che vi terranno con il fiato sospeso fino all'ultima riga. 


LinguaItaliano
Data di uscita20 mag 2016
ISBN9788858949023
Autore

Daniel Silva

Pluripremiato autore regolarmente ai primi posti nella New York Times Bestsellers List, ha raggiunto il successo grazie alla fortunata serie che ha come protagonista Gabriel Allon: i suoi romanzi, tra cui La spia inglese, La vedova nera, La casa delle spie, L’altra donna, La ragazza nuova, L’Ordine, La violoncellista e Ritratto di donna sconosciuta pubblicati da HarperCollins, sono entrati nelle classifiche dei libri più venduti nel mondo e sono stati tradotti in oltre trenta lingue. Vive in Florida con la moglie, la giornalista televisiva Jamie Gangel, e i due figli Lily e Nicholas.

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    Anteprima del libro

    La spia inglese - Daniel Silva

    PARTE PRIMA

    Morte di una principessa

    1

    Gustavia, Saint Barthélemy

    Niente di tutto questo sarebbe successo se Spider Barnes non si fosse fatto un bicchiere di troppo da Eddy's, due sere prima del giorno in cui doveva salpare l'Aurora. Spider era considerato il miglior chef di bordo dei Caraibi, irascibile eppure insostituibile, un genio pazzo in elegante giacca bianca e grembiule. Aveva seguito il percorso classico: aveva lavorato per un periodo a Parigi, era stato a Londra, non si era fatto mancare New York né San Francisco finché, dopo una infelice tappa a Miami, aveva detto addio ai ristoranti per scegliere il mare, e la libertà. Adesso lavorava sui grandi yacht, il genere di barche richieste da star del cinema, rapper, magnati e nullità piene di sé, quando volevano far colpo. E quando non era ai fornelli se ne stava appollaiato su uno sgabello di alcuni dei migliori bar della terraferma. Eddy's rientrava tra i suoi cinque posti preferiti nel mar dei Caraibi, forse addirittura tra i suoi cinque preferiti a livello mondiale.

    Quella sera cominciò alle sette con qualche birra, alle nove si fece uno spinello nell'ombra del giardino e alle dieci stava accarezzando l'idea del primo rum alla vaniglia. Tutto andava nel migliore dei modi. Leggermente brillo, Spider Barnes si sentiva in paradiso.

    Ma poi i suoi occhi si posarono su Veronica e la serata prese una piega pericolosa. Lei era nuova dell'isola, una sbandata, un'europea venuta da chissà dove a servire da bere ai vacanzieri di passaggio, nel bar all'angolo. In ogni caso era davvero graziosa – graziosa come una guarnizione floreale, fece notare Spider al suo anonimo compagno di bevute – e lui se ne innamorò perdutamente nel giro di dieci secondi. Le chiese di sposarlo, il suo metodo di approccio preferito, e quando lei gli rispose di no, grazie, lui le propose una rotolata tra le lenzuola. Probabilmente lei accettò, perché verso mezzanotte furono visti allontanarsi barcollando sotto un acquazzone torrenziale. Quella fu l'ultima volta in cui qualcuno vide Spider: alle 00.03 di una notte di pioggia a Gustavia, bagnato fradicio, ubriaco e ancora una volta innamorato.

    Il capitano dell'Aurora, yacht di lusso da cinquanta metri immatricolato a Nassau, era un uomo di nome Ogilvy, Reginald Ogilvy, ex ufficiale della Royal Navy – un dittatore benevolo che dormiva con una copia del regolamento sul comodino, accanto alla Bibbia di Re Giacomo del nonno. Non gli era mai andato a genio Spider Barnes, men che meno la mattina dopo, alle nove, quando vide che Spider non era presente alla consueta riunione con l'equipaggio e il personale di cabina. Non era una riunione come le altre, perché l'Aurora si stava preparando ad accogliere un ospite molto importante. Solo Ogilvy ne conosceva l'identità. E solo lui sapeva che la comitiva comprendeva una squadra di agenti di sicurezza, e quanto la signora fosse a dir poco esigente, il che spiegava come mai il comandante fosse così in pensiero per l'assenza del suo prestigioso chef.

    Ogilvy informò della situazione la capitaneria di porto di Gustavia, e la capitaneria di porto a sua volta informò la polizia locale. Due agenti andarono a bussare alla porta del cottage di Veronica, sul fianco della collina, ma neppure di lei c'era traccia. Si dedicarono quindi a una ricerca nei vari punti dell'isola in cui solitamente approdavano ubriachi e cuori infranti, dopo una nottata di bagordi. Al Le Select uno svedese paonazzo dichiarò di avere offerto una Heineken a Spider quella mattina stessa.

    Qualcun altro disse di averlo visto aggirarsi in spiaggia a Colombier, e ci fu una segnalazione, mai confermata, di una creatura che ululava sconsolata alla luna sullo sfondo selvaggio di Toiny.

