Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Alla sera mangiavamo la neve
Alla sera mangiavamo la neve
Alla sera mangiavamo la neve
E-book365 pagine5 ore

Alla sera mangiavamo la neve

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Ho sempre cercato di capire, nei miei appassionati studi sulla Resistenza e sulla Seconda guerra mondiale, quale fosse la "molla" che ha spinto, in quegli anni di vacche magre, migliaia di giovani a diventare "partigiani" e altrettante migliaia di contadini e civili - di tutte le aree geografiche interessate - a dar loro una mano. Non potevano essere solo la fame o la stanchezza di anni di dittatura o di ingiustizie. Molti giovani erano nati sotto il Duce e non avevano conosciuto nulla di diverso sulla loro pelle. Probabilmente i più fortunati avevano potuto studiare, viaggiare, mettersi in contatto con "alternative", conoscere mondi diversi. Ma molti di quei giovani erano operai, semplici contadini. Chi era fortunato era arrivato alla terza elementare, qualcuno alla quinta. La mia terra veneta, e vicentina in particolare, è stata un fiorente esempio di queste esperienze. Sia nella nascita spontanea della via di montagna "con le armi in pugno" sia nell'aiuto incessante, nascosto ma forte, da parte delle famiglie locali, anche a costo di rischiare tutto. Questo libro cerca di capire e dare delle risposte in merito. Se vogliamo, segue il solco già tracciato dagli altri miei due libri e ne prosegue la scia, da un'altra angolazione. Ma l'occhio che guarda è sempre il medesimo, quello che ha generato Come fogli di carta igienica, che ha visto il mondo della guerra dalla parte della strada di chi ha avuto, suo malgrado e spesso a sua insaputa, La colpa di esser minoranza. E quell'occhio, ancora oggi, si chiede cosa ci possa essere nelle pagine successive del libro della Storia, che ha visto Auschwitz, Buchenwald ma anche poi Kolyma (Siberia), Choenung Ek (Cambogia), il Rwuanda, Omarska (Bosnia). E chissà quanti altri in forme oggi "evolute" e non visibili, come il lager dimenticato di Mittelbau-Dora e le sue infinite lacrime nascoste al mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita11 feb 2021
ISBN9788833467917
Alla sera mangiavamo la neve

Leggi altro di Rinaldo Battaglia

Correlato a Alla sera mangiavamo la neve

Ebook correlati

Guerre e militari per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Alla sera mangiavamo la neve

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Alla sera mangiavamo la neve - Rinaldo Battaglia

    Alla sera mangiavamo la neve

    di Rinaldo Battaglia

    In copertina foto di Bruno Giacomazzi di S. Martino di Lupari (Pd), amico e collega che ringrazio di cuore per la sua bravura e disponibilità.

    Foto di cui mi sono innamorato a prima vista.

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    ISBN 978-88-3346-791-7

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2021©

    Saggistica – Storia e cultura

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    Tutti i diritti riservati. È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    Rinaldo Battaglia

    Alla sera mangiavamo la neve

    AliRibelli

    Dedicato a tutti i prigionieri del mondo

    in perenne ricerca di una via d’uscita

    Sommario

    Introduzione

    1. La valigia del padre

    2. A ciascuno il suo

    3. Le lacrime di Dora

    4. Esiste ancora il domani?

    5. Un attimo, forse anche meno

    6. Lasciala andare

    Nota finale dell'autore

    Bibliografia

    "La storia è la capacità di studiare capendo le ragioni degli uni e degli altri,

    senza paura di dire che qualcuno ha più ragione."

    Alessandro Barbero

    Introduzione

    Ho sempre cercato di capire, nei miei appassionati studi sulla Resistenza e sulla Seconda guerra mondiale, quale fosse la molla che ha spinto, in quegli anni di vacche magre, migliaia di giovani a diventare partigiani e altrettante migliaia di contadini e civili – di tutte le aree geografiche interessate – a dar loro una mano. Non potevano essere solo la fame o la stanchezza di anni di dittatura o di ingiustizie. Molti giovani erano nati sotto il Duce e non avevano conosciuto nulla di diverso sulla loro pelle. Probabilmente i più fortunati avevano potuto studiare, viaggiare, mettersi in contatto con alternative, conoscere mondi diversi. Ma molti di quei giovani erano operai, semplici contadini. Chi era fortunato era arrivato alla terza elementare, qualcuno alla quinta.

