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Un'altra verità: La Sardegna nera del maresciallo Dioguardi
Un'altra verità: La Sardegna nera del maresciallo Dioguardi
Un'altra verità: La Sardegna nera del maresciallo Dioguardi
E-book300 pagine4 ore

Un'altra verità: La Sardegna nera del maresciallo Dioguardi

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Info su questo ebook

Bonela, centro Sardegna, fine anni ’60, carnevale: il maresciallo dei carabinieri Dioguardi è alle prese con la sua seconda indagine nel “cuore nero” di una Sardegna che sembra immobile nel tempo, un tempo fatto di pietra: Narciso Aggius, un servo pastore al servizio di Tonneddu Corrias viene trovato ucciso con la testa sfondata, modalità omicidiarie che qualcuno rimanda al cosiddetto “Codice barbaricino”, regole millenarie che sembrano ancora disciplinare la società sarda. A questo si aggiungono i torbidi rapporti all’interno della famiglia Corrias: Narciso Aggius ufficialmente è un orfano raccolto da Tonneddu Corrias per pietà cristiana, ma le voci ufficiose lo dicono figlio bastardo di Antonia Muscau, moglie di Tonneddu; Gesuino, il figlio naturale dei Corrias, è un uomo debole succube di un padre dispotico e di una moglie, Chiarella Fadda, che trova rifugio in un rapporto adulterino proprio con Narciso, contemporaneamente insidiata e concupita dal suocero. Gesuino finirà suicida. Che in tutto questo c’entri la rapacità di Tonneddu Corrias col suo onore ferito dal rifiuto della donna, al punto da istigare, poi, il figlio al suicidio? Oppure il timore che “la roba” possa finire a un bastardo? E se la verità, invece, fosse da cercare tra le pieghe di un mondo arcaico dove antiche divinità sanguinarie pretendono riti sacrificali? A complicare ulteriormente la vicenda c’è la morte di un vecchio pastore ucciso con un moschetto, un residuato bellico. È una Sardegna che sembra combattere tra arcaicità e modernità, in bilico sul crinale di un cambiamento epocale, dove, in certi cuori antichi, possono ancora albergare sentimenti di una brutalità selvaggia, ma “i cuori nuovi” ne stanno ormai prendendo il posto e niente sarà più come prima. Questa è la convinzione di Carmine Dioguardi, di sua moglie, che veglia su di lui e lo consiglia, e, soprattutto, di Matteo Ricciu, un ex maresciallo, che conosce bene quella terra e i suoi abitanti.

Nicola Verde è nato a Succivo (CE) il primo marzo 1951, è sposato e ha un figlio; vive a Roma. Vincitore di alcuni prestigiosi premi dedicati al giallo, alla fantascienza e al fantastico, è presente in numerosissime antologie (Giallo Mondadori, Hobby & Work, Del Vecchio, Perdisa, Dario Flaccovio, Robin, Fratelli Frilli Editori, Delos ecc.). Ha pubblicato i seguenti romanzi: Sa morte secada, (Dario Flaccovio ed. 2004; Delos Digital 2015; Fratelli Frilli Editori ed. 2020; 2/7/2021 in edicola con “La Nuova Sardegna”) prefazione di Luigi Bernardi, semifinalista al premio Scerbanenco; Un’altra verità, (Dario Flaccovio ed. 2007), prefazione di Marcello Fois, vincitore del premio Qualità editori indipendenti; Le segrete vie del Maestrale, (Hobby & Work 2008), prefazione di Ben Pastor, finalista al Festival Mediterraneo del giallo e del noir; La sconosciuta del lago, (Hobby & Work 2011), liberamente ispirato al caso di Antonietta Longo, la decapitata di Castelgandolfo (il romanzo è stato vincitore della sez. romanzi storici al Festival Mediterraneo del giallo e del noir); Verità imperfette (Del Vecchio 2014), “romanzo noir a più mani a incastri multipli”; Il marchio della bestia (Parallelo45 2017), quarto romanzo della “serie sarda”; Il vangelo del boia (Newton Compton 2017) già finalista al Tedeschi, è stato semifinalista allo Scerbanenco e finalista al premio Acqui Storia 2018, sezione romanzi storici; Mastro Titta e l’accusa del sangue (Fratelli Frilli Editori 2021) finalista al Premio Letterario Giorgione; Il profumo dello stramonio (La Lepre ed. 2021).
LinguaItaliano
Data di uscita28 giu 2022
ISBN9788869436277