    I poliziotti seguirono diligenti ogni pista. Poi perlustrarono l'isola da cima a fondo, da nord a sud, senza alcun risultato. Qualche minuto dopo il tramonto, Reginald Ogilvy comunicò all'equipaggio dell'Aurora che Spider Barnes era scomparso e che bisognava trovare un sostituto adeguato nel più breve tempo possibile. I suoi uomini setacciarono l'isola, dai ristoranti in riva al mare di Gustavia alle baracche sulla spiaggia del Grand Cul-de-Sac. Alle nove di quella sera, nel più improbabile dei posti, scovarono la persona che cercavano.

    Era arrivato sull'isola al culmine della stagione degli uragani e aveva preso alloggio nella casetta di legno in fondo alla spiaggia di Lorient. Non possedeva altro che una sacca da viaggio di tela, una pila di vecchi libri, una radio a onde corte e uno scooter scassato, che aveva comprato a Gustavia per una manciata di banconote lerce e un sorriso. I libri erano grossi, ponderosi e colti; la radio, di quelle che non si facevano più. La sera tardi, quando sedeva sotto la veranda a leggere alla luce della lampada a pile, il suono della musica fluttuava sullo stormire di fronde delle palme e sul frangersi pacato della risacca. Jazz e classica, per lo più, a volte un pizzico di reggae dalle stazioni vicine. Allo scoccare di ogni ora metteva giù il libro e ascoltava attentamente le news della BBC. Finito il notiziario passava in rassegna le frequenze per trovare qualcosa di suo gusto, e le palme e il mare riprendevano a danzare al ritmo della musica.

    All'inizio non era ben chiaro se fosse in vacanza o solo di passaggio, se si stesse nascondendo o se stesse invece pensando di trasferirsi definitivamente sull'isola. I soldi non sembravano essere un problema. Al mattino, quando andava alla boulangerie per il pane e il caffè, lasciava sempre una mancia generosa alle ragazze. E al pomeriggio, al piccolo supermercato vicino al cimitero dove comprava birra tedesca e sigarette americane, non perdeva tempo a raccogliere le monetine del resto che scendeva tintinnando dal distributore automatico. Il suo francese era accettabile anche se venato da un accento che nessuno sapeva identificare. Se la cavava molto meglio con lo spagnolo, con cui si rivolgeva al dominicano al banco del JoJo Burger. Ma c'era sempre quell'accento. Le ragazze della boulangerie avevano deciso che era australiano, mentre i ragazzi del JoJo Burger pensavano che fosse un afrikaner. Ne erano pieni i Caraibi, di afrikaner. Gente per lo più a posto, ma alcuni erano invischiati in affari tutt'altro che legali.

    Le sue giornate, per quanto poco organizzate, non sembravano comunque prive di scopo. Faceva colazione alla boulangerie, si fermava all'edicola a Saint-Jean a comprare una pila di quotidiani inglesi e americani del giorno prima, si dedicava seriamente ai suoi esercizi fisici in spiaggia, leggeva quei libroni di storia e letteratura con un cappello da pescatore calato sugli occhi. Una volta aveva noleggiato un piccolo motoscafo e passato il pomeriggio a fare snorkeling nei pressi dell'isoletta di Tortu. Eppure la sua sembrava un'inattività forzata, più che volontaria. Faceva pensare a un soldato ferito ansioso di tornare sul campo di battaglia, o a un esule che sognava la patria perduta, dovunque essa si trovasse.

    Stando a Jean-Marc, un doganiere dell'aeroporto, l'uomo era arrivato con un volo dalla Guadalupa munito di un regolare passaporto venezuelano, sotto il nome decisamente particolare di Colin Hernandez. A quanto pareva era il frutto di una unione di breve durata tra una madre anglo-irlandese e un padre spagnolo. La madre si credeva una poetessa; il padre aveva fatto i soldi in modo losco. Colin detestava il padre, ma parlava della madre come se fosse prossima alla beatificazione e teneva una foto di lei nel portafogli. Il ragazzetto dai capelli di stoppa in braccio alla donna non somigliava granché a Colin, ma era passato del tempo.

    Il passaporto gli attribuiva trentotto anni, più o meno quelli che dimostrava, e come professione uomo d'affari, che significava tutto e niente.

    Le ragazze della boulangerie ipotizzavano che fosse uno scrittore in cerca di ispirazione. Come spiegare altrimenti il fatto che non lo si vedesse mai senza un libro? Le commesse del supermarket invece avevano elaborato una teoria più suggestiva, per quanto assolutamente non comprovata, secondo la quale aveva ucciso un uomo in Guadalupa e si stava nascondendo a Saint Barthélemy in attesa che si calmassero la acque. Per il dominicano del JoJo Burger, a sua volta un fuggiasco, l'ipotesi delle ragazze era ridicola: Colin Hernandez, secondo lui, era solo l'ennesimo fannullone inconcludente che viveva a spese del fondo fiduciario creato per lui da un padre che odiava. Sarebbe rimasto finché non si fosse annoiato, o finché le sue finanze non si fossero esaurite. Poi avrebbe preso un volo per qualche altra destinazione, e nel giro di un paio di giorni avrebbero faticato a ricordarsi come si chiamava.