    La mia terra veneta, e vicentina in particolare, è stata un fiorente esempio di queste esperienze. Sia nella nascita spontanea della via di montagna con le armi in pugno sia nell’aiuto incessante, nascosto ma forte, da parte delle famiglie locali, anche a costo di rischiare tutto.

    Questo libro cerca di capire e dare delle risposte in merito. Se vogliamo, segue il solco già tracciato dagli altri miei due libri e ne prosegue la scia, da un’altra angolazione. Ma l’occhio che guarda è sempre il medesimo, quello che ha generato Come fogli di carta igienica, che ha visto il mondo della guerra dalla parte della strada di chi ha avuto, suo malgrado e spesso a sua insaputa, La colpa di esser minoranza.

    E quell’occhio, ancora oggi, si chiede cosa ci possa essere nelle pagine successive del libro della Storia, che ha visto Auschwitz, Buchenwald ma anche poi Kolyma (Siberia), Choenung Ek (Cambogia), il Rwuanda, Omarska (Bosnia). E chissà quanti altri in forme oggi evolute e non visibili, come il lager dimenticato di Mittelbau-Dora e le sue infinite lacrime nascoste al mondo.

    Rinaldo

    "Non c’è bisogno di una religione che ti dica se è giusto o sbagliato.

    Se non puoi distinguere il bene dal male,

    non è la religione che ti manca, ma la coscienza."

    Margherita Hack

    Guarda bene le mie labbra secche

    se da cane non vuoi più essere lepre,

    guardale senza pausa, guardale sempre:

    – È tutto quello che, figlio

    stasera ho deciso di lasciare a te! –

    Potevo darti gli occhi che conosco,

    ma tua dev’essere la scelta e la paura.

    Potevo darti i miei capelli bianchi

    prima che sia notte e dire a lei – Anche stasera muoio! –

    Potevo darti le mie scarpe nere di cuoio

    anche se senza suola e senza tacco,

    ma devi essere solo tu sulla strada di Damasco

    facile alla caduta da cavallo.

    Potevo darti una prigione a Sant’Elena

    nel dire a chi so io – Buonasera o Buongiorno –

    ma tuo dev’essere il male sulla schiena,

    tuo il bruciore allo stomaco sulla via del ritorno.

    Potevo darti le mie mani, e tra ogni dito un callo,

    potevo darti il sonno di Marco Polo

    e la droga di Colombo

    o di ogni altro che è riuscito.

    Potevo darti il sangue per ogni emorragia,

    il medico per ogni ferita,

    ma ti ho lasciato solo queste vecchie parole

    e qualche lustro di tua vita.

    Guarda bene la mia valigia

    ancora chiusa a chiave:

    là tengo i miei rimpianti e i miei dolori

    tu non aprirmela, non portarmeli via:

    là troveresti la prima bastonata del vecchio Piero,

    la sua terra, i miei sputi e l’ombra di quella casa,

    il primo imbroglio, la prima sbronza sul calare della sera

    per dimenticare quello che dicevano esser vero.

    Là tengo i miei peccati e i loro inganni,

    le bestemmie coi piedi nudi sotto la neve,

    l’anello d’oro di tua madre

    ed il ricordo di quel sorriso lieve.

    Guarda bene la mia valigia,

    nascosta ancora sotto il letto,

    potevo aprirtela ogni volta che volevi,

    potevo mostrarti le vie più brevi

    quelle che portano a quello che io ho sempre cercato.

    Ma ti ho lasciato solo queste parole dall’eco stretto,

    due minuti per non scordarti di tua madre

    e cent’anni per vivere la tua vita.

    Ma ti ho lasciato un naso

    per sentire l’odore di chi ti sta vicino,

    due occhi da chiudere quando non sai più cosa farne

    e un’anima selvaggia per perdere qualche capello.