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    Un'altra verità - Nicola Verde

    SuperNoir

    Bross

    Nicola Verde

    Un’altra verità

    La Sardegna nera del maresciallo Dioguardi

    Prefazione di Marcello Fois

    Il nostro indirizzo internet è:

    http://www.frillieditori.com

    info@frillieditori.com

    copyright © 2022 Fratelli Frilli Editori

    Via Priaruggia 33R, Genova – Tel. 010.3071280

    ISBN 978-88-6943-624-6

    ISBN ePub 978-88-6943-627-7

    Ai miei affetti innanzitutto.

    A mia moglie Raimonda e a mio figlio Claudio senza i quali né io né il maresciallo Dioguardi avremmo ragione di esistere.

    A mio padre e a mia madre senza i quali né io né il maresciallo Dioguardi esisteremmo.

    A Luigi Bernardi di cui sento ancora la mancanza

    Lui è dolce quando cade a terra tra le schiere che corrono tumultuanti con pelle di cerbiatto come sacra veste, assetato del sangue d’un capro ucciso afferrando la gioia di carne vivente divorata…

    (Euripide, Baccanti)

    Indice

    Prefazione

    PARTE PRIMA

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    XXIV

    XXV

    XXVI

    XXVII

    PARTE SECONDA

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    NOTA DELL’AUTORE

    RINGRAZIAMENTI

    Dello stesso autore nel catalogo Fratelli Frilli Editori

    Prefazione

    Nicola Verde scrive anche di Sardegna. E ne scrive con un punto di vista che a me sardo di dentro pare congruo a un sardo di fuori. Ciò non sembri una critica perché vuole essere un complimento, non sarebbe perdonabile da parte mia che perorassi l’ingresso della mia terra nel territorio della letteratura e poi pretendessi che gli unici ad avere questo appannaggio fossero gli autori autoctoni. Quando la Sardegna è, o è diventata, un territorio letterario, come tutti i territori letterari soffre e gioisce. Ciò accade a prescindere dal luogo di nascita di chi ne scrive, e si potrebbe dire lo stesso della Sicilia: esiste una differenza evidente tra l’approccio analitico, dall’interno, caustico, di uno Sciascia e l’approccio esterno, contemporaneamente distante e giustificatorio, di un Puzo.

    La Sardegna vista da Nicola Verde non sfiora il pericolo di folklorismo, e questo già fa tirare un sospiro di sollievo: aspettatevi di tutto, ma non avrete odore di pecorino. Questi sardi parlano una lingua comprensibile e schivano come slalomisti esperti le imboscate del luogo comune. Pelliti magari, magari testardi (capite bene che per i sardi la testardaggine è il corrispondente della gelosia per i siciliani) ma mai ridicoli, e ciò mi pare una qualità enorme di questo scrittore. Considerate che nemmeno certi autori sardi sono a tutt’oggi riusciti a descrivere sardi credibili, e ciò perché non è detto che i luoghi comuni si coltivino fuori dal territorio di competenza. Esiste anche una mente colonizzata che li produce abbondantemente dall’interno.

