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Un giorno e una donna
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E-book494 pagine7 ore

Un giorno e una donna

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Info su questo ebook

“Il personaggio della scrittrice è restituito grazie a un puntuale lavoro su fonti e documenti attraverso la fiction epistolare in un crescendo narrativo che non conosce cedimenti" Marzia Fontana, La Lettura - Corriere della Sera

"In sintesi, Nicoletta Bortolotti giunge con questo romanzo alla piena maturità di autrice a tutto tondo… La sua scrittura è a ogni pagina un'invenzione pirotecnica che sorprende per la bellezza delle metafore e la naturalezza del narrare" Mimmo Muolo, Agora', Avvenire

Vita e passioni di Christine de Pizan, la prima scrittrice europea.

Ha detto che uomini e donne sono uguali e che “una donna intelligente riesce a far di tutto e anzi gli uomini sarebbero molto irritati se una donna ne sapesse più di loro”. Ha detto che bisogna fare studiare le bambine e se solo le donne avessero fatto i libri... Ha detto che le donne non provano piacere a essere stuprate, come molti credono, ma subiscono un dolore senza pari.

Lo ha detto un giorno in cui Parigi era un tempo più che un luogo, e l’anno 1405 era un luogo più che un tempo. Lo ha detto nel Medioevo insanguinato dalla Guerra dei cent’anni tra Francia e Inghilterra. Davanti a tutta la corte francese, a re e nobili. Christine de Pizan, nata in Italia, prima storica donna, prima editor, poetessa e scrittrice. Donna.

Nicoletta Bortolotti ricostruisce la sua vita, che, dopo un’infanzia meravigliosa al seguito del padre divenuto astronomo reale a Parigi, fu colpita da lutti e rovesci che la lasciarono, giovanissima, vedova e madre.

Il risultato è un libro meraviglioso che da un lato sembra provenire dal passato, a partire dalla forma epistolare scelta, che tanti capolavori ha regalato alla letteratura, e che qui si incarna nelle lettere tra una madre e una figlia. E dall’altro è assolutamente moderno. Perché molte delle conquiste sognate da Christine si sono verificate solo in anni recenti, e altre si stanno verificando adesso, o devono ancora farlo.

Con Un giorno e una donna Nicoletta Bortolotti ha scritto un romanzo importante, che è al tempo stesso un’opera di grande valore letterario in grado di far rivivere le passioni e i sentimenti di un’epoca, un’opera di grande valore storico nella ricostruzione perfetta, per quanto immersa nell’immaginazione romanzesca, della vita e dell’opera di Christine de Pizan, e di valore etico, perché l’esempio di Christine possa servire da guida in questi anni non sempre facili.

 

LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2022
ISBN9788830542020
Un giorno e una donna
Autore

Nicoletta Bortolotti

Nicoletta Bortolotti Nata in Svizzera, vive in provincia di Milano. Lavoracome redattrice, copy editor e ghostwriter. È una stimata autrice di romanzi per ragazzi, più voltefinalista al Premio Bancarellino. Il suo ultimo libro è Oskar Schindler il giusto .

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    Anteprima del libro

    Un giorno e una donna - Nicoletta Bortolotti

    Regnabo

    Fortuna spinge la ruota verso l’alto di un quarto

    Gli uomini vanno e vengono

    per le strade della città.

    Comprano libri e giornali,

    muovono a imprese diverse.

    Hanno roseo il viso,

    le labbra vivide e piene.

    NATALIA GINZBURG, Memoria

    Un giorno in cui Parigi era un tempo più che un luogo, e l’anno millequattrocentocinque era un luogo più che un tempo, una donna ha scritto:

    Da genitori nobili nacqui in Italia, a Venezia, nella quale mio padre, originario di Bologna la Grassa dove poi io fui allevata, andò a sposare mia madre, che era nata lì, per il legame che il mio suddetto padre aveva da molto tempo con mio nonno, chierico con licenza e dottore, nato nella città di Forlí e abilitato allo studio di Bologna la Grassa, e consigliere salariato nella stessa città dove io nacqui; a causa di quella parentela il mio suddetto padre ebbe il riconoscimento dei veneziani e, per l’ampiezza e autorità della sua scienza, fu similmente nominato consigliere salariato della signoria della città di Venezia, nella quale fu a lungo residente con grandi onori, ricchezze ed emolumenti [...] Fatte e stabilite tutte queste cose, con il permesso della signoria di Venezia partì e venne in Francia, nel qual luogo fu accolto e onorato davvero grandemente dal saggio re Carlo.

    Infine si è rivolta alla dea Minerva:

    Come te sono anch’io una donna italiana.

    Parigi, 24 febbraio 1418

    Figlia cara,

    sei una giornata calda, sei la patria bianca di questa mia mattina. Dopo colazione io e questa mia mattina siamo salite in camera, ci siamo sedute allo scrittoio e, come sempre, ti abbiamo scritto una lettera; dalla finestra abbiamo guardato il mondo assottigliarsi per strada, e anche noi, spesso, ci sentiamo più sottili. E avvertiamo il freddo arido di quando non nevica.