    Alla fine, a un mese esatto dal suo arrivo, la routine quotidiana di Hernandez conobbe un lieve cambiamento. Dopo il pranzo al JoJo Burger andò dal barbiere di Saint-Jean, e quando ne uscì la sua zazzera nera, scolpita da un buon taglio, si presentava ordinata e lucida di brillantina. Il mattino dopo, quando arrivò alla boulangerie, si era appena sbarbato e indossava una camicia bianca fresca di bucato e un paio di pantaloni kaki. Fece la sua solita colazione – una tazzona di caffè macchiato e una fetta di pane nero casereccio – mentre sfogliava il Times di Londra del giorno prima. Poi, invece di tornare alla sua casetta, salì sul motorino e andò in direzione di Gustavia. E a mezzogiorno in punto si capì finalmente perché l'uomo chiamato Colin Hernandez fosse venuto a Saint Barthélemy.

    Per prima cosa andò al vecchio Hotel Carl Gustaf, ma il capocuoco, scoprendo che non aveva frequentato scuole di cucina, non gli concesse neppure un colloquio. I proprietari del Maya's lo misero gentilmente alla porta, e lo stesso fecero i direttori di Wall House, Ocean e La Cantina. Fece un tentativo con il La Plage, ma non erano interessati. Analoga mancanza di interesse fu mostrata da parte di Eden Rock, Guanahani, La Crêperie, Le Jardin e anche da Le Grain de Sel, il solitario avamposto affacciato sulle paludi salmastre di Saline. Persino al La Gloriette, il cui titolare era un esiliato politico, non vollero avere niente a che fare con lui.

    Imperterrito, tentò la fortuna presso i locali meno noti dell'isola: lo snack bar dell'aeroporto, il localino creolo senza troppe pretese, la pizzeria nel parcheggio del supermercato L'Oasis. E fu lì che finalmente la fortuna gli sorrise, perché scoprì che dopo una diatriba infuocata su orari e stipendi il cuoco di Le Piment se n'era andato sbattendo la porta. Alle quattro del pomeriggio, dopo aver dato prova delle sue capacità nell'angusto cucinino del Le Piment, aveva trovato un impiego. Entrò in servizio ai fornelli la sera stessa. Le reazioni dei clienti furono unanimemente entusiaste.

    Non ci volle molto perché le voci delle sue prodezze culinarie facessero il giro dell'isoletta. Le Piment, fino ad allora regno della gente del posto e degli habitué, fu ben presto invaso da nuovi clienti che non cessavano di tributare lodi al cuoco sbucato dal nulla, con quel suo particolare accento anglo-spagnolo. Quelli del Carl Gustaf tentarono di portarselo via, e lo stesso fecero l'Eden Rock, il Guanahani e il La Plage, ma senza alcun risultato. Perciò Reginald Ogilvy, capitano dell'Aurora, era piuttosto pessimista quando si presentò al Le Piment senza aver prenotato, la sera dopo la sparizione di Spider Barnes. Fu costretto a girarsi i pollici al bar per mezz'ora, prima di avere un tavolo. Ordinò tre stuzzichini e tre piatti, e dopo averli assaggiati tutti chiese di scambiare qualche parola con lo chef. Passarono dieci minuti prima che il suo desiderio fosse esaudito.

    «Ha appetito?» chiese l'uomo chiamato Colin Hernandez, guardando i piatti in tavola.

    «Non proprio.»

    «Allora cosa ci fa qui?»

    «Volevo vedere se è davvero così bravo come dicono.»

    Ogilvy gli porse la mano e si presentò: nome e grado, e poi il nome della sua nave. L'uomo chiamato Colin Hernandez fece un'espressione dubbiosa.

    «L'Aurora... Non è la nave di Spider Barnes?»

    «Conosce Spider?»

    «Devo aver bevuto qualcosa con lui, una volta.»

    «Di sicuro non è stato il solo.»

    Ogilvy esaminò l'uomo che aveva davanti. Solido, forte, formidabile. Agli occhi acuti dell'inglese sembrava uno che aveva navigato in acque tempestose. Sopracciglia scure e folte, la mascella dura e volitiva. Una faccia costruita per incassare pugni, pensò Ogilvy.

    «Lei è venezuelano, vero?»

    «Chi gliel'ha detto?»

    «Tutti quelli che non l'hanno assunta quando cercava lavoro.»

    Il capitano spostò lo sguardo dalla faccia alla mano, appoggiata allo schienale della sedia di fronte a lui. Nessuna traccia di tatuaggi, un segno positivo. Ogilvy considerava quel moderno culto dell'inchiostro una sorta di automutilazione.

    «Beve?» chiese poi.

    «Meno di Spider.»