    I sardi da macchietta non dimenticano e si vendicano, ma quelli della Storia obbediscono, e muoiono in guerra, tutti piccoli tamburini atticciati e sprezzanti del pericolo. Testardi appunto anche nei confronti dell’ineluttabile. Ecco, sotto certi aspetti, segretamente, Nicola Verde racconta qualcosa di questo paradosso della virtù. Questo pregio della tenacia, non si sa più se derivante dalla retorica o dalla genetica, che ha finito per convincere i sardi per primi. Certo lo racconta con una mano piena di comprensione e anche una certa ammirazione come succede a certi giovani fidanzati che non vedono le rughe della propria amata. Così, sotterraneamente, lavorano i luoghi comuni: convincendo le vittime di essere dei privilegiati. I cento e passa mila sardi che partirono per il Carso non sapevano quanto pesasse il privilegio di essere designati custodi della Patria e fautori della nuova unità. Determinare personaggi e territori illuminati da autocoscienza e sentimento di appartenenza fa la differenza tra scrivere di un posto per approdare a tutti i posti, e scrivere dei posti per approdare al lettore. Nicola Verde questa differenza la conosce bene.

    Marcello Fois

    PARTE PRIMA

    I

    «Ceomo è morto!».

    «Il suo corpo va bruciato!».

    «Amen!».

    II

    Un altro morto a Bonela nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Un secondo, cioè, a così breve distanza da quello ormai tristemente famoso di Cosimo Frau. Almeno non di pari efferatezza, ché da quelle parti un altro ammazzamento, magari a pallettoni per cinghiali, ci poteva anche stare («Siamo tutti premorenti», gli aveva una volta confidato un vecchio, quasi che a Bonela, e forse nella Sardegna tutta, la morte fosse una coinquilina con la quale convivere, volenti o nolenti).

    Eppure, in un ovile del monte Saru, un altro assassinio c’era stato: il corpo semicarbonizzato, la testa sfondata, mani e piedi legati, impastoiati come per gli animali. Per giunta, lo scimunito del paese. Uno, cioè, con poco cervello, non del tutto intelligente, insomma. Chi poteva avercela avuta con uno come lui fino a quel punto?

    Era stato un ammazzamento feroce. Ferus, selvaggio! aveva meditato Carmine Dioguardi, maresciallo dei carabinieri, rimuginando quanto gli rimaneva di un sapere ginnasiale.

    «Selvaggi, andremo tra i selvaggi», aveva detto più o meno un paio di anni prima alla moglie, quando aveva appreso di quel suo trasferimento in Sardegna. «Selvaggi e briganti!», che poi per lui erano la stessa cosa.

    Era l’anno e il mese in cui a Osposidda Graziano Mesina e il suo complice spagnolo avevano ammazzato un paio di poliziotti. E adesso che Mesina era stato ripreso, ci sarebbe stato il processo. La cosa, chissà perché, gli pareva ben augurante. Culpam poena premit comes. Altra vaga reminiscenza. Ce l’aveva come motto.

    Ma via! Quel secondo ammazzamento, quando l’altro ancora gli bruciava come sale su una ferita... quel motto avrebbe dovuto sigillarlo in fondo a un cassetto, almeno per un po’.

    L’annuncio glielo aveva portato Basilio Lotri rovinandogli la festa per il carnevale. Anche se, a pensarci bene, i presagi nefasti c’erano già tutti fin da quando aveva visto sfilare le maschere per il corso.

    E adesso, che si trovava su quel monte, all’ovile, s’era predisposto con gli occhi della mente, per così dire, a coglierli in qualche modo, i segni premonitori.

    Per prima cosa aveva rivisto Matteo Ricciu sussurrargli in un orecchio:

    «È un uomo bilioso», mentre gli indicava con un gesto della testa un uomo che si allontanava. Come dire: potevi aspettarti altro?

    E lui a stringersi nelle spalle, come per rispondere: per niente, in verità un po’ perplesso.

    L’uomo era tale Tonneddu Corrias, uno dei più ricchi di Bonela, anche se a vederlo così trasandato nel vestire sembrava piuttosto un pastore ben piantato sulle gambe, rozzo e con le dita grosse, ruvide e callose. La prima volta che gli si era presentato, nell’allungare la mano, al nome aveva fatto seguire un: «Proprietario!», e niente altro, come se quello fosse stato un titolo nobiliare o qualcosa del genere. E alla stravaganza di quella prima si era poi sostituita una bruschezza di modi che molte volte aveva rasentato la maleducazione.