    In questi ultimi giorni mi sembra che la vita mi si asciughi addosso. Chissà quanto dovrò aspettare per scaldarmi. Tuo nonno diceva che a Parigi l’estate non arriva neppure d’estate; lo diceva con la voce astiosa degli ultimi tempi, dura come un nodo.

    Non rispondi alle mie lettere, eppure la madre superiora, in ragione del mio nome e dei nostri legami, ti ha accordato il permesso di inviarmene. M’illudo sempre che il messaggero a cui affido le missive torni indietro da Poissy con qualche tua notizia, ma nelle bisacce appese al cavallo non c’è mai niente. Va bene così. Non posso che accettarlo, come ho dovuto accettare che tu te ne sia voluta andare in convento.

    Quando avevo la tua età, mi era difficile ammettere cosa ero, ma adesso, a cinquantatré anni, mi è difficile ammettere cosa non sono o non sono potuta essere.

    Non hai voluto leggere i miei libri. L’ho apprezzato, in fondo, e anzi mi è piaciuto quel tuo distanziarti, l’ho inteso come un segno di fermezza e determinazione. Del resto, è normale che una figlia non legga volentieri quello che scrive sua madre. Tuttavia, mi chiedo se qualche mia parola pubblica non abbia finito per stridere nelle tue orecchie, abituate alla voce della nostra intimità.

    Continuerò in ogni caso a scriverti, perché fa bene a me, in qualche modo mi riposiziona, quando mi sento scardinata come la porta guasta nella sala grande che papà aveva riparato. Mi aiuta a riempire gli interstizi dove a volte, come fra le assi del pavimento, si ammassano polvere, scaglie di pelle, capelli e peli di cane. La candela sullo scrittoio sta per consumarsi e fra poco dovrò cominciare a lavorare. Fra poco dovrò allontanarmi dalla penombra delle intuizioni mattutine, dall’inconsapevole chiaroveggenza di quando si ha un piede sulla riva del sonno e l’altro già teso a saltare sull’opposta riva del giorno.

    Questa mattina la legna era umida; mia nipote ha detto che ci ha messo tanto a prendere. Non ce la fa più a portare la legna pesante e i secchi dell’acqua per via di quella gamba che la fa zoppicare. Ma io ho i piedi caldi sotto il muso di Bon Bon. Assomiglia sempre più a un topo che a un cane. Mia nipote la chiama topocane. Quando la regina Isabella me l’ha regalata ha detto che i cani da grembo, bianchi e a pelo lungo, sono particolarmente adatti alle dame sole, perché, se tenuti sul petto, portano via debolezza e mal di stomaco. E ha detto anche che quando si scrive bisogna sempre tenere vicino un gatto o un cane perché favoriscono memoria e concentrazione. Forse avrei preferito un gatto a un cane. I gatti cacciano i topi, inoltre non devi portarli fuori. Ma non l’ho detto alla regina.

    Bon Bon, fin da cucciola, mi appoggiava il muso bianco sui piedi quando iniziavo a lavorare all’alba, e continua a farlo anche adesso che è malata. Ti avevo scritto che Bon Bon è malata nelle lettere precedenti, quindi se le hai lette dovresti saperlo. O forse non vuoi saperlo. Non vuoi sapere che si è ammalata perché non vuoi saperne del tempo che passa. Credo che anche questo sia normale, alla tua età.

    Mia nipote le mette nella ciotola bocconi di carne prelibata che ha fatto tagliare apposta da un macellaio di Châtelet. Il macellaio le racconta barzellette sconce. Neanche noi oseremmo concederci quegli spezzatini freschi e teneri. Se fosse qui tuo padre magari si arrabbierebbe. O chissà, magari anche lui darebbe a Bon Bon i tagli migliori. Sono convinta che la topocane abbia un brutto male perché smagrisce e mangia poco. Purtroppo non c’è più il nonno, che potrebbe visitarla; del nuovo medico di corte, del resto, non mi fido molto. Poi mi vergognerei a portargliela o a farlo venire qui. Quel medico adesso ha ben altro di cui occuparsi che curare la cagnolina di una dama.

    Forse anche mia nipote è malata. Si trascina sempre sul pavimento quella sua gamba destra, con la caviglia gonfia, zoppica ma non vuole farsi vedere. Però non ha mai perso l’abitudine di osservarmi mentre faccio colazione, con quell’espressione lievemente disapprovante. Mi mette ancora a disagio dopo tutti questi anni. So cosa pensa, che se voglio sopravvivere devo fare come dice lei. Mi guarda con il superiore giudizio di chi conosce Dama Miseria. Pratico e sbrigativo. Ma anch’io conosco Dama Miseria. O forse è stata lei a volermi conoscere, mio malgrado.

    E adesso siamo rimaste io, questa nipote e Bon Bon. Tre cagne solitarie. Dama Solitudine ci ha occupate come una fodera di pelle.

    Parigi sanguina. Certi pomeriggi mi siedo alla finestra per guardare emorragie che arrossano strade e strade che scorrono come vene aperte. Quasi ogni giorno rubano, uccidono, saccheggiano, bruciano, e tutto per questa guerra che dura da quasi cent’anni.

