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14 anni, 6 mesi e un giorno
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E-book109 pagine1 ora

14 anni, 6 mesi e un giorno

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Info su questo ebook

L’amore irrisolto è una bomba a orologeria. Può essere che qualcuno trovi la bomba e la disinneschi. Può essere che sbagli a disinnescarla e che salti tutto. Può essere che nessuno la trovi e che il timer si guasti. Può darsi che esploda esattamente quando il timer era programmato, alla cieca, senza tenere di conto di chi è intorno.
Nei pensieri di un adolescente che cresce, il tormento e l’inquietudine si alimentano delle suggestioni sociali del ceto medio negli anni ’60-’80. Il crollo esistenziale e un nuovo uragano di violenza urbana incombono sul presente come una collisione annunciata.
14 anni, 6 mesi e un giorno è il terzo volume di una trilogia sull’amore deragliato, dopo Sauna e Io amo Amy.
Stefano Michelini, 53 anni, psichiatra e ricercatore scientifico, ha lavorato in Italia e negli Stati Uniti. Ghostwriter fino al 2000, ha esordito come autore con racconti pubblicati su “Linea d’Ombra” e “Nuovi Argomenti”. Sono seguiti due romanzi, Sauna (Portofranco e LeggereLeggere) e Io amo Amy in versione e-book (LeggereLeggere) e in versione audiolibro (Il Narratore).
LinguaItaliano
Data di uscita12 lug 2013
ISBN9788868553067
14 anni, 6 mesi e un giorno

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    Anteprima del libro

    14 anni, 6 mesi e un giorno - Stefano Michelini

    Michelini

    Il lato oscuro...

    Il lato oscuro della vita presenta sempre il conto, il bene e il male inestricabili, le dinamiche sadomaso dell’amore, le dinamiche sadomaso della vita stessa. Di notte arrivano gli incubi, le paure, la rabbia; lotti sempre con te stesso, e anche se di giorno ti ricomponi, non c’è ambiente pulito e rassicurante che ti salvi dai mostri che vengono da dentro. Lì non siamo padroni, non possiamo chiudere la porta. I sogni non sono mai soltanto sogni. Il presente non è mai soltanto presente.

    Hurricane è la colonna sonora di questo romanzo. Scritta da Jared Leto nel 2007 a Berlino, in un pomeriggio d’inverno, intorno alle 15.30, quando già faceva buio, è inserita nell’album This is War di una rock band formatasi nel 1998 a Los Angeles e universalmente nota come 30 Seconds to Mars. Nel 1998 ero un ghostwriter abbastanza inquieto.