    Ma ti ho lasciato una testa da chinare

    soltanto davanti a Dio,

    e tra le costole una piega di carne,

    comoda a chi ti porge il coltello,

    e una bocca incollata ai denti per dire nell’ora dell’addio:

    – Anche tu, Bruto, figlio mio? –

    Ma ti ho lasciato una testa da chinare

    soltanto davanti a Dio,

    e tra le costole una piega di carne,

    comoda a chi ti porge il coltello,

    e una bocca incollata ai denti per dire nell’ora dell’addio:

    – Anche tu, Bruto, figlio mio? –

    1. La valigia del padre

    Non era mai salito su un treno bestiame fino a quel giorno e non aveva mai visto la disperazione davanti ai suoi occhi come in quel momento, immensa come un mare di acqua. Non si era mai seduto prima per terra sul vagone, stretto e disperato, tra disperati stretti nella loro paura. Solo ora capiva cosa volesse davvero dire la parola libertà, ora che, come un merlo messo in gabbia, non poteva più inseguire il vento ed erano altri a portarlo altrove. Sapeva bene dov’era diretto quel treno di disperati. Verona poi Bolzano e poi qualche fermata tra l’inferno e la Germania. Quante volte ne avevano parlato, ma lo spavento delle parole di allora era nulla in confronto alla realtà che adesso stava vivendo.

    Chi l’avrebbe mai detto, solo due mesi prima, che sarebbe finita così presto. Non avrebbe creduto nemmeno a suo padre se glielo avesse spiegato a fondo. Ma quel giorno, il giorno dell’addio, subito dopo Pasqua, le parole non bastavano mai. Oramai il dado era tratto e aveva già fatto le sue scelte. Anche se aveva solo diciotto anni. La famosa classe di ferro 1926. Quella oramai candidata alla prossima chiamata di leva. A metà febbraio avevano chiamato la classe 1925. E chi non aveva aderito era dovuto scappare via, senza dire nulla per non compromettere i genitori e la famiglia. Di certo, visto come stavano andando le cose per il Duce, avrebbero chiamato anche la sua classe. E non poteva accettarlo. Forse oggi a diciotto anni si è ancora ragazzi, ma a quel tempo si era già uomini da secoli. La guerra e la fame avevano invecchiato tutti. Anche i bambini erano adulti, figuriamoci chi si sentiva uomo sin dagli anni della scuola, quando marciava preciso da balilla.

    Mazzola era già grande, aveva un lavoro che amava, aveva una ragazza a Crespadoro che la notte lo sognava, quattro amici con cui litigare e poi il pallone, il pallone. Sin da piccolo amava il calcio, giocava nelle varie squadrette di Arzignano, il suo paese, come mezzala sinistra e col dono del gol facile come il suo eroe, Valentino Mazzola. Grandissimo giocatore, grandissimo negli anni del Venezia e grandissimo anche quando due anni prima era andato a giocare nel Torino. Era il suo idolo. E non fu un caso che quando, nascosto in collina, gli venne chiesto di darsi un nome di battaglia per non farsi riconoscere dai fascisti o dai tedeschi, scelse proprio quel nome: Mazzola. Anzi, qualcuno del gruppo da buon vicentino lo storpiò in Massola. Ma non era corretto. Lui era Mazzola. Non aveva avuto dubbi sul nome. Se non poteva usare quello suo, aveva due amori a cui riferirsi. La piccola Maria di Crespadoro o il grande Valentino del suo Venezia. Si sentì più a suo agio nel secondo, peraltro di non facile identificazione per il nemico. Gli altri avevano nomi un po’ più semplici o banali: il Patata, il Rosso, Ubaldo, Leo, Tigre, Catone… Mazzola era unico. Inimitabile.

