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Una giornata dall'aria antica
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E-book91 pagine1 ora

Una giornata dall'aria antica

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Nassiriya. Un nome che nella memoria collettiva italiana è immediatamente associato a termini, quali «strage» «missione di pace», «guerra». Sotto il nome di «attentati di Nassiriya», infatti, si collocano alcuni attentati avvenuti dal 2003 al 2006 contro le forze armate italiane che, nel corso della guerra in Iraq, partecipavano alla missione «Operazione Antica Babilonia». Ma cosa affiora nel cuore di coloro che, in maniera più o meno diretta, con quegli attentati hanno avuto a che fare? Antonella Serrenti prova ad andare oltre il velo dei propri ricordi. Quel 12 novembre 2003 – giorno del primo grave attentato – suo figlio era lì, di stanza a Nassiriya. Nel racconto autobiografico che dà il titolo all’intera raccolta, l’autrice definisce quella dell’attentato «una giornata dall’aria antica». «Devo uscire, devo andar via, mi manca l’aria. Arrivo volutamente davanti alla caserma dei carabinieri: i gradini sono pieni di fiori e la bandiera è a mezz’asta. Adesso le campane della chiesa suonano come fosse Venerdì Santo, quando la Madonna esce disperata in cerca di Gesù: rintocchi lenti e tristi, come quelli del mio cuore. A casa accendo la tv, è un bollettino di guerra, immagini terrificanti. Mi sembra di vedere mio figlio! No! Lui è più alto. O è lui? Le lacrime non finiscono più. Squilla il telefono». Lo sguardo si allarga, poi, ad altre situazioni simili a quelle che l’autrice ha vissuto: negli altri racconti, che sono frutto della sua fantasia, Antonella Serrenti prova a immaginare le sensazioni e le emozioni di madri, padri, figli e figlie, ma anche di politici e, con coraggio, di chi quegli attentati li ha compiuti.
LinguaItaliano
Data di uscita3 nov 2016
ISBN9788893720045
Una giornata dall'aria antica

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    Una giornata dall'aria antica - Antonella Serrenti

    Paese

    Foto di guerra

    Antioco soleva fare una passeggiata per il paese prima di colazione. Gli piaceva guardare l’arrivederci che la luna e il sole si scambiavano ogni giorno, vedere la magia del cielo e della terra rivestirsi di fresco, e lasciare che questa si prendesse cura di lui, ricaricandolo di quell’energia che i suoi ottantasette anni faticavano a recuperare. A quell’ora poi, non c’era quasi nessuno in giro, a parte gli spazzini che ritiravano i sacchetti pieni di quello che era rimasto di un nuovo ieri già svanito.

    I negozi erano ancora chiusi, le campane delle chiese e gli abitanti del luogo dormivano placidamente.

    Quella mattina, camminò in mezzo alle vie deserte, ignorando le case di nuova costruzione sprangate da astruse porte blindate, e fregiate con pomelli dorati. Ripensò al paese di sessanta anni addietro, quando a nessuno sarebbe venuto in mente di chiudere usci o finestre, e soltanto cavalli, pecore o qualche bicicletta ne calcavano le strade battute.

    Realizzò che poche erano le cose che avevano sfidato il tempo o la magia dell’orizzonte, laddove il mare cristallino incontrava l’azzurro del cielo carezzando l’evidente bellezza di un luogo impreziosito dal sole. In quella posizione, il paese appariva agli occhi di chi lo vedeva per la prima volta, come appena emerso dal mare, e in ciò era fedele ai ricordi. Ma tutto il resto sì, era cambiato!

    Certo, alla sua età si viveva di vecchie immagini velate e seppiate dal tempo, ma il loro turbinare tra le mura della sua mente alcune volte lo infastidiva.

    Ruminando pensieri e parole, arrivò al bar del porto – che a quell’ora era già aperto – dove il solito gruppo di giovani pescatori e bagarini faceva colazione. Si sedette vicino a loro e venne subito coinvolto nelle chiacchiere generali, sebbene con la deferenza che solitamente i ragazzi riservano alle persone anziane. Si parlava di pesca, dei prezzi del pesce sul mercato, ma l’argomento che più eccitava gli animi e imporporava i visi era il plauso dovuto, nel bene e nel male, all’adorata squadra del Cagliari. Erano freschi e sani, con braccia robuste come tronchi d’albero messe in risalto dalle T-shirt (prima si chiamavano magliette) aderenti.