    La chiudo qui. La faccio finita. Niente mi tiene più, ormai. Non ucciderei per amore. Non ucciderei per un ideale. Non aspetterei l’uragano in una capanna feticcio. Niente di tutto questo. Un flop. Un flop assoluto nella via della passione. Tutto cervello, la mia vita. Il trionfo del gesuita. Un solo concetto chiaro, ora: chiuderla qui. Non sono disperato, sono lucido. Mai stato così tranquillo. Mai avuto una visione così limpida. Alessandro, mio figlio, mi ha convinto. Solo lui poteva farlo. L’amore filiale ti frega sempre. Ho ancora in mente le sue corse sulla fascia destra del campo: una gazzella. Il resto è irreprensibile. Il mio bilancio sociale è in attivo: doveri adempiuti oltre le aspettative. Esauriti i doveri, mi aspettavo il botto, la libidine, il fuoco. Invece, la mia foto mostra uno scienziato atipico, non calciatore, non amante appassionato, non terrorista, padre eccessivo. Ho sparso il diserbante sui miei sentimenti, io che di sentimenti avrei vissuto. Non so come sia potuto accadere, ma ora mi trovo su un binario morto. Il viaggio è stato interessante, vivo, l’ho voluto io. Nelle scelte che mi si sono presentate, ho sempre preferito la solidità, la retta via. A ogni bivio. Da una parte la passione per la bocca di Cinzia, dall’altra i binari: ho sempre scelto i binari. Questo binario è ora morto, non ci sono curiosità ulteriori. Per averne dovrei costruirmene altre, e non ne ho più voglia. Vorrei essere il Principe Azzurro addormentato, aspettare di essere svegliato da Biancaneve ed essere baciato per il resto dei miei giorni. Le congetture razionali non reggono più il mio piacere. Hanno retto fino a quando mi hanno conferito identità e certezze. Ora che sono certo di chi sono e di che cosa ho fatto, posso lasciar perdere la retta via. Sono un’autorità competente, frullato cerebrale di un mero esercizio di funzioni. Ricercatore, scopritore di un gene, risolutore di destini, ringraziamenti sperticati, riconoscenza umana a fiumi, livore di colleghi alla fame, ipertesi e con il colesterolo in aumento, e altro, altro ancora. Un’esistenza sostanzialmente conforme. Un flop dei baci e della leggerezza. Un niente lungo la via della passione. A me cosa importa della scoperta del gene? Niente. A me, sensore puro, cosa importa delle persone cui ho donato nuova vita, nuovi amori, nuove prospettive? Niente. A me cosa importa delle intuizioni decisive sui farmaci? Niente. A me cosa importa del destino altrui? Niente. Mi sono mai chiesto come sarebbe stata la mia vita se non avessi avuto le mie regole? Sì, ma non ho trovato risposta. Solo blande erezioni sulla carriera di calciatore professionista più interessato al colore delle maglie che al risultato della partita, fuochi fatui sulla giustizia, sulla ribellione e sulla lotta armata. Moti sussultori su amori fugaci e su amori meravigliosi, gli uni e gli altri sacrificati al senso del dovere. Questo il quadro. Se la mia vita passasse attraverso un setaccio ne rimarrebbero tre concetti in croce, una chiarificazione postuma sull’amore. Anche questa, comunque, attaccata alla logica saggia della vita e non alla deragliata sofferenza per amore. Finito un amore, sono uno di quelli che si volterebbe dall’altra parte. Continuerei a fare la mia vita di sempre, senza problemi. Non mi emoziona più l’essere lasciato, non mi fa male. Non provo più gioia nel fare cose razionalmente belle; non provo dolore nel dolore. Solo la vita di mio figlio e la morte di mio padre mi hanno smosso. Come si fa ad andare avanti così? Senza un prodigio, senza niente di gratuito, senza qualcosa che caschi dal cielo? Come si può essere costretti a procurarsi stimoli sempre nuovi, per riuscire a provare piacere? Se i giochini dell’emancipazione e del ruolo sociale non reggono più, cosa mi devo inventare? Non posso continuare. Confesso, alti prelati. La chiudo qui. In sobrietà, senza una depressione che mi sbalugini il cervello nel niente. Una chiusura accettata. La messa è finita, andate in pace. Rendiamo grazie a Dio. Animato dalla passione del segno, animato dal fuoco sacro della vita impazzita in me, mi ritrovo a essere un Dio anomalo che dispone dell’esistenza altrui senza disporre della propria. Rigurgiti acidi e affannosi di voler sentire, di voler correre, di voler sniffare l’odore del fango e della terra, per poi ritrovarsi solo un saggio dispensatore di equilibri posticci. Vi chiedo, alti prelati: se avevo l’animo del giustiziere terrorista, cosa mi ha spinto a diventare un essere giusto e composto? Che cosa me ne faccio di tutto questo agire in modo corretto? Mi difendo dietro il piercing ostentato su uno smoking. Confesso. La chiudo qui. In un incidente con un camion, provocato da me che parlo al cellulare mentre guido; una distrazione; nessuno saprà della mia volontà di farla finita, sarò perfetto anche in questo, e quindi un flop anche nel gesto estremo, come un treno deragliato nei suoi stessi binari. La mia passione, la mia sfrenata velocità di treno in corsa, contenuta in criteri di assetto, sublimata in un saper intuire la psiche altrui, ricondotta ogni sera, quieta e belante, all’ovile, chiudiamola nelle lamiere contorte di una svolta consapevolmente contromano. Basta con questa manfrina. Natura vigliacca, velleità da eroe, esistenza borghese, tutta estetica e stelle. Qui non c’è traccia di una passione viva: tutto puzza di vecchio, della frustrazione stagnante di un professionista eccellente. Il diverso, tutto il mio essere alieno, ridotto a un’interpretazione originale della vita, anzi, a una potenziale interpretazione originale della vita, all’essere giudicato strano, genialoide, a una visione della salute mentale fuori dagli schemi, al mio non essere giudicante, al mio amore vago e consistente, al fatto che da me ci si possa aspettare di tutto da un momento all’altro. Bene, signori della corte, alti prelati: ora mostriamo di che pasta siamo fatti, percorriamo il viale di cipressi come se lo facessimo ogni giorno, apriamolo, questo benedetto cancello automatico, e aspettiamo il momento giusto. La cornice è perfetta. Il senso estetico è rispettato. Aspettiamolo, il Tir alla nostra sinistra, che a strada libera si lascia andare alla velocità; ora prendo il cellulare e chiamo l’essere più insulso della  rubrica mentre sono al volante della nostra auto nella medesima strada. Dài, questa volta lo faccio, senza drammi, in serenità: la benedizione del prete, la mitraglietta di Moretti contro Moro accovacciato e inerme, finalmente il nulla.