    Come era stato in quel momento.

    Lo aveva seguito con gli occhi mentre si allontanava nella confusione della piazza. Poi lo aveva perso. Distrattamente, nel mentre dal fondo della strada avevano preso a risalire le maschere. La piazza era ingombra di bancarelle; sul sagrato della chiesa la banda suonava delle marcette.

    «Bilioso?», aveva ripetuto vagamente, con lo sguardo ancora perso tra la folla. Era stato come se ci avesse riflettuto e non ne avesse cavato niente.

    «Del pallore proprio dei biliosi», aveva recitato Matteo, forse riferendosi al colore livido dell’uomo. «E soprattutto ricco».

    Lui aveva riportato gli occhi sull’amico: Matteo Ricciu era un uomo asciutto, muscolatura nervosa, che mostrava meno dei suoi sessantanove anni, ex maresciallo che ai suoi tempi aveva prestato servizio anche a Bonela. E adesso col chiodo delle memorie, le sue beninteso, ché di fatti, in oltre quarant’anni di onorato servizio, ne aveva da raccontare, eccome! Almeno ne aveva la pretesa.

    «Sì?...», aveva ribattuto lui con aria vaga.

    E l’amico: «Non di suo, no. Ma della moglie, Antonia Muscau...». Le maschere, intanto, avevano catturato tutta la sua attenzione. Uno stuolo di ragazzini correva loro dietro facendo schiamazzi.

    «Sai com’è soprannominata la sua famiglia?...».

    Una maschera, che gli era parsa un’orribile vecchina, camminava davanti alle altre: sghimbescia, a gambe larghe e arcuate. Un modo sguaiato; un incrocio tra una scimmia e un ubriaco.

    «... Tancadebonde!».

    «Oh!», aveva fatto lui. Accanto gli stava un bambino di cinque o sei anni con la faccia gialla e grossa del talassemico: si lamentava perché l’uomo che lo teneva per mano (di certo il padre giacché, pur nella sua deformità, ne richiamava la fisionomia) non si decideva a prenderlo sulle spalle.

    «Ma sì, dài, tancadebonde, chiudetevene!».

    «Chiudetevene?...».

    L’uomo intanto s’era finalmente deciso ad accontentare il bambino. La vecchina s’era fermata a pochi passi.

    «Oh, te ne ho già parlato: l’editto delle chiudende!».

    «Sì... l’editto...».

    La vecchina aveva avuto come un attimo d’incertezza, poi s’era raddrizzata sulla schiena e con passo deciso s’era diretta verso l’uomo col bambino sulle spalle.

    L’editto stabiliva che chiunque avesse recintato il terreno lavorato quell’anno ne sarebbe diventato proprietario. Più o meno prima metà dell’Ottocento. Questo era quanto ricordava. Intanto la vecchina prima di raggiungere l’uomo col bambino s’era tolta la maschera scoprendo la bella e allegra faccia di un giovane. Qualcuno gli si era rivolto chiamandolo Maimone ‘e fune.

    «L’origine della questione, no?». Aveva naturalmente inteso quella sarda.

    E Matteo l’aveva guardato di sguincio, nonostante quelle parole le avesse pronunciate senza un briciolo di polemica o derisione.

    In quel momento, il giovane, con un movimento svelto della testa, aveva baciato sulla fronte il bambino talassemico. Lui era rimasto sorpreso: che s’aspettava?

    «La perfezione straniera! Povera Sardegna! E noi gli imperfetti da perfezionare...».

    A lui era parsa una battuta, ma molto probabilmente nelle intenzioni di Matteo non lo era.

    Il giovane, poi, s’era di nuovo girato e, tornato a calarsi sulla faccia la maschera, aveva ripreso le sembianze della vecchina con quel suo andare da scimmia ubriaca.