    Dura da quando Carlo IV di Francia è morto senza eredi, e Edoardo III d’Inghilterra, approfittando di certe parentele, ha rivendicato la corona francese. La corona però è andata a Filippo VI, primo dei Valois, e Edoardo III ha pensato bene di invaderci. Per qualche tempo gli inglesi hanno avuto la meglio. Ma con Carlo V il Saggio di Valois la Francia è tornata a vincere e a risplendere. La lotta per il potere fra i duchi di Borgogna, Orléans e Berry ha però nuovamente indebolito il regno. E ora, sulla scena è comparso anche Bernardo d’Armagnac, amico degli orleanisti e del delfino di Francia, e nemico dei borgognoni, che tutti sanno essersi alleati con gli inglesi. Armagnacchi e borgognoni continuano a combattersi. Gli inglesi, naturalmente, ne approfittano. A corte dicono che la guerra finirà con l’estate, ma secondo me durerà ancora un bel po’. Vedrai.

    Sono quasi contenta che il nonno non ci sia più, così non saprà mai che quel suo rito astrologico per scacciare gli inglesi non è servito a niente. Affamato di rabbia aveva voluto dividere su una mappa il regno di Francia in quattro parti uguali: aveva preso della terra da ogni quadrante e dal centro e l’aveva cacciata dentro cinque statuette di uomini nudi con sopra dei segni astrologici e i nomi dei re e dei comandanti inglesi. Poi aveva seppellito a testa in giù le statuette, ciascuna in ogni quadrante, e aveva recitato una formula. Non so quale formula abbia recitato, non l’ho mai saputa, ma evidentemente non ha funzionato.

    In certi pomeriggi, invece, mi siedo alla finestra, in pace. Insieme a Bon Bon ascolto i rumori giù nella via, i rumori che le sponde confessano al fiume, e guardo i passanti; mi lascio anch’io tramontare con garbo, come la città. Le guglie di Parigi mutano in una lontananza sulfurea, leggermente curva e già crepuscolare, sotto strati di vermiglio, mancanza e altre cose ormai per me illeggibili. Allora penso che, vissuta di parole, io non sono nemmeno più sicura che la mia vita possa avere un tempo verbale. E penso che Parigi sia una città bellissima, anche se non può più sognarsi.

    Mi manchi. Forse prima o poi ti raggiungerò. Non ti lascerò più, vivrò anch’io con te a Poissy, tanto qui, ora che non c’è più nemmeno la nonna, cos’ho da fare? Far sposare mia nipote e aspettare la morte? Viene talvolta un sogno alle madri e alle figlie di vivere insieme. Un sogno storto e sbagliato perché poi non si sopporterebbero, litigherebbero tutto il giorno e finirebbero con il soffocarsi a vicenda. Perché il tuo Dio ci faccia venire sogni storti e sbagliati non l’ho ancora capito. Tutte le notti immagino il tuo abbraccio quando arriverò. Tutti gli abbracci scappati fuori dal mio corpo li vivo nella mente. I passanti che sfilano per strada mi sembrano figure di nostalgia in cerca di altre figure di nostalgia con cui potersi stringere, fisicamente e misticamente, in un abbraccio. Intagliati in qualche privato dolore, che non possono dire. Che strappa via a poco a poco i minuti restanti, come denti da latte dalla gengiva del vivere.

    Sono passati già tre anni da Azincourt. La più brillante vittoria inglese e la più cruda nostra disfatta. Ma quello che penso io, se vuoi sapere cosa ne pensa tua madre, è che dopo Azincourt il mondo non combaci più con se stesso. Il mondo affettuoso di Dama Prudenza e Dama Opinione si è scollato da quello feroce di Dama Sterminio e Dama Le Armi. Armi da fuoco: che poi questa nuova artiglieria bisogna anche saperla usare, essere addestrati, che basta una palla inserita in uno di quei lunghi cannoni per radere al suolo un castello. E tu fai bene, anzi benissimo, a restartene in convento. Enrico V, il re inglese che dicevi bello – a me non lo è mai sembrato, con quella bocca piccola e la pelle scolorita –, ha ordinato il massacro di migliaia di prigionieri francesi. Non si dice in giro, ma è stato lui, di certo. Contro tutte le antiche leggi della cavalleria. E nessuno che lo abbia criticato. La cavalleria è roba da vecchi, ormai. Da vecchie come me.

    I cavalieri del regno, quei pochi che sono tornati vivi, hanno raccontato della marcia fatale contro gli arcieri inglesi che indossavano l’armatura leggera. Hanno raccontato dei cavalli ammazzati dalle frecce perché avevano protetta solo la testa, imbizzarriti o caduti insieme al cavaliere; delle corazze pesanti, impastate di fango, dove all’interno c’era la temperatura di un forno; degli elmi con la visiera abbassata e solo fessure per vedere e respirare, da cui, però, entravano frecce sottili; dei cadaveri degli amici in cui inciampavano perché erano ciechi e soffocati in quelle armature-forno. Hanno raccontato anche di come, essendo i cavalli morti o dispersi per la campagna, se ne andassero a piedi verso il nemico che li aspettava con gli archi puntati. Il sibilo delle frecce era intollerabile, tanto che l’hanno chiamato arpa del diavolo. Ogni vittoria è una lacrima mancata per chi ha perso. Poi quello che è successo lo sai anche tu. In convento le notizie vi arrivano.