    Come una starna grigia, per sopravvivere ho volato controvento per undicimilatrecento miglia. Poi sono tornato e ho commesso nuovi errori. Questa volta a giudicarmi siete voi, alti prelati. Siete noiosi. Lenti. Troppe domande etiche, troppe astrazioni. Nel vostro stile. Io, invece, vi tengo ancorati a terra con i miei racconti e con la mia condanna annunciata. Non vi faccio volare. Volete sapere tutto dall’inizio. Vi accontento volentieri. Non ho problemi a dire tutto nemmeno questa volta. Non ho problemi a farla finita, figuriamoci a raccontare le mie vicende più intime. Non ho condizionamenti esterni. Sono lucido. Non ho fretta io, non avete fretta voi. Posso tenervi tutti qui inchiodati al mio racconto ben oltre i quattordici anni, sei mesi e un giorno pattuiti.

    Io, primogenito di tre maschi, sono cresciuto come un piazzaiolo. In quegli anni si andava molto a piedi e prendevo a calci di tutto, facendo innervosire mamma. Giocare a calcio con quello che trovavo per strada era l’unica soluzione per non annoiarmi. Lei non lo sopportava e mi tirava in continuazione per un braccio. I miei due fratellini invece camminavano buoni buoni tenendosi per mano.

    Passavamo tutto il nostro tempo fuori, dall’uscita della scuola fino alla sera tardi. Mamma, parrucchiera, stendeva sempre gli asciugamani del negozio sul terrazzo della sala, che dava sulla piazza, sulla caserma e sulla chiesa dei frati domenicani.

    Cinzia era la regina di tutti noi piazzaioli. Lei tredici anni, io dieci, mi baciò per la prima volta in un confessionale della chiesa, tirando la tenda quando i frati erano a mensa. Mi disse che era l’ora che imparassi. Era la figlia del tipografo, aveva un incisivo spezzato, le lentiggini viola e gli occhi blu. Si vedeva già che buttava male. Troppa vita in un corpicino esile. Nel confessionale accostò le sue labbra scure alle mie, ma si fermò quasi subito perché disse che sbavavo. Non mi offesi, ero già uno studente modello, sapevo di non sapere. Lei m’insegnò a baciare benissimo e a lasciarmi andare. Non che fossi teso, non ero teso per

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