    «... Nessuna buona intenzione», aveva continuato Matteo, come a prevenire la possibile obiezione. «Non può mai essercene da parte dei ricchi!». Un loro vecchio argomento di polemica. «La perfezione, in verità, è sempre stata nei disegni profittatori. Dei Savoia, in questo caso. Nient’altro che questo! Ci siamo abituati. Ai ricchi i latifondi, e ai poveracci... cagatine, che ci siamo premurati di marcare col piscio dei muretti a secco». Pareva amareggiato.

    «Ci siamo?» Aveva allora fatto lui, mentre si girava abbandonando a se stessa la vecchina.

    «Non faccio parte dei prinzipales, dovresti saperlo!».

    Lui aveva sorriso: gli era venuta l’immagine di uno scarabeo stercoraro che si affannava a far rotolare la sua pallina: ognuno portava a casa ciò che la natura gli aveva assegnato. Ma doveva essere sempre così?

    «L’illusione della proprietà privata...», aveva intanto ripreso Matteo. «Quanto ai Muscau andò ancora meglio giacché avevano le chiavi giuste: parenti ben introdotti nei ministeri savoiardi: tancadebonde, appunto, chiudetevene! È bastato che fossero informati per tempo... Bah, lasciamo stare!».

    E lui, lieto di poterlo fare, ne aveva approfittato per cambiare argomento:

    «Quella maschera... così... così...». Grottesca, avrebbe voluto aggiungere.

    Ma a quel punto era intervenuta la voce flautata di don Melchiorre (era questo uno di quei segni?), il quale aveva detto:

    «Mainoles...».

    E lui s’era girato a guardare il nuovo arrivato. Ma il prete era sembrato esser già preso da altri pensieri, mentre con fatica cercava di sottrarsi alla spinta della folla.

    «Avete mica visto la bancarella dei coltelli di Pattada?».

    «Coltelli?», aveva fatto lui. La moglie accanto che sorrideva divertita. Di certo lei avrebbe volentieri chiesto al prete della santa messa, ma quello, invece, cercava coltelli.

    «Non penserete mica... Oh, buon Dio no! È per mio cognato, il marito di mia sorella... un regalo. Io nemmeno ne mangio...», riferendosi certamente alla cacciagione. E non c’era da dubitarne. C’era, anzi, da fidarsi di quell’uomo che il popolino, con una singolare quanto efficace allegoria, aveva soprannominato don Affamau, per quella sua spettrale figura, magra e scavata, che pareva mal assortirsi con gli occhi di una placidità assoluta: un patto di resa dell’una agli altri, una fame terrena che non urgeva né c’era interesse a placare; e una fame divina che invece, sebbene urgesse e ci fosse interesse a placare, non si placava.

    Poi, quel fuscello alla deriva, era stato risucchiato dalla folla in movimento e la sua voce, già flebile, s’era persa in un tumulto di rumori e voci.

    «Mainoles?...», aveva, allora, ripetuto lui rivolgendosi a Matteo.

    E l’amico:

    «L’antico nome del dio Dioniso, il dio pazzo. Il carnevale, amico mio, non è altro che la festa in suo onore».

    Il dio pazzo!..., aveva, allora, commentato lui fra sé.

    Eppure... Eppure, tutto sommato, quel dio pazzo gli era parso un buon uomo, se non fosse stato... per tutto quel sangue che gli imbrattava il pellicciotto.

    Stava, forse, in questo il segno definitivo di quei presagi?

    III

    Il vecchio non s’era scomposto quando, lassù, in montagna, aveva incontrato Tonneddu Corrias, in fondo era lì che pascolava buona parte delle sue pecore.

    Ma vestito a quel modo! Gli sembrava un uomo diverso, mai conosciuto. Non indossava gli abiti pesanti di chi va in campagna, ma quelli leggeri di un damerino. Così fuori posto per quel corpone duro come la pietra. Stretto ingabbiato in abiti di certo non suoi, era rigido e goffo come una marionetta.

    Aveva occhi di brace, quasi che un fuoco interno lo scaldasse e lo bruciasse, divorandolo. Sicché il vecchio s’era vagamente chiesto se quel calore diabolico non gli bastasse per vincere i rigori dell’inverno.