    Giovanni senza Paura, il Borgognone, il duca che noi due conosciamo così bene, sta praticamente consegnando la città in mano agli inglesi. Si è incontrato a Calais con Enrico e, secondo me, non dev’essere uscito niente di buono da quell’incontro. Giovanni senza Paura fa finta che non sia così, ma Isabella la tiene in ostaggio. Scommetto che un giorno qualcuno gli aprirà il cranio con un’ascia e non si saprà mai chi è stato. Isabella non ne vuole più sapere del regno, o almeno così dice, perché tutti le parlano alle spalle. Non l’ho quasi più vista e mi mancano le nostre chiacchiere in camera sua, anche se raramente eravamo sole. Alla fine ero diventata amica pure delle sue dame di compagnia. La corona inglese – vedrai, per me è solo questione di tempo – finirà con il diseredare il figlio di Isabella, il piccolo delfino Carlo VII. I re d’Inghilterra diventeranno re di Francia, e questa tua madre lamentosa si lagna perché nessuno più l’abbraccia. Chissà cosa penserai di me, che sono un’immatura, una bambina egoista.

    Non giudicarmi duramente. Anche se forse io sono stata severa nei tuoi confronti, a volte, senza rendermene conto. Avrai di certo visto i miei abiti sporchi degli escrementi della vita, come le corazze di quei poveri cavalieri ad Azincourt, e ti sei spaventata. E allora hai voluto per te la tonaca leggera e pulita di una monaca. Hai voluto indossare la rinuncia, scambiarla per ribellione, solo per tenere lontano l’ingovernabile.

    Quando mi hai detto che avresti rinunciato all’amore sono stata male. Molto male. Quando mi hai detto che avresti rinunciato ad avere dei figli sono stata anche peggio. Ho pensato alla gioia mobile, larga e brillante che ho provato io nell’avervi, te e i tuoi fratelli. Mentre ti tagliavo quei tuoi bellissimi capelli color rame, non riuscivo a guardare le ciocche che cadevano sul pavimento come uccelli morti. Anche le donne sposate si tagliano i capelli per mutilare la vanità. Ma non le giovani. E se qualche vicina di casa mi diceva che ero troppo attaccata al ricordo di tuo padre, che amavo troppo un passato che non mi amava più, la guardavo, guardavo suo marito e pensavo che è difficile amare il presente quando perde i capelli e ha il ventre dilatato. Ed è difficile che il presente ti ami quando ti atterrano i seni e i capelli si smorzano nel bruno cenere delle nutrie.

    Così ti ho detto che se un giorno tu ci avessi ripensato, se ti fossi innamorata come io mi ero innamorata di tuo padre, avresti potuto tornare indietro. Tornare da noi. Ma all’epoca quella possibilità non la prendevi nemmeno in considerazione. Ho cercato di consolarmi pensando che almeno non mi saresti morta di parto. Avevo questo sordido vizio materno di volerti ossessivamente, ansiosamente, furiosamente arredare il futuro. Ma trascuravo di sistemare per te la stanza dell’oggi. Quando te ne sei andata ho pensato che s’impara a essere orfani dei genitori ma non dei figli. Quando te ne sei andata ho pianto. Ti ricordi come dicevi da piccola? Mi hai fatto piangerello. Sono rimasta disabitata come la nostra casa. Senza più mia figlia accanto mi sono sentita smarrita, come se fossi io figlia, ma ho tentato di non dartelo a vedere.

    Ho capito solo più tardi, nei due giorni d’aprile del millequattrocento in cui sono venuta a farti visita, che a Poissy avevi scovato un luogo dove trovarti. E che lontano da me dovevi in qualche modo rivendicare te stessa. Non solo i figli si fanno adulti grazie ai genitori, anche i genitori si fanno adulti grazie ai figli, ma a loro occorre più tempo, credo. Ho accettato questa nuova solitudine da te inflittami come il castigo di un Dio giusto che agiva senza giustizia. Io invece ti avrei inflitto la felicità come una disgrazia. Una felicità impraticabile, che non volevi.

    Non dire questa cosa di Dio alle monache, mi raccomando, sennò mi arriva dritta dritta una denuncia per eresia. Ma poi, se ci pensi, ci sono tante cose giuste che non hanno giustizia. Come, per esempio, che un giorno una figlia debba lasciare sua madre. Che una madre non possa più tastare, in inverno, il gelo di quei suoi piedini chiusi fra le gambe come in una busta, nel lettone, sotto una spessa coperta di pelliccia. E, in fondo, anche tutte quelle stupide leggi che governano la vita e la morte.

    Quando ho perduto la mia di madre, ho pensato con sgomento che nessuno mi avrebbe più chiamata figlia. La solitudine, con il suo strascico di libertà, distacco e crescita non sempre è una distanza lieta.