    Ma il sogno di Mazzola durò solamente due mesi. Troppo giovane, troppo inesperto. Assieme ad altri, altrettanto giovani e altrettanto inesperti. Diventare partigiano non era come diventare meccanico alle Officine Pellizzari. Quando era entrato in fabbrica quattro anni prima, al di là della buona parola del padre – che lavorava lì già da molti anni – e prima ancora della tessera del fascio – che dovevi avere, altrimenti niente lavoro – aveva iniziato con dei corsi professionali, quasi da ragazzo di bottega, e tutto era stato semplice, consequenziale. Coi partigiani no. Non avevi tempo. Diventavi subito partigiano, nel nome. Poi, per la pratica, sarebbe stata la vita a farti da maestra. E se riuscivi a sopravvivere alle imboscate, alla fame, alle fucilate, ai rastrellamenti soprattutto, voleva dire che eri stato promosso. Ogni giorno ci poteva essere un esame. E ogni notte. Una bella sfida. Ma a diciotto anni si amano le sfide, forse perché non capisci bene il senso della vita. Credi che sia come il calcio. Una partita e via. Ovviamente massimo impegno, massimo sforzo, massimo sudore, ma poi… se vinci bene, meglio. Se perdi, si passa subito alla prossima partita per la rivincita. Magari fosse così anche in guerra. E Mazzola in questi due mesi aveva perso quasi tutte le partite. Essere su un treno diretto in Germania era una prova inappellabile. Chi lo avrebbe mai detto che il film sarebbe durato un niente. Neanche il tempo di sederti, capire chi erano i protagonisti, da che parte stavano e subito lo stop. Il the end. Cosa tragica se pensi che l’attore protagonista ora eri tu e senza controfigure.

    Mazzola non era nato fascista, si era solo vestito come tale per poter giocare a calcio, avere un lavoro, poter vivere insomma. Come suo padre. Troppo giovane per fare la Grande Guerra e ora troppo vecchio per andare al fronte nella nuova Guerra. Ma anche non così stupido o ubriaco da non capire, quella sera del 10 giugno, che sarebbe stata un’altra tragedia. E come tutte le tragedie, ogni rappresentazione è sempre peggiore della precedente perché ha quel parametro, quel riferimento con cui confrontarsi. Il padre era un uomo a posto. Grande lavoratore, operaio della sezione meccanica alle Officine Pellizzari durante il giorno, contadino alla sera e alla domenica, dal dopo messa fino a sera nei campi di casa. Come non bastasse, per mantenere la famiglia faceva anche dei lavori come muratore nelle case vicine, soprattutto dopo che aveva sistemato la sua, attirando le attenzioni benevole della contrada. Prima della guerra veniva spesso chiamato a fare piccoli lavori: un’altra camera, sistemare la tezza, aggiustare il tetto dopo la grandinata. E ogni tanto si portava dietro come garzone proprio il figlio primogenito. Masticare un lavoro in più poteva sempre servire nella vita e specie in quegli anni di vacche magre.

    Per Mazzola invece era stato tutto più facile. Era fascista fuori, ma fino all’anno prima non sapeva se lo era anche dentro. Tutto era fascista. La scuola, la ginnastica, il campo da calcio, la squadretta di calcio, il lavoro, le pause del lavoro, le adunate. Tutto era fascista e gli stava molto stretto, ma lo sopportava ancora abbastanza bene. Forse proprio per questo fu più facile per lui comprendere prima e meglio degli altri suoi coetanei cosa stesse vivendo. Ma la svolta, quando capì di non essere fascista dentro, avvenne solo a metà settembre dell’anno precedente, il giorno 13 precisamente. Quel giorno, non lo si è mai bene afferrato – ma forse era solo una balla per non andare più a fondo e arrivare alla triste realtà, quella che tutti già sapevano ma nessuno voleva ammettere o accettare – quel giorno era stato ammazzato il cugino Ottenio, quello di Cerea.