    Ma poi Tonneddu l’aveva cacciato in malo modo, così com’era nelle sue abitudini, e lui s’era docilmente piegato a quella volontà che sentiva di ferro, intimamente soddisfatto del soccorso inaspettato.

    Corrias aveva alcuni anni meno di lui, quattro o cinque, e il vecchio lo conosceva fin da quando erano ragazzi. Se lo ricordava bene quando sul monte Saru ci veniva per far legna o raccogliere ghiande, perché a quel tempo pure lui s’ingrassava a farina di ghiande e olio di lentisco (sebbene neppure oggi, che le sue condizioni erano notevolmente migliorate, avesse granché modificato quelle sue abitudini. Perché, pareva dicesse, alla precarietà e alla fame si fa presto a ritornare!).

    Già in gioventù era stato un tipo ingrugnato e poco propenso a familiarizzare, così schivo che pareva avercela col mondo intero; come soprannome aveva Babbau per l’abitudine a rivoltarsi con un ringhio e un abbaio contro chiunque gli si rivolgesse.

    La vita l’aveva sempre presa a morsi, e con i denti e con le unghie s’era arrampicato fin lassù dove era adesso, e dove poi s’era meritato il soprannome definitivo di Mastro don Gesualdo.

    Tranne che la fame, già allora il vecchio aveva con lui assai poco da spartire. Poi, dopo, nemmeno quella, giacché, non si sapeva come, Tonneddu Corrias era riuscito a mettere le grinfie su una Muscau, brutta che di più la natura non avrebbe potuto, ma ricca oltre l’immaginabile. O meglio voci piuttosto fondate su come l’avesse ghermita, erano circolate. Ma adesso il vecchio, che con gli anni pareva essere diventato più saggio, in quelle chiacchiere non trovava più niente di umiliante, Perché a questo mondo, s’era detto, si este calegunu solu cando s’ada su’inari e non este peccau si, senza faghere male a nessunu, in d’unu modu o issatteru s’arranzada pro si lu procurare! Eh già, si è qualcuno soltanto quando si hanno i soldi e a procurarseli in qualche modo non è poi un gran peccato. Ma in gioventù, lui che di soldi non ne aveva visti mai, non la pensava allo stesso modo e l’invidia accidiosa lo aveva convinto che quelle chiacchiere fossero, in verità, il marchio stesso dell’abiezione. Adesso, quell’uomo che un po’ lo intimidiva, se l’era trovato davanti, piantato a gambe larghe, come faceva quando aveva da dare ordini ai suoi servi, mentre, con un’occhiata, mostrava di aver capito la situazione.

    «Compa’», aveva detto, «ci penso io». Poi con un movimento rapido della testa aveva indicato la capanna da dove il vecchio era appena uscito. «Voi e i vostri amici potete stare tranquilli». E il vecchio non aveva obiettato: poco prima era corso fuori non sapendo bene cosa fare, mentre gli altri, all’interno della capanna, non s’erano mossi ed erano rimasti seduti accanto al fuoco, come in attesa.

    Poi, dopo, era rimasto indeciso, lì sulla soglia, quando aveva visto Narciso barcollare e subito cadere. Nel fango, faccia a terra.

    Si cade in quel modo soltanto se si è morti.

    Non gli pareva di aver avuto altri pensieri. Così era tornato ad affacciarsi all’interno della capanna. Non c’era stato molto da dire: gli altri lo avevano guardato sollevando appena gli occhi nel mentre, lenti, avevano seguitato a masticare. Gravi. In un angolo c’era ancora il quarto piatto di sughero con i resti della carne cruda: lui l’aveva guardato con uno sguardo vuoto.

    Poi era tornato fuori. Ed era stato allora che aveva visto Tonneddu Corrias sbucare da dietro gli alberi. E l’unica preoccupazione era stata quella di girarsi e rientrarsene nella capanna. Chissà che a voltarsi tutto non sarebbe tornato come prima.