    Però l’ultima volta in cui sono venuta al Saint-Louis di Poissy, diverse stagioni fa ormai, ti ho vista davvero in pace, e il ricordo del tuo sorriso fresco mi aiuta adesso a sopportare l’orrore di questi giorni. Le grida. I morti per la strada. I profughi dalla Normandia attaccata da Enrico, le continue tasse, nonostante da mesi i mercati siano vuoti; manca cibo e bisogna costruire nuovi mulini. A proposito di mulini. Giovanni senza Paura tira acqua al suo, andando in giro a dire che lui certe tasse le toglierebbe subito. Ieri, prima di recarmi al Louvre a incontrare un copista, sono passata per il mercato di Les Halles. Sarti e macellai vendevano la merce nascosta nei retrobottega a prezzi assurdi. E di traverso, in mezzo alla piazza, c’era il cadavere di un chierico dell’università. Nemmeno loro risparmiano. Nemmeno i chierici dell’università che, come tu sai bene, sono più potenti di vescovi e re.

    Così sono tornata a casa e, per calmarmi un poco, ho riletto le poesie che avevo scritto dopo che ero stata da te. Le avevo raccolte sotto un titolo che non mi è mai piaciuto molto, ma piaceva a corte. Titolo e opera devono piacere a chi paga, non a chi li fa. Ecco perché, altrove, avevo scritto, supponendo che Dama Opinione si rivolgesse a me: Tu es venue en mauvais temps. Sì, sono nata in un tempo cattivo, e forse anche tu.

    Il titolo delle poesie era Le Livre du Dit de Poissy.

    Ti bacio forte,

    la tua mamma

    Parigi, 25 febbraio 1418

    Figlia cara,

    non ho viaggiato sola quel giorno. Mi hanno accompagnata valletti e dame, e tutti insieme procedevamo a cavallo verso di te. La terra a maggese era simile a un soffice burro nero, che le colture primaverili dell’avena, del sorgo e dei piselli ricoprivano a nastri paralleli di una rada peluria erbosa come barba adolescente, le spighe già evocate dall’immaginazione dei semi. La mietitura successiva sarebbe stata quella dei cereali invernali, orzo e segale, ma i contadini si lamentavano che la resa era poca e i solchi degli aratri troppo sottili, troppo salata la terra e troppo spessa la fame.

    Abbiamo attraversato le sponde fiorite della Senna, ci siamo inoltrati nei reticoli sonori della foresta, che pareva una selva di allegorie, e intanto rispondevamo ai quesiti sull’amore. Io in quel momento non avevo nessuna voglia di giocare ai quesiti sull’amore. O di pensare all’amore. Come tu puoi bene supporre. Avrei preferito pensare a tutt’altro che all’amore, ma i miei accompagnatori volevano divertirsi e io volevo mangiare e dar da mangiare a Jean, a mia madre e a mia nipote. E loro, come tu sai, davano da mangiare a me, a Jean, a mia madre e a mia nipote.

    Ci si chiedeva se fosse più acuta la sofferenza di un cavaliere che ha perduto l’amore della propria dama perché il tempo ha appannato i sentimenti, oppure quella di una dama che ha perduto l’amore perché ucciso in battaglia. Domande oziose. Senza risposta. Acuivano la mia di sofferenza, dovendo io invece fingere leggerezza.

    Al nostro arrivo ci è venuta incontro la badessa, Maria di Borbone, il viso pieno, appiattito, ma spalancato in quel suo celebre sorriso, giallo e vitale. Di lì a poco il suo sorriso giallo si sarebbe spento e lei sarebbe morta.

    Ti cercavo con lo sguardo. Avevo fatto tutto quel viaggio solo per vederti.

    Mi sei sbucata fuori dall’ombra di un pino. Hai attraversato di corsa il prato del chiostro, sotto una nuvola bianca e silenziosa che se ne stava ancorata lì in mezzo, come una vela solitaria nel quadrato di cielo azzurro. Mi sorridevi non solo con la bocca, ma con ogni piega del tuo corpo. Proprio come quando eri piccola. Il tuo sorriso sembrava sempre iniziare da lontano, in qualche punto segreto dei gomiti, dei piedi, delle ginocchia per raccogliersi a poco a poco nel tuo viso. Avevi le mani smaltate di terra e sole quando ti sei inginocchiata davanti a me e, proprio come da bambina, mi hai abbracciato le gambe. Hai premuto la faccia nella mia gonna. Forse avevi appena lavorato nell’orto. Così ho capito che eri felice. E quanto mi fossi sbagliata nel pensare il contrario. Avevo sbagliato nel cercare di dissuaderti. La tua giovinezza non si stava chiudendo lì dentro, al contrario si stava aprendo. Ti credevo, come spesso accade alle madri, ostinata nel voler essere chi non eri, invece quella ostinata ero io, ero io a sbagliare.