    Ottenio aveva un nome difficile quanto era difficile saltarlo a calcio quando lo marcava nei campi di casa sua. Mazzola andava spesso a trovarlo, d’estate e di domenica soprattutto. Una corsa in bici con altri cugini per cinquanta chilometri a tutta velocità. Ottenio era più giovane di un anno ma era forte, piccolo se vuoi, ma molto simpatico. Inspiegabile come sia stato ucciso peggio di un fagiano in un giorno di caccia. Si era solo fermato in bici a vedere un treno che era bloccato in mezzo alla campagna, vicino al passaggio a livello, poco lontano dalla casa di un altro suo zio, zio Erminio, custode del cimitero di Cerea. Ma dentro il treno c’era gente che gridava e urlava forte. Si era avvicinato, senza capire. Chi era dentro gridava e urlava ancora più forte. Una parola soprattutto: «acqua». Acqua. Acqua. Sempre più forte e senza pause. Lacerante.

    E ora che Mazzola era anche lui dentro un vagone per bestiame, capiva di certo cosa volesse dire quella parola. Daresti tutto per un sorso di acqua quando sei in quelle situazioni.

    Quando Ottenio stava arrivando verso il treno, vide i tedeschi di guardia armati fino ai denti e subito d’istinto si fermò. Senza capire. Erano alleati degli italiani. Appena il treno partì lentamente, i disperati dal treno lo videro e le urla divennero ancora più forti. In un attimo dalle feritoie dei vagoni gli lanciarono fogli bianchi, lettere o qualcosa del genere. Dei bigliettini, meglio. Ottenio d’istinto cercò di prenderne uno, il più vicino, per leggere e meglio capire. Fino ad allora quei vagoni sporchi, un po’ rotti, che passavano sulla rotaia verso Verona, trasportavano solo vacche o cavalli. Mai uomini. La tradotta per gli uomini passava sempre ogni giorno, ma non certo come quella, non certo in quelle condizioni. Non riuscì a leggere bene le parole scritte. Un tedesco da sopra il tetto del vagone gli sparò secco. Un colpo. Non di più. Uno solo, ma sufficiente per ammazzare un ragazzo di sedici anni, fermo in bici davanti a un treno in ripartenza verso nord. Venne trovato solo verso sera, tra la disperazione dei genitori, i fratelli, le sorelle, i cugini, lo zio Erminio. Non ci volle molto a ricostruire l’accaduto. Anche se hai fatto la seconda o la terza elementare. E i biglietti rimasti, quei pochi non volati via, erano indiscutibilmente chiari.

    Fu quel giorno che Mazzola capì di essere antifascista. Come si potevano portare in Germania i tuoi alleati, senz’acqua, senza mangiare, trattati peggio delle bestie? E i fascisti, le camicie nere dov’erano? Che colpa aveva Ottenio? La curiosità, la voglia di capire, non potevano essere colpe mortali. Ne aveva parlato più volte con il padre, nei giorni successivi, quando il dolore si era un poco placato. Ma non ci furono risposte. Non ci potevano essere risposte adeguate all’uccisione di un ragazzo curioso. Andare al lavoro non fu facile in quei giorni. Anche alle Officine Pellizzari il clima non era buono. Si capiva poco e chi capiva stava male. Si respiravano, tra la polvere della fabbrica, la paura e la diffidenza. Cosa stava succedendo?

    Se c’è stato l’armistizio di Badoglio, si vuol fermare la guerra o no? O si è fermata solo da una parte mentre gli altri ti sparano contro? Il clima di settembre o di ottobre era pessimo. Figuriamoci nella nebbia di novembre e dei mesi invernali. Brutti mesi, paura di tutto, senza capirci nulla. In fabbrica si sentivano voci strane, lamentele, discorsi nuovi che prima nessuno aveva avuto il coraggio di tirare fuori. Almeno non prima del 25 luglio.

    Dopo la caduta del Duce, anche alle Officine Pellizzari – come in tutte le grandi fabbriche del vicentino – era spontaneamente nato un Comitato clandestino, voglioso di migliorare le condizioni degli operai. Una paga meno da fame, un aumento delle razioni alimentari per la famiglia. Cose importantissime in quel momento quando si tirava avanti tra beni razionati e distribuzione con la tessera annonaria. Ma anche totale cessazione delle violenze contro gli operai. Tutte cose che anche Mazzola respirò per bene e toccò con mano. Inevitabilmente.