    Erano audaci e sfacciati, un po’ gliela invidiò quella loro spavalda giovinezza. Si vide scalzo, con i pantaloni arrotolati sui polpacci, tirare le reti in barca e cantare «Se potessi avere mille lire al mese…», il suo viso era giovane e fresco come il loro, senza quelle rughe che oggi raccontavano di dolore e di storia.

    Chissà – pensava di nuovo lucido – se spalancare porte e inventariare pezzi del passato, è un bene o un male.

    Quel giorno compiva ottantasette anni e di certo gli rincresceva perdere il futuro. Voleva altro tempo ma, come ogni essere vivente, anche lui aveva il suo. Soffiò sul caffè che il cameriere gli aveva messo davanti, creando piccole increspature sulla superficie di quel liquido caldo. Era nero e forte proprio come piaceva a lui e lo gustò lentamente ripensando al suo medico che, con analisi alla mano, gli propinava l’immagine della senilità, immagine lontana dal meraviglioso crogiolarsi al sole in quel lungomare da cartolina.

    Antioco sospirò, prese dalla tasca il portafogli e mentre contava i soldi per pagare la consumazione, un quadratino di carta gli cadde per terra; lo raccolse e si rese conto che stava per smarrire una vera e propria reliquia: il suo adorato francobollo, appartenente alla serie tematica Le Istituzioni e dedicato alla sua Brigata Sassari, regalo di qualche anno prima.

    Che diavolo, doveva stare da tutt’altra parte, questo!

    L’illustrazione presente nel francobollo raffigurava, su uno sfondo colorato, a sinistra lo stemma della Brigata Sassari con il motto Sa Vida Pro Sa Patria (la vita per la Patria), e a destra in alto le quattro medaglie d’oro («Mai eguagliate da nessun’altra unità», soleva ricordare lui). Al centro dell’illustrazione invece, spiccavano le sagome dei Diavoli Rossi, nome dato dagli austriaci ai soldati di quella Brigata per via del colore rosso delle loro mostrine durante l’azione di attacco nella Battaglia dei Tre Monti (Tanta vita è passata da allora…).

    Fu come se il tempo girasse attorno a quel quadratino di carta colorato e l’uccellino della radio Telefunken annunciasse l’ennesimo bollettino di guerra.

    Non fu più oggi, non fu più presente…

    È un crescendo di tormenti del corpo e dell’anima, di rancore nei confronti di una guerra astrusa, ladra di giovinezze e di domande senza risposta – contro chi e per chi combattevamo –, il tempo che non passa mai e i nervi che si logorano. In trincea le giornate hanno tutte lo stesso colore della mota, demarcate da pareti spesse come stanze che assumono le sembianze dell’attesa, dove anche il più piccolo fruscio ci inquieta; le nostre orecchie ormai captano anche il più debole segnale sonoro. Sono diversi giorni che insaccati nei pastrani, seviziati dal freddo e martoriati dai pidocchi, dalle pulci e dalle cimici (che neanche a lasciarli bollire con i nostri vestiti nei grandi mastelli pieni d’acqua si decidono a morire), aspettiamo ordini che non arrivano.

    Il nemico è vicino, lo sentiamo dai colpi secchi dei fucili e dai razzi che disegnano verdi ghirigori nel cielo notturno. Ma anche senza queste esibizioni ne avvertiamo l’odore: le nostre narici hanno sviluppato capacità olfattive degne di un naso-profumiere! Neanche le sigarette fumate rigorosamente dentro le trincee e con la parte luminosa all’interno della bocca per evitare il fuoco dei cecchini le hanno alterate. E, a dire il vero, quelle sigarette ci sono necessarie per allontanare il fetore dei cadaveri di compagni e nemici che forse nessuno mai seppellirà…

    Sigarette o no, è la paura di farsi rubare la vita a esacerbare sensi e sensazioni: l’inquietudine non risparmia nessuno e si manifesta in modi diversi e all’improvviso, con singulti e tremori, crisi di vomito e diarrea, con ribellioni e diserzioni, e anche con pazzia e suicidi. Le nostre giovani anime hanno perduto la baldanza dell’età, svelando paure e rivelando una grande riserva di lacrime della quale pensavano di essere prive.

    «La staffetta non è ancora arrivata», sussurra in dialetto Efisio; gli ordini sono di non causare nessun rumore, e noi evitiamo persino di bere per la paura di sbattere la borraccia dell’acqua contro la gavetta. Anche i topi, con i quali condividiamo la tana, restano nascosti.

    Ma il terrore più grande è, per assurdo, lasciare la sicurezza della trincea per lanciarsi all’attacco verso un oscuro, insidioso

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