    Per la commozione non riuscivamo a parlare. Per questo abbiamo affidato le parole ai luoghi. Le suore ci hanno fatto vedere il monastero, gli snelli e alti colonnati e le ampie vetrate. Non tutti i monasteri possono permettersi vetrate così grandi, mi hai detto. E poi abbiamo visitato il giardino. L’hortus conclusus, con il frutteto e gli animali, le vasche verdebruno dove nuotavano carpe e lucci da cucinare in quaresima. E l’hortus simplicium, accanto all’infermeria. Dove anche adesso coltivate le piante medicinali per curare i poveri e i malati che vi chiedono ospizio. Quello che tu preferisci. Abbiamo passeggiato fra cespi di basilico, menta, anice, rosmarino, lavanda e valeriana. Ogni tanto li scuotevi e nell’aria si sprigionavano effluvi balsamici. Oppure ne strappavi una fogliolina, la stropicciavi fra le mani inumidendola di un succo verdastro e oleoso, e me la mettevi sotto il naso. Abbiamo perfino la pianta grassa dell’aloe che cresce nel Sud Italia mi hai detto con orgoglio, e quella della liquirizia. Volevi provare a seminare i papaveri se la badessa te ne avesse dato il permesso. Li hai poi seminati?

    Le suore ci hanno servito il pranzo in piatti d’oro e il vino delle loro vigne in boccali cesellati. Il petto d’anatra al miele era tenero, ho chiesto alle monache come avevano fatto a farlo venire così tenero e poi ho detto che in Italia l’anatra si fa cuocere con le arance e tu mi hai guardata male, per quella solita paura di essere messa in imbarazzo da tua madre davanti agli altri. Durante il pranzo e la cena vigeva la regola del silenzio, ma per onore alla mia visita avevano fatto un’eccezione. Loro però, le suore, mangiavano poco. Pasti così raffinati li riservano solo agli ospiti mi hai detto. E neanche tu hai mangiato molto e io non potevo sopportare di mangiare davanti a te, che spiluccavi appena.

    Ho sempre avuto quest’ansia che in convento tu non ti nutra abbastanza. Allora eri giovane, ma lo sei ancora, e ai giovani non fanno bene diete e digiuni. Lo diceva anche tuo nonno. Non sono mai stata particolarmente golosa, ma la regola della mortificazione l’ho sempre avvertita distante. Ti danno da mangiare adesso? Vedi di mangiare, fallo almeno per me, così se so che mangi il giusto sto più tranquilla.

    Non volevo pensare che sarebbe arrivato il momento dei saluti e, di tanto in tanto, guardavo quel quadrato di cielo nel chiostro, crudele e terso come la più azzurra e intollerabile delle ferite.

    Gli antichi dicevano che la nostalgia è una febbre, febbre di nostos, di ritorno. Li studi anche tu gli antichi, in convento?

    E quando il cielo si è tinto di prugna, mi è sembrato che scottasse di febbre, come la tua fronte l’inverno in cui ti eri presa il morbillo; il primo a intuire che era morbillo era stato il nonno. Tutti ti avevano già data per morta, invece sei sopravvissuta. Philippe no, ma ora non voglio parlare di lui. Non mi sento pronta. Non mi sentirò mai pronta, credo.

    Ho pianto e hai pianto anche tu. Abbiamo fatto un doppio piangerello. Erano anni che non piangevo. Avevo come smarrito la grammatica delle lacrime, da quando… be’, lo sai da quando.

    Anche mentre ci salutavamo, come spesso mi accade intanto che mondo zucchine, o aiuto mia nipote a rifare i letti, o mi lavo nella brocca, ho pensato all’irreversibilità.

    Poi mi hai detto quella cosa sottovoce.

    Una cosa che non sta bene dire a una madre già un poco anziana, ma tu l’hai detta: Mamma, non morire per favore.

    Ti rassicuro sul fatto che non ho intenzione di morire adesso e farò di tutto per evitarlo. Ma quella tua frase mi ha fatto pensare. Mi ero sempre preoccupata di abitare il vuoto che altri lasciavano in me: mio padre, tuo padre, tu, i tuoi fratelli; ma il giorno in cui avrei dovuto preoccuparmi del vuoto che avrei lasciato negli altri si avvicinava. Si avvicina. Impercettibilmente. Inesorabilmente.

    Nei dintorni del convento abbiamo trovato un ostello dove passare la notte. Avremmo ripreso il viaggio la mattina seguente. L’ostello era spazioso e pulito e c’era un letto riservato a me e ai miei accompagnatori. Per fortuna non abbiamo dovuto dormire con persone sconosciute. Il proprietario non era di quelli che per una cifra altissima ti danno un letto solo e te lo riempiono di gente e devi condividere non soltanto il loro alito e il loro russare, ma anche le loro cimici e i loro pidocchi. Quella notte, in quell’ostello estraneo, ho dormito molto meglio che a casa. Forse perché ti avevo vista. O forse perché ultimamente, a casa, la notte recita per me un teatro nomade di quadri viventi. Di dolori sfarzosi e dolori vestiti di stracci. Nel sonno metto la corona sul comodino, come una regina che voglia abdicare alla vita e non può.

    Ecco qualche verso che ho scritto sulla giornata in cui ci siamo riviste, che sarà sempre fra i miei ricordi più belli. La più preziosa miniatura della mia memoria. Te li riporto qui, i versi, perché tanto tu Le Livre du Dit de Poissy non lo leggerai.