    Aveva iniziato a lavorare lì già nell’estate del 1940, quando le Officine avevano perso gran parte degli operai chiamati dal Duce alle armi, chi in Grecia, chi in Africa. Con la guerra poi il lavoro non mancava. Ora si costruivano non solo pompe e motori, ma anche parti di mitragliatrici e di altro materiale bellico. Essere operaio delle Officine Pellizzari nei primi anni di guerra era stato un salvacondotto per il regime. Anche tu contribuivi al successo del Duce e alla gloriosa macchina da guerra fascista. E quindi nessuno ti toccava. Poi, poco prima dell’8 settembre, qualcosa cambiò. Persino il figlio del titolare, allora ventenne, fece fuoco e fiamme per non andare in guerra. Alla fine riuscì a restare a casa, ma in zona qualcuno cominciò a dubitare della fedeltà al Duce della famiglia. E dopo l’8 settembre qualche alto gerarca del fascio se lo ricordò. C’era un clima di diffidenza reciproca, di paura. Tutto era incerto e non sapevi sempre con chi davvero tu stessi parlando. Fu anche questo che indusse Mazzola ad approfondire, a capire cos’era quel terrore, quella continua diffidenza. A gennaio si sparse la voce che i tedeschi, d’accordo coi gerarchi fascisti locali, volevano trasferire parte della produzione delle Officine Pellizzari in Germania. Non potevano permettere che restasse in Italia, le pompe e i motori erano importanti per la vittoria del Terzo Reich. Meglio averli sotto casa. E ovviamente almeno quattrocento o cinquecento operai sarebbero dovuti andare in Germania assieme agli impianti. Facile capire la situazione. Chi andava a lavorare da quelle parti non sempre aveva il biglietto di ritorno. Si era ancora alleati qui, non stupidi. Fu così che nel reparto di Mazzola si alimentò, come un fuoco lento, uno spirito antifascista o meglio antinazista. Ammesso che ci fossero differenze.

    E fu proprio lì che Mazzola cominciò seriamente a comprendere che era arrivato il momento, malgrado i suoi diciotto anni, di rispondere all’assassinio del cugino Ottenio.

    Ne parlò più volte col padre. Ma questi lo consigliò di stare calmo, non era detto che tutta la produzione fosse spedita in Germania, non era detto che proprio loro fossero destinati ad andare in Germania. Non era contro i capi più forti, come Luigi o Cesare, ma non voleva che suo figlio rischiasse la vita. Ma oramai il germe in Mazzola era nato e si stava sviluppando. Decise di non coinvolgere troppo il padre e una sera anziché andare al calcio, com’erano convinti a casa, andò a salutare Umberto, il suo caporeparto. Fu in quel momento che capì di essere, nel profondo, antifascista e italiano. Fu in quel momento che cominciò a conoscere anche altri che la pensavano diversamente. Perché i gerarchi del fascio non facevano niente? A scuola, nelle sfilate, nelle marce ti avevano sempre parlato di Italia, di Patria e ora non facevano assolutamente nulla. Erano come i nazisti, come gli odiati nazisti. Anzi peggio, perché almeno i nazisti lavoravano per il loro paese. I nostri fascisti per chi lavoravano? Per Hitler?

    Alla sera iniziarono piccoli raduni, quasi carbonari, a casa di qualche operaio, con la scusa di mangiare qualche fetta di salame assieme o giocare a briscola. Non erano comunisti o socialisti, non avevano e non volevano etichette, erano solo operai e padri di famiglia che temevano per la loro vita e quella dei loro cari. Mazzola non era ancora dei loro, era poco più di un ragazzo e quindi non venne invitato, ma cominciò a venire a conoscenza di alternative partigiane, di ragazzi che scappavano in collina verso Durlo o verso Valdagno. Cominciò a vedere, con occhi diversi, amici e altri operai che a febbraio non si presentarono al lavoro e nemmeno alla leva militare del generale Graziani. Avevano disertato quella del 18 febbraio e ora erano ricercati come criminali e traditori della patria. A marzo si parlò di sabotare la produzione. Era il momento di reagire. Non si poteva restare a guardare. Già tra la metà di settembre e l’11 ottobre dell’anno prima c’erano stati dei blocchi momentanei e simultanei della produzione. Ma quelli erano piccoli segnali. Ora serviva molto di più.