    «Sposato?»

    «Giusto una volta.»

    «Ha figli?»

    «Per carità.»

    «Mai ammazzato nessuno?»

    «Non che io ricordi.»

    Lo disse con un sorriso. Reginald Ogilvy sorrise a sua volta.

    «Mi stavo chiedendo se ho qualche possibilità di portarla via da qui» fece, con un'occhiata alla modesta sala da pranzo all'aria aperta. «Sono pronto a offrirle uno stipendio generoso. E quando non siamo in mare, avrà un sacco di tempo libero per fare quello che le piace fare quando non è ai fornelli.»

    «Quanto generoso?»

    «Duemila alla settimana.»

    «A Spider quanto dava?»

    «Tremila» rispose Ogilvy dopo un attimo di esitazione. «Lavorava con me da due stagioni.»

    «Adesso però non lavora più con lei, giusto?»

    Ogilvy rifletté per un po'. «Facciamo tremila» rispose. «Ma ho bisogno che cominci subito.»

    «Quando si salpa?»

    «Domani mattina.»

    «In tal caso» replicò l'uomo chiamato Colin Hernandez, «dovrà darmene quattromila.»

    Reginald Ogilvy, capitano dell'Aurora, lanciò un'occhiata alle pietanze, poi si alzò da tavola con un sospiro. «Domattina alle otto» disse. «Puntuale.»

    L'irascibile François, il marsigliese proprietario del Le Piment, non prese affatto bene la notizia. Proferì una mitragliata di improperi nel suo dialetto del sud, minacciando qualche forma di ritorsione. E poi ci fu quella bottiglia di un più che discreto Bordeaux, vuota, che finì in mille schegge di smeraldo contro il muro dell'angusta cucina. In seguito, François avrebbe negato di avere deliberatamente mirato al suo chef dimissionario. Ma Isabelle, una cameriera testimone dell'episodio, fornì una diversa versione dei fatti. Giurò che François la bottiglia l'aveva lanciata come fosse un coltello, dritta alla testa di monsieur Hernandez. E monsieur Hernandez, lo ricordava benissimo, l'aveva schivata con un movimento così rapido e pronto da renderlo a malapena visibile. Poi il suo sguardo gelido si era fissato su François per un lungo istante, come se stesse valutando il modo migliore per rompergli l'osso del collo. Alla fine, con calma, si era tolto il grembiule bianco immacolato ed era salito sul suo scooter.

    L'uomo chiamato Colin Hernandez aveva trascorso il resto della serata sulla veranda della sua casetta, a leggere alla luce della lampada. Allo scoccare di ogni ora metteva giù il libro per ascoltare il notiziario della BBC, accompagnato in sottofondo dallo sciabordio delle onde e dal fruscio delle palme nel vento notturno. Al mattino, dopo una nuotata rigeneratrice, fece una doccia e si vestì, poi ripose i suoi averi nella sacca da viaggio: i vestiti, i libri, la radio. Aggiunse altri due oggetti lasciati apposta per lui sull'isoletta di Tortu: un'automatica Stechkin calibro 9 mm munita di silenziatore e un pacco rettangolare, lungo cinquanta centimetri e largo circa trenta. Sistemò il pacchetto, che pesava esattamente sette chili e duecento grammi, al centro della sacca, in modo da bilanciare il peso durante il trasporto.

    L'uomo chiamato Colin Hernandez lasciò definitivamente la spiaggia di Lorient alle sette e mezza e andò in scooter fino a Gustavia, la sacca sulle ginocchia. L'Aurora sfavillava all'estremità del porto. Salì a bordo alle otto meno dieci, e l'aiuto chef, una snella ragazza inglese dall'improbabile nome di Amelia List, gli mostrò la sua cabina. L'uomo mise nell'armadietto le sue cose – compresi il pacco da cinque chili e mezzo e la Stechkin – e indossò la casacca e i pantaloni da cuoco che gli avevano fatto trovare sulla cuccetta. Quando uscì trovò Amelia ad aspettarlo in corridoio. La ragazza lo accompagnò nella cambusa, mostrandogli via via la dispensa, la cabina frigorifero e la cantina, piena di bottiglie di vino. Fu lì, in quella fresca penombra, che provò il primo stimolo sessuale nei confronti della ragazza inglese dall'uniforme bianca stirata di fresco. Non fece nulla per scacciarlo. Erano talmente tanti mesi che viveva da solo che faticava anche soltanto a ricordare la sensazione di sfiorare i capelli di una donna, di accarezzare la dolcezza di un seno nudo.