    Il mondo, a volte, può aggiustarsi da sé.

    Ma non l’aveva fatto. Non era tornato nella capanna. Tonneddu Corrias era rimasto impassibile, fermo a pochi passi da lui e da Narciso.

    Poi gli aveva detto di non preoccuparsi, che ci avrebbe pensato lui. E lo aveva allontanato di malagrazia, con un gesto rapido della mano. Da padrone, mentre si accovacciava sulle cosce.

    Ed era stato in quel preciso momento che al vecchio era parso di sentire il cric cric di scarpe nuove. Un suono appena percepito che, chissà perché, gli si era infiltrato in un angolo del cervello. Forse perché gli era parso assomigliasse al cri cri di un grillo?

    Ma intanto non s’era ribellato: Forse perché, s’era detto, davvero il mondo a volte può aggiustarsi da sé!

    Dentro la capanna gli altri erano rimasti impassibili ad aspettarlo.

    IV

    L’aggiusto io!, stava pensando Tonneddu Corrias mentre s’arrampicava su per il monte Saru.

    Con la sua Ottocentocinquanta era salito fin dove aveva potuto, poi aveva lasciato l’auto dove l’asfalto rappezzato diventava una mulattiera e poi una specie di tratturo, ancora più avanti niente, soltanto erba calpestata e sassi.

    Teneva la testa bassa e le mani ficcate nelle saccocce di quel suo pantalone fin troppo leggero e veniva avanti che pareva un tonno che risaliva la corrente.

    S’era vestito a nuovo (seminuovo a dirla tutta) per fare che? Lui che non lo faceva manco quelle rare volte che gli capitava di andare in chiesa, Natale, Pasqua e qualche festa comandata.

    La smania gli correva a zig-zag nel sangue, a fiotti, come mai gli era capitato, neppure da giovane.

    Alla mia età! Alla mia età!, si ripeteva qualche volta, quando gli capitava di rinsavire. E quelle volte si dava dei gran pugni sulla testa.

    Ma poi: Oh, via! Via! Che faccio di male? Non è mica colpa mia! Sono vecchio? E chi lo dice? Se non ci fossi io ci sarebbe qualcun altro. E così tutto spariva, turbamento e vergogna. Anzi, a questo qualcun altro, il sangue gli ribolliva e gli rimontava in testa. Come adesso. Che andava su a cercarla.

    S’era vestito a quel modo soltanto per far colpo su di lei. Una specie di ultima carta; un tentativo estremo che andava addirittura contro le sue abitudini. Non c’erano dubbi che sperasse in un incontro galante. Prima di uscire, infatti, s’era guardato allo specchio, anche se soltanto per un attimo, di sfuggita, quasi gli fosse restato difficile riconoscersi in quel... in quel manichino. A guardarsi s’era addirittura vergognato, ma poi la lussuria era tornata a offuscargli la mente, così la sua immagine riflessa gli si era fatta confusa, quasi che non gli appartenesse. E una specie d’onda di piacere l’aveva riempito tutto. Una voglia incontenibile che aveva vinto la preoccupazione di apparire ridicolo.

    Non sono così vecchio!, pensava. Ne ho ancora di cartucce da sparare, io! Che crede! Cristo santo d’un Giuda!

    Quella donna gli era nuora, e allora? Che contava? Niente! Assolutissimamente niente. Una donna da montare, ecco quello che era. E quelle gambe, prima o poi gliele avrebbe aperte, magari col divaricatore, altro che storie!

    Perché con gli altri sì e con lui no? Che aveva lui che non andava? Era vecchio? Non abbastanza. Glielo avrebbe fatto sentire lui il nerbo che teneva tra le gambe, quant’era vero Iddio!

    Inutile negarlo, quella donna gli si era infilata tra i pensieri come una piattola tra i peli e, proprio come una piattola, gli faceva solletico là dove non avrebbe dovuto.

    Le chiacchiere che lo volevano amante della nuora da un bel pezzo le conosceva pure lui e gli davano una certa soddisfazione, non

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