    Quando con grande gioia

    da Parigi partimmo

    la nostra via cavalcammo

    ed era molto lieto.

    [...]

    La primavera che allora cominciava

    e il sole chiaramente riluceva

    sull’erba verde.

    [...]

    Una piccola sosta in mezzo alla corsia

    e poi andammo insieme nell’abbazia

    verso le dame

    al parlatorio e dentro entrammo...

    Quindi colei che amo molto e tengo cara

    venne verso di me con umile maniera

    si inginocchiò e io le baciai la testa

    dolcetta e tenera.

    La tua testa la bacio di nuovo,

    la tua mamma

    Poissy, 2 marzo 1418

    Madre cara,

    ho ricevuto tutte le tue lettere. Si vede che ti piace scrivere, a me non è mai piaciuto, lo sai; leggere mi piace, ma non per troppe ore, quindi se non ti rispondo non è perché sono cattiva o maleducata. O perché non mi manchi. Non mi piace scrivere. Punto. Inoltre per quanto, come giustamente hai affermato, mi è permesso di ricevere e inviarti corrispondenza, non posso e non voglio approfittarne. La madre superiora potrebbe anche revocarmi il permesso se si accorgesse che scriverti e leggerti sottraggono troppo tempo alla preghiera. Avrei bisogno di qualche paia di calze, con la giarrettiera che funziona, perché quelle che mi danno qui hanno i gancetti che non stanno su, e qualche camicia da mettere sotto la tunica. Il soggolo e le tuniche, invece, sono ancora buoni. E comunque me li danno loro, le suore. Magari mi servirebbe una coperta leggera, di lana e non di pelliccia, perché sta arrivando la bella stagione. La madre superiora, come tu sai, mi ha anche concesso licenza di ricevere di tanto in tanto qualche dono da te, che posso ritenere come cosa mia. Ma solo il necessario e l’utile. E solo di rado.

    Per favore, smettila di preoccuparti se mangio o non mangio. Mangio quel tanto che basta e che mi va, i piatti che cuciniamo qui sono buoni, li prepariamo secondo le ricette francesi, ma anche italiane, e non sono né troppo abbondanti né troppo scarsi. Quindi è un problema che non ti devi proprio porre. E, soprattutto, non è un problema tuo. Piuttosto, pensa tu a nutrirti e a non dare sempre i bocconi migliori di carne a Bon Bon. Anzi, fai bene a darglieli.

    Mi dispiace che tua nipote si trascini quella gamba e che la topocane non stia bene. Vorrei poterle accarezzare il pelo bianco e il muso, che immagino caldo, umido e fetido, e che non ho mai potuto accarezzare. E tua nipote salutala tanto da parte mia. Grazie che mi dai qualche notizia su quello che sta succedendo a Parigi, cose da non credere. Io mi sono voluta sempre tenere al riparo; forse perché tu non lo sei stata abbastanza? Chissà. Sai che a me la politica non è mai interessata, e che mi fa paura; quando qualcuno parla di politica mi si annebbia il cervello, e sento nella testa come un ronzio. Allora devo mettermi a pregare, a filare, a ricamare, a zappare nell’orto e a piantare verdure, a raccogliere uva e a cucinare. Sembra che cucinare mi piaccia. E anche filare.

    Mi piace, inoltre, che mi racconti di te. Di quello che eri prima di me. Continua a mandarmi le tue lettere, continua a raccontare, mi sembra di leggerti come in una storia, anche se so che sei tu ed è strano leggerti in una storia come se tu fossi un personaggio e non mia madre. Anche questo è divertente, ma strano. Grazie perché mi racconti quello che non hai raccontato nei libri, e finalmente lo racconti solo a me.

    Anch’io bacio la tua testa,

    la tua figlia

    Parigi, 5 marzo 1418

    Figlia cara,

    sono così felice che mi hai mandato tue notizie. Certamente, ti farò avere le calze, le camicie e la coperta che mi chiedi. Mi sforzerò di non assillarti più con il cibo, ma non so se riuscirò. E visto che mi hai scritto di continuare a raccontarti quello che nei libri non ho raccontato, continuo.

    Mancava poco alle campane del vespro. La foschia giallastra e grigia del tramonto velava la città dalle mille torri, che assumevano la tinta delle mandorle tostate. I bottegai avevano già ritirato le merci e chiuso i negozi. I passanti e i bambini che giocavano in strada si affrettavano verso casa.

    Non era molto tempo che ci eravamo trasferiti a Bologna. Prima abitavamo a Venezia, dove sono nata. A Bologna, dopo che le guardie chiudevano le mura, chi si faceva trovare all’esterno veniva multato. La notte, mi diceva mia madre – che poi è diventata tua nonna –, ci sono i lupi. Ci sono i cani randagi che squartano i bambini ed entrano nelle case, se hai dimenticato di chiudere la porta. Ho visto una madre gridare diceva tua nonna con la crudeltà esasperata che anch’io usavo quando dovevo spaventarti. Per proteggerti. Ho visto questa madre diceva tua nonna, che strappava dai denti di un cane la testa del suo bambino. Alla nonna, però, i cani piacevano. E forse è stata lei a farmeli piacere e a farli piacere a te. Mia madre mi raccontava sempre di cani morti diventati spiriti protettori di lattanti, come Guinefort, quel levriero della foresta ucciso per sbaglio da un nobile dopo che aveva salvato suo figlio. E mi raccontava di cani che, invece, non volevano morire. Fantasmi tristi e neri, che annunciavano la morte a chi li incontrava. La notte diceva mia madre – prima di diventare tua nonna –, ci sono anche i lupi umani. Gentaglia che ruba i figli come le bestie si prendono i polli, gli storpiano le braccia o le gambe, e poi li fanno mendicare.