    Pochi minuti prima delle dieci gli altoparlanti di bordo convocarono tutti i membri dell'equipaggio sul ponte di poppa. L'uomo chiamato Colin Hernandez seguì Amelia all'esterno, ed era accanto a lei quando due Range Rover nere si fermarono con uno stridio di freni accanto alla prua dell'Aurora. Dalla prima emersero due ragazze abbronzate che ridacchiavano e un uomo sulla quarantina dal volto rubizzo, che reggeva una sacca da spiaggia rosa con una mano e una bottiglia di champagne aperta con l'altra. Dalla seconda Rover schizzarono fuori due uomini di aspetto atletico, seguiti un attimo dopo da una donna che sembrava soffrire di una forma di malinconia all'ultimo stadio. Indossava un abito color pesca che la faceva apparire seminuda, un cappello a tesa ampia che le ombreggiava le spalle esili e un paio di occhiali da sole neri di generose dimensioni, che nascondevano buona parte del viso di porcellana. Anche così, però, era perfettamente riconoscibile. A tradirla era il profilo, quel profilo così adorato dai fotografi di moda e dai paparazzi che seguivano ogni suo spostamento, sebbene quella mattina fosse riuscita a seminarli.

    La donna salì a bordo dell'Aurora come se si stesse calando nella bara e sfilò accanto all'equipaggio schierato senza degnarlo di uno sguardo o di un saluto, passando così vicino all'uomo chiamato Colin Hernandez che lui dovette reprimere l'impulso improvviso di toccarla per essere certo che fosse davvero lei e non un ologramma. Cinque minuti dopo l'Aurora scivolava sulle acque del porto, e verso mezzogiorno la magica isola di Saint Barthélemy era solo una macchia verde e bruna all'orizzonte. Sdraiata sul ponte di prua con un bicchiere in mano, in topless, il sole che le dorava la pelle perfetta, c'era la donna più famosa del mondo. E sul ponte sotto di lei, intento a preparare un antipasto di tartare di tonno, cetrioli e ananas, c'era l'uomo che stava per ucciderla.

    2

    Al largo delle isole Sopravento

    La storia era nota a tutti. E persino quelli che fingevano disinteresse o guardavano con disprezzo il vero e proprio culto di cui era oggetto in tutto il mondo conoscevano anche il più sordido dettaglio. Lei era la ragazza middle class del Kent, tanto bella quanto timida, che era riuscita ad arrivare a Cambridge; lui, un po' più anziano di lei, l'attraente futuro re d'Inghilterra. Si erano conosciuti durante un dibattito pubblico al college, qualcosa che riguardava la tutela dell'ambiente, e stando alla versione ufficiale il principe si era innamorato all'istante. Ne era nato un lungo corteggiamento, silenzioso e discreto. La ragazza era stata passata al vaglio dai familiari del principe, il principe dai familiari di lei. Finché uno dei quotidiani più irriverenti era riuscito a scattare una foto della coppia mentre usciva da Belvoir Castle, alla fine dell'annuale ballo estivo del duca di Rutland. Buckingham Palace aveva rilasciato un blando comunicato per confermare l'ovvio, cioè che il principe e la ragazza middle class senza sangue blu uscivano insieme. Un mese dopo, con i tabloid infervorati a rincorrere voci e speculazioni, la corte annunciò che la ragazza middle class e il principe intendevano sposarsi.

    Si unirono in matrimonio nella cattedrale di St. Paul un mattino di giugno, mentre dal cielo dell'Inghilterra meridionale si riversavano scrosci di pioggia nera. In seguito, quando il matrimonio andò a rotoli, più di uno nella stampa britannica scrisse che la loro sorte era segnata fin dall'inizio. La ragazza era del tutto inadatta alla vita nell'acquario di corte, sia per carattere che per educazione; e il principe, per le stesse ragioni, era inadatto al matrimonio. Lui aveva molte amanti, troppe per poterle contare, e lei si vendicò portandosi a letto una delle sue guardie del corpo. Il principe, quando seppe dell'avventura, fece spedire l'agente in un solitario avamposto militare in Scozia. La ragazza, sconvolta, tentò il suicidio con un'overdose di sonnifero e fu portata d'urgenza al pronto soccorso del St. Anne's Hospital. Secondo Buckingham Palace soffriva di disidratazione a causa di una grave influenza. Alle richieste di spiegazioni sul perché suo marito non era andato a farle visita in ospedale, dagli ambienti di corte si mormorò qualcosa su impegni pregressi a cui era impossibile sottrarsi. Com'era prevedibile, la dichiarazione suscitò molte più domande di quelle a cui rispose.

    Una volta dimessa, agli osservatori degli affari di corte apparve ovvio che la bellissima moglie del principe non stava affatto bene. Ciononostante fece il suo dovere coniugale dandogli due eredi, un maschio e una femmina, entrambi partoriti dopo gravidanze difficili e concluse prematuramente. Il regale consorte le dimostrò la sua gratitudine infilandosi nel letto di una donna a cui una volta aveva chiesto di sposarlo e la principessa si vendicò diventando così famosa da eclissare la notorietà della venerata madre del marito. Girava il mondo per sostenere cause umanitarie, con un'orda di giornalisti e fotografi al seguito pronti a immortalare ogni suo gesto, ogni sua parola; eppure nessuno mai sembrò accorgersi che la principessa stava scivolando verso qualcosa di molto simile alla pazzia. Alla fine, con la sua benedizione e una tacita collaborazione, la verità emerse dalle pagine di un libro: le infedeltà del marito, gli attacchi di depressione, i tentativi di suicidio, i disordini alimentari causati dalla costante esposizione alla curiosità della stampa e del pubblico. Furibondo, il principe fece in modo che sui giornali uscisse una nutrita serie di fughe di notizie sul comportamento imprevedibile della moglie. Poi, il colpo di grazia: la registrazione di un'appassionata conversazione telefonica tra la principessa e il suo amante. Agli occhi della regina, si era ormai passato il segno.