    Il 19 marzo arrivò in fabbrica il primo ordine tedesco di trasferire subito il 10% della produzione – sia operai che macchinari – del reparto pompe e di quello motori, i principali. Il giorno 24 l’ordine venne ribadito dagli ufficiali delle SS di Arzignano e ben spiegato anche al commissario prefettizio fascista. Questi, forte come l’erba pallida nata in cantina, decise di riunire alle Officine sia gli ufficiali nazisti che i rappresentanti degli operai, scelti a suo tempo dai gerarchi fascisti e quindi di loro totale assoluta fedeltà. Il risultato della riunione fu offensivo: sarebbero partiti subito per la Germania solo trentasette operai, scelti a sorteggio tra le maestranze dei reparti interessati. Ognuno poteva essere sorteggiato: i giovani, gli esperti con una famiglia a casa da mantenere, gli anziani che magari avevano i loro figli in guerra chissà dove. E quindi anche Mazzola. Non suo padre che per ora non era interessato, essendo di un altro reparto. Ma tutti sapevano che era solo questione di tempo. E il tempo aveva il fiato corto.

    La sera di lunedì 27 marzo, a lavoro finito, il grande genio del commissario fascista Ottorino Caniato, circondato da mille soldati tedeschi e da qualche immancabile camicia nera, iniziò il gioco dell’estrazione. Ma nessuno degli operai di tutte le maestranze, di nessun reparto, tanto meno di quelli destinati alla Germania, nessuno si fermò ad assistere. Nessuno. Per il commissario del fascio, la sua combriccola dal saluto romano e per gli ufficiali nazisti fu uno smacco semplice ma deciso. Non erano comunisti, antinazionalisti, socialisti. Erano solo uomini che avevano fame e tanta paura, uomini, un concetto fino a quel momento non considerato da nessuno. Tanto meno dal Duce e dalle sue chiacchiere al balcone, poi riportate, parola per parola, da quattro suoi gerarchi locali, che pendevano dalle sue labbra, senza peraltro mai capirle. Oltre alle panzane del Duce, c’erano altre parole ora, c’era molto di più. Mazzola non ha mai saputo se per diventare partigiani fosse questa la strada giusta. Ma aver aperto gli occhi, avere ora una visione diversa da prima, il guardare gli altri con occhi nuovi, voleva dire – di certo – essere su quella strada.

    Il giorno dopo, all’inizio del lavoro, al suono della sirena nessun operaio entrò in fabbrica. Tutti fuori nel piazzale. E dopo un po’, ognuno se ne tornò a casa. Altro smacco terribile per i fascisti locali. Voleva dire che di fronte ai nazisti non contavano nulla. Come in effetti era. Si saprà dopo che il comitato clandestino della fabbrica, che aveva studiato questa soluzione, nemmeno sognava una partecipazione così totale.

    Ovviamente, tra quelli non entrati figuravano sia Mazzola che il padre. Il primo con la spregiudicatezza dei suoi pochi anni, il secondo con il timore per quello che sarebbe potuto accadere a breve.

    Il blocco di martedì 28 era solo l’inizio. Il 31 marzo, venerdì, ultimo giorno della settimana, ultimo giorno del mese, sarebbero dovuti iniziare i primi trasferimenti di macchinari e maestranze verso i padroni tedeschi, una volta completati gli ordini delle commesse ricevute. Mazzola verrà a sapere, settimane dopo, che anche molte altre maestranze di grosse fabbriche della zona scioperarono, per motivi quasi analoghi se non gli stessi. Gli operai delle Smalterie di Bassano, del Lanificio Rossi di Schio, della Marzotto di Valdagno o della Sava di Vicenza e di molti altri stabilimenti della provincia. Qualcosa stava cambiando.