    Il buio di Bologna, quando le mura erano chiuse, non era dissimile dal buio di Parigi. Si assomigliano un po’ tutti, credo. E anche quelle torce arancioni nelle cappelle che allungano sul selciato sottili rami di brace.

    Non rammento bene cosa stessi facendo in quel momento. Avrò avuto tre o quattro anni, forse. Avrò avuto la tua età quando avevi la mia età. E delle età in cui si compongono i ricordi non ci si ricorda, non molto almeno. La ricordanza è una vecchiaccia schiumosa e brutta che sciabatta nelle case sfitte. Te ne accorgerai anche tu prima o poi, non credere.

    Forse è stata mia madre a raccontarmi più tardi che me ne stavo accucciata sulla soglia – come facevo spesso –, mentre i miei fratelli giocavano ancora in strada. Forse preparavo un cibo immaginario per Eda. Mia madre mi ha detto che quella bambola se la ricorda perché me l’aveva cucita lei, simile a una piccola donna in miniatura. La donna che sarei dovuta diventare. Così mentre giocavi imparavi diceva mia madre. Le aveva fatto un abito lungo come quelli che hanno le mogli serie e modeste e le aveva attaccato sui capelli un velo sottile. Mia madre diceva che questo velo era sottile sottile, come il vapore del fiato.

    Un mantello scuro. Mi si è avvicinato un uomo. Tornava dall’università.

    Mi ha presa per la vita. Ha sollevato in aria me e Eda.

    Mio padre, che tu hai sempre chiamato nonno Tommaso, mi ha indicato un punto indefinito nel crepuscolo. Azzurrava, mi pare, ho questa vaga impressione di un azzurro nero. La doppia stella, Sirio, la Stella del Cane. Prima di entrare in casa, papà mi ha fatto allungare per gioco le braccia ad afferrare la lingua e il naso del Cane Maggiore. Mi ha detto che il Cane Maggiore faceva diventare i cani pazzi e in estate faceva arrivare la canicula.

    Il re di Francia ha inviato a Bologna dei messaggeri ha detto papà a cena, mentre beveva la zuppa di cavolo dalla sua scodella. Beveva e mangiava senza mescolare le parole al cibo. E la cosa buffa è che li ha inviati anche Luigi I d’Ungheria.

    Cosa c’è di buffo? ha chiesto la mamma. Forse stava rimestando lo stufato con i fichi e l’uva passa. In quel periodo lo mangiavamo nelle occasioni speciali, o quando papà riusciva a rientrare dal lavoro per cena. Non ho mai imparato a farlo come lei. E neanche la domestica che avevamo allora l’aveva imparato. La cucina di Bologna era grande, ma non come quella sul Quai des Célestins. E neanche come quella nella torre Barbeau. Aveva un camino più largo e due credenze. Aveva un mobile pieno di ceramiche e le pareti tappezzate di stoviglie. Le stoviglie erano di rame e stagno.

    Mi vogliono a corte. Mi hanno promesso uno stipendio buono. Rendite…

    Tutti e due i re? ha chiesto la mamma.

    Tutti e due. Re Carlo dice che vuole solo i migliori.

    I migliori?

    Chierici. Medici. Scienziati. Letterati.

    Andrai in Francia, allora…

    Ci andrò. Come fai a sapere che ho già scelto?

    Lo so.

    Re Carlo ha bisogno di un astrologo che gli faccia da consigliere. E anche di un medico. Ha detto che prendendo me, prende due persone in una.

    E come fai con Venezia?

    Ho già informato la Repubblica. Dovranno trovarsi un altro medico.

    E un altro consigliere.

    O un altro medico consigliere. Due persone in una.

    Hai informato la Repubblica prima di informare me?

    No, è che…

    Lo sai invece cosa vorrei io?

    Me l’hai già detto cosa vorresti.

    Be’, te lo ridico. Vorrei che tornassi a insegnare medicina qui. A Bologna. O astrologia… Te lo ridico di nuovo.

    Non so se l’università…

    L’università ti riprenderebbe subito. A braccia aperte, ti riprenderebbe. Con gli interessi. E ce ne potremmo stare finalmente tutti insieme. E poi… mi dispiace che lasci il lavoro a Venezia. È la mia città. Ci ha portato fortuna.

    È vero. Papà ha sorriso e ha accarezzato la mamma sotto il mento, come se fosse un gatto. Ha aggiunto: A Venezia ti ho conosciuta. Ti ho sposata. Sono nati i nostri figli… Venezia è la nostra città fortunata.

    "E ora invece andrai in Francia a misurare

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