    Con la reputazione della monarchia a repentaglio, la sovrana impose al figlio di divorziare quanto prima. Lui ottemperò alla richiesta un mese dopo. Buckingham Palace emise un comunicato in cui la separazione della coppia reale veniva definita, senza nessuna traccia di ironia, amichevole.?Alla principessa fu concesso di tenere i propri appartamenti a Kensington Palace, ma fu privata del titolo di Sua Altezza Reale. La regina le offrì un titolo onorifico meno prestigioso, ma lei rifiutò, preferendo tornare al suo nome di famiglia. Si liberò inoltre delle guardie del corpo dell'SO14, che vedeva più come spie che come tutela della sua incolumità. Da corte continuarono a controllare con discrezione i suoi spostamenti e le sue frequentazioni, lo stesso faceva l'intelligence britannica che vedeva nella ragazza una seccatura più che una minaccia per il regno.

    In pubblico indossava il volto caritatevole e luminoso dell'impegno umanitario. Ma in privato, a porte chiuse, andava giù pesante con l'alcol e si era circondata di un entourage di persone che un consigliere della casa reale definì semplicemente eurofeccia. Tuttavia in questa vacanza gli accompagnatori al suo seguito erano meno del solito. Le due donne abbronzate erano amiche d'infanzia; l'uomo che si era imbarcato sull'Aurora con una bottiglia di champagne aperta era Simon Hastings-Clarke, lo spudoratamente ricco visconte che le garantiva lo stile di vita cui era abituata. Era Hastings-Clarke a farla viaggiare per il mondo sui jet privati della sua flotta aerea, ed era sempre lui a pagare il conto per le guardie del corpo. I due uomini della scorta per il viaggio nei Caraibi lavoravano per una società di sicurezza privata di Londra. Prima della partenza da Gustavia, avevano sottoposto la barca e l'equipaggio a un'ispezione a dir poco superficiale. All'uomo chiamato Colin Hernandez avevano posto una sola domanda: «Cosa ci prepara per pranzo?».

    Su richiesta dell'ex principessa fu preparato solo un leggero buffet, al quale peraltro né lei né i suoi amici dedicarono molta attenzione. Quel pomeriggio bevvero come spugne, arrostendosi al sole che cuoceva il ponte, finché un acquazzone li costrinse a rifugiarsi nelle confortevoli cabine. Lì restarono fino alle nove di sera, quando uscirono abbigliati e in perfetto ordine, come se stessero andando a un party estivo nel Somerset. Iniziarono con cocktail e tartine sul ponte di poppa, poi si trasferirono nel salone per la cena: insalata con vinaigrette al tartufo, seguita da risotto all'aragosta e carré di agnello con carciofi, riduzione di limone, zucchine e piment d'argile. L'ex principessa, le sue amiche e il visconte commentarono all'unanimità che la cena era stata grandiosa e chiesero di poter conoscere lo chef. Quando finalmente lo chef si presentò, lo accolsero con un gioioso applauso quasi infantile.

    «Che cosa ci preparerà domani sera?» chiese l'ex principessa.

    «Sarà una sorpresa» rispose lui, con quel suo particolare accento.

    «Ottimo» replicò lei, con lo stesso sorriso che lo chef aveva visto sulle copertine di una marea di riviste. «Mi piacciono le sorprese.»

    L'equipaggio era poco numeroso – otto persone in tutto – per cui allo chef e alla sua aiutante spettava anche il compito di occuparsi delle stoviglie di porcellana, dei calici di cristallo, delle posate d'argento, del pentolame e degli utensili da cucina. Lavorarono l'uno accanto all'altra davanti al lavello per un bel po' di tempo dopo che l'ex principessa e il suo seguito furono andati a dormire; le mani di tanto in tanto si toccavano sopra l'acqua saponata calda, il fianco snello di lei premeva sulla coscia di lui. Quando si strinsero per entrare nella cabina armadio della biancheria da tavola, i capezzoli turgidi di lei gli tracciarono due linee sulla schiena, trasmettendogli una scarica di eccitazione all'inguine. Si ritirarono ciascuno nella propria cabina, ma pochi minuti dopo lui sentì bussare alla porta, un tocco lieve come quello di una farfalla. La ragazza si fece prendere senza emettere un suono. Fu come fare l'amore con una muta.