    Ma quel qualcosa non piaceva ai tedeschi, sebbene inizialmente, il martedì, non sembrasse così. Dapprima i crucchi, con gli altoparlanti addirittura, informarono tutti che era stato uno scherzo: non si sarebbe più andati in Germania se la produzione fosse subito ripresa e mantenuta su standard validi. Non ci sarebbero state rappresaglie o punizioni. Troppo bello per esser vero. Era una trappola, una delle tante che Mazzola imparerà a conoscere strada facendo. Mai fidarsi dei nazisti, mai fidarsi dei fascisti. Sarebbe come fidarsi del demonio o metter la testa in bocca ad un lupo o ad un leone affamato e dirgli con cortesia: «Mangiami».

    E infatti già mercoledì 29, quando il lavoro riprese, vennero subito arrestati sei operai e capireparto. Tra questi anche il capo di Mazzola, Umberto Carlotto. Accusato assieme agli altri cinque (Guido Celadon, Cesare Erminelli, Aldo Marzotto e Vittorio Sartori del reparto meccanica fina e Luigi Cocco del reparto motori a scoppio) di aver pronunciato frasi contro il fascismo e contro il Führer. Quali frasi e quali parole non fu mai precisato. Giorni dopo si verrà a sapere che i sei capri espiatori vennero portati al Comando delle SS di Arzignano, (che si erano insediate al Palazzo Mattarello) e interrogati a fondo. Solo Sartori verrà dopo tre giorni liberato. Sempre mercoledì vennero chiamati nella Direzione delle Officine altri venticinque dipendenti, tra cui una donna. Le SS li accuseranno di essere arrivati in ritardo al lavoro e pertanto furono subito portati sempre al Mattarello e lì rinchiusi nelle baracche che fungevano da prigione. Dopo vari interrogatori, presenti anche i capi fascisti del paese – il grande commissario Caniato in prima fila – solo la donna e un operaio verranno rilasciati.

    Gli altri ventitré disgraziati, a cui verrà aggiunto Guido Celadon, si dirà molto più tardi, vennero mandati in carcere alla caserma Sasso di Vicenza e, alcuni giorni dopo, al campo di concentramento di Fossoli, vicino a Modena e da qui spediti al lager di Mauthausen. Pochi torneranno vivi per raccontare la loro tragedia. Ma forse Mazzola questo non lo saprà mai.

    Il destino del caporeparto di Mazzola, Umberto Carlotto e degli altri tre (Luigi Cocco, Cesare Erminelli e Aldo Marzotto) fu subito noto. La sera di giovedì 30 vennero portati dalle SS di Arzignano verso i vicini Castelli di Giulietta e Romeo a Montecchio Maggiore. Arrivati al primo castello – quello chiamato già allora Castello della Villa – vennero fatti scendere uno alla volta e subito uccisi con un colpo alla nuca. Come fossero criminali, come fossero banditi, peggio come fossero bestie da carne. I loro corpi furono messi in sacchi chiusi, come immondizia, e portati al custode del cimitero di Arzignano, poco lontano dalle Officine Pellizzari, affinché li seppellisse senza tanto clamore. Già venerdì mattina, il 31 del mese, il maggiore delle SS informò tutti gli operai delle Officine – parlando dall’alto della terrazza della Direzione – che giustizia era stata fatta. E onde evitare confusioni o false aspettative, un po’ in italiano e un po’ in tedesco vennero sillabati con precisione i nomi dei quattro ammazzati.

    Questa era la giustizia per il nazismo di Hitler e di Berlino, queste erano la libertà e l’onore per il fascismo del Duce e di Salò. Fu così che le famiglie di Umberto, Luigi, Aldo e Cesare persero i loro cari, i loro mariti, i loro padri. Avevano solo lottato senza armi per il loro salario, per non finire schiavi nei campi di lavoro in Germania. Se questo era il fascismo, beh… Mazzola era contro. Avrà avuto ancora diciotto anni, ma ora aveva le idee chiare. Se questa era la libertà che il Duce e il Führer volevano concedere a noi italiani, beh... Mazzola era contro. Era così anche prima, per almeno venti anni era stato così, ma ora la gente – malgrado la paura e il terrore – cominciava davvero a ragionare. Mazzola

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1