    «Magari è stato un errore» sussurrò lei alla fine.

    «Perché dici così?»

    «Perché lavoreremo insieme per un bel po'.»

    «Non è detto.»

    «Hai già in mente di andartene?»

    «Dipende.»

    «Da cosa?»

    Lui non aggiunse altro. Lei gli appoggiò la testa sul petto e chiuse gli occhi.

    «Non puoi stare qui» disse lui.

    «Lo so» rispose lei, con voce assonnata. «Solo per un attimo.»

    Restò immobile a lungo, con Amelia List che gli dormiva sul petto e l'Aurora che saliva e scendeva sotto di lui. La sua mente riesaminava nei dettagli i prossimi passi da compiere. Poi, alle tre di notte, sgusciò via dalla cuccetta, nudo, e raggiunse a tentoni l'armadio. In silenzio si vestì con un paio di pantaloni neri, un maglione di lana e una giacca a vento scura. Rimosse l'involucro del pacco – il pacco da cinquanta centimetri per trenta, del peso di sette chili e duecento grammi – e collegò l'alimentazione elettrica e il timer al detonatore. Rimise il pacco nell'armadio e stava per recuperare la Stechkin quando sentì la ragazza muoversi dietro di lui. Si girò con calma e la fissò nel buio.

    «Che cos'hai lì?» chiese lei.

    «Torna a letto.»

    «Ho visto una luce rossa.»

    «È la mia radio.»

    «Ascolti la radio alle tre di notte?»

    Prima che potesse risponderle, la luce notturna si accese. Lei sbatté le palpebre nel vederlo tutto vestito di scuro, poi il suo sguardo si posò sulla pistola con il silenziatore che gli pendeva dalla mano. Fece per gridare ma lui le mise con forza la mano sulla bocca prima che ne uscisse il minimo suono. La ragazza tentò di liberarsi dalla presa e lui le accostò le labbra all'orecchio. «Non avere paura, amore mio» le sussurrò carezzevole. «Non farà tanto male.»

    Amelia sbarrò gli occhi, terrorizzata. Lui le piegò la testa con violenza verso sinistra, spezzandole l'osso del collo. E la sorresse con dolcezza mentre moriva.

    Non era consuetudine che Reginald Ogilvy facesse il secondo turno di guardia, con le sue ore di solitudine, ma era in pensiero per la sicurezza della sua famosa passeggera. Così salì sul ponte di comando dell'Aurora piuttosto presto, quel mattino. Stava controllando le previsioni meteorologiche su uno dei computer di bordo, sorseggiando una tazza di caffè, quando l'uomo chiamato Colin Hernandez apparve in cima alla scala di boccaporto, vestito di nero da capo a piedi. Ogilvy alzò lo sguardo stupito. «Cosa ci fa qui?» chiese. L'unica risposta che ricevette furono due pallottole della Stechkin silenziata che perforarono l'uniforme squarciandogli il petto. La tazza di caffè si infranse rumorosamente sul pavimento; Ogilvy si accasciò con un tonfo sordo accanto a essa. Il suo assassino raggiunse con calma il quadro comandi, rettificò leggermente la rotta dello yacht e scese dalla scala di boccaporto. Il ponte principale era deserto; nessuno dei membri dell'equipaggio era di turno in quel momento. Calò nell'acqua nera uno dei gommoni Zodiac, salì a bordo e slegò la fune che lo legava alla nave.

    Alla deriva, per qualche istante lasciò il canotto dondolare sotto le ultime stelle che ancora luccicavano come diamanti, mentre osservava l'Aurora fendere le acque in direzione delle rotte commerciali dell'Atlantico, senza nessuno a pilotarla: una nave fantasma. Controllò il quadrante luminoso dell'orologio e quando la lancetta del cronometro toccò lo zero alzò di nuovo lo sguardo. Trascorsero altri quindici secondi, un tempo sufficiente a fargli considerare la remota possibilità che la bomba fosse difettosa. Un attimo dopo si accese un lampo di luce all'orizzonte: il bianco accecante dell'esplosivo ad alto potenziale, seguito dal giallo-arancio dell'esplosione secondaria e dell'incendio.

    Il suono fu come il rombo di un tuono lontano. Poi si udì solo lo sciabordio del mare contro la fiancata dello Zodiac e il soffio del vento. Premendo un pulsante, il killer avviò il motore fuoribordo e restò a guardare mentre l'Aurora iniziava il suo viaggio verso il fondo del mare. Diresse lo Zodiac a ovest e diede gas.

    3

    Mar dei Caraibi – Londra

    Il primo segnale che qualcosa non andava arrivò dalla Pegasus Global Charters di Nassau, che riferì di non aver ricevuto risposta a un messaggio di routine da parte di uno dei suoi battelli, uno yacht di cinquanta metri chiamato Aurora. Il centro operativo della Pegasus chiese immediatamente assistenza a tutte le navi mercantili e da diporto che incrociavano nelle acque delle isole Sottovento, e nel giro di qualche minuto l'equipaggio di una petroliera battente bandiera liberiana riferì di aver notato un insolito lampo di luce, all'incirca verso le 3.45 di quel mattino. Poco dopo, i marinai di una nave portacontainer scorsero uno dei canotti di salvataggio dell'Aurora che andava alla deriva, vuoto, più o meno a un centinaio di miglia a sud-sudest di Gustavia. Nello stesso momento, una barca a vela si imbatté in alcuni giubbotti di salvataggio e altri detriti che galleggiavano sulle onde poche miglia a ovest. Temendo il peggio, i dirigenti della Pegasus chiamarono l'Alto commissariato britannico a Kingston per informare il console onorario che l'Aurora risultava disperso, presumibilmente affondato. Poi gli trasmisero copia dell'elenco dei passeggeri, che comprendeva il nome dell'ex principessa. «Ditemi che non è lei» esclamò incredulo il console, ma i dirigenti della Pegasus non poterono che confermare l'identità della passeggera. Il console avvertì immediatamente i suoi superiori del Foreign Office, a Londra, i quali stabilirono che la situazione era abbastanza grave da svegliare il primo ministro Jonathan Lancaster. A quel punto la crisi ebbe davvero inizio.

    Il primo ministro chiamò il principe per dargli la notizia all'una e mezza di notte, ma attese le nove del mattino successivo per informare dell'accaduto la popolazione inglese e il resto del mondo. Davanti alla porta nera del numero 10 di Downing Street, il volto atteggiato a un'espressione severa, riassunse i fatti noti fino a quel momento. L'ex moglie del principe si era recata nei Caraibi in compagnia di Simon Hastings-Clarke e di due amiche di vecchia data. Giunto nell'isola di Saint Barthélemy, il gruppo si era imbarcato sullo yacht Aurora, noleggiato per una crociera della durata prevista di una settimana. Non c'era più stato nessun contatto con la nave ed erano stati rinvenuti dei detriti in superficie. «Noi speriamo e preghiamo che la principessa venga ritrovata sana e salva» concluse solennemente il primo ministro. «Ma purtroppo dobbiamo essere pronti al peggio.»

    Durante il primo giorno di ricerche, non furono trovati superstiti né altri rottami. Il secondo e il terzo giorno non conobbero una sorte migliore. Dopo un colloquio con la regina, Lancaster annunciò che il governo agiva presumendo che l'amata principessa fosse ormai morta. Nei Caraibi le squadre di ricerca concentrarono gli sforzi sul ritrovamento del relitto più che su quello dei corpi. L'impresa si rivelò più breve del previsto. Quarantott'ore dopo, un sottomarino telecomandato della marina militare francese ritrovò l'Aurora che giaceva a sessanta metri di profondità in fondo al mare. Un esperto esaminò le immagini video e giunse alla conclusione che l'imbarcazione avesse subito danneggiamenti di gravi proporzioni, quasi sicuramente un'esplosione. «La domanda è: si è trattato di un incidente o di un gesto deliberato?»

    La maggior parte della popolazione – secondo un sondaggio affidabile – si rifiutava di accettare la morte della principessa. Le speranze si aggrappavano al fatto che solo due degli Zodiac di salvataggio dell'Aurora erano stati ritrovati. Di sicuro, diceva la gente, era alla deriva in mare aperto o approdata su qualche isoletta deserta. Un sito web dalla pessima fama arrivò a riferire che la principessa era stata avvistata sull'isola di Montserrat. Un altro sostenne che in realtà viveva tranquilla nella sua casa in riva al mare, nel Dorset. Complottisti di ogni risma elaborarono fosche teorie su un complotto per uccidere la principessa ordito dal Consiglio privato della regina e portato a termine dall'intelligence britannica, meglio nota come MI6. Graham Seymour, capo del servizio, fu sottoposto a crescenti pressioni perché emanasse una risoluta smentita alle accuse, ma rifiutò con decisione. «Qui non si tratta di accuse circostanziate» disse Seymour al ministro degli Esteri, nel corso di una riunione piuttosto tesa nel vasto quartier generale del servizio, sulle rive sul Tamigi. «Queste sono storielle inventate di sana pianta da speculatori malati di mente, cui non intendo concedere la dignità di una risposta.»

    Dentro di sé, però, Seymour era certo che l'esplosione a bordo dell'Aurora non fosse stata accidentale. Opinione condivisa anche dal suo omologo della DGSE, l'efficiente servizio di spionaggio francese. Gli esperti che avevano esaminato le riprese del sommergibile avevano stabilito che l'Aurora era stato fatto saltare in aria da una bomba esplosa sottocoperta. Ma chi aveva collocato l'ordigno a bordo? E chi aveva attivato il detonatore? Il principale sospettato, secondo la DGSE, era l'uomo assunto per rimpiazzare lo chef di bordo dell'Aurora.

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