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Dalla morte in poi: Delirio e follia a Bologna
Dalla morte in poi: Delirio e follia a Bologna
Dalla morte in poi: Delirio e follia a Bologna
E-book232 pagine2 ore

Dalla morte in poi: Delirio e follia a Bologna

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Info su questo ebook


Non cerco comprensione né compassione.
Non mi pento. Rifarei ogni cosa, anche più crudelmente se potessi.
Le trincee che il tempo mi ha scavato attorno agli occhi, racconterebbero una per una i dettagli delle mie degenerazioni, se solo qualcuno le volesse comprendere e non si accontentasse di inorridire per i crimini che ho commesso.
E di cui – lo ripeto – non mi pento.
Sono giunto fin qua nel tentativo di capirmi, e ho scelto di vivere. Dalla morte in poi, almeno.
Ma non chiamatemi assassino, sarebbe riduttivo. Sono un uomo che ha fatto l’errore di domandarsi fin dove potesse arrivare. E ha trovato il coraggio di rispondersi.
Oscar Torri, imprenditore bolognese, soffre di attacchi di panico. È un insicuro cronico, una vittima. O almeno così crede. Fino a quando dentro di lui non emerge il suo inconscio primordiale.
Prende atto di essere un predatore, e che le sue ansie… i controlli… servivano solo a soggiogarlo.
E incomincia la sua vera vita. Commette i più efferati crimini ma al contempo ritorna ad essere marito e padre di famiglia modello e premuroso datore di lavoro per i propri dipendenti.
Affina la propria folle filosofia.
Fino a quando…
 
LinguaItaliano
Data di uscita22 feb 2017
ISBN9788869431845
Dalla morte in poi: Delirio e follia a Bologna

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    Anteprima del libro

    Dalla morte in poi - Roberto Carboni

    1

    Non cerco comprensione né compassione. Non mi pento. Rifarei ogni cosa, anche più crudelmente se potessi.

    Le trincee che il tempo mi ha scavato attorno agli occhi, racconterebbero una per una i dettagli delle mie degenerazioni, se solo qualcuno le volesse comprendere e non si accontentasse di inorridire per i crimini che ho commesso.

    E di cui – lo ripeto – non mi pento.

    Sono arrivato fin qua nel tentativo di capirmi, e ho scelto di vivere. Dalla morte in poi, almeno.

    Ma non chiamatemi assassino, sarebbe riduttivo. Sono il vicino di casa che non vi aspettereste. Mentre suono alla porta per domandare un pizzico di sale.

    Che forza il lucchetto di una cantina qualunque e può rimanere giorni al buio ad aspettare che arrivi qualcuno. Perché tutto il resto non ha più importanza.

    Sono quello che la sera, dentro un autobus desolato si siede accanto all’unico passeggero, solo per sentire l’odore della sua paura. O che osserva da dietro le colonne di un portico i passanti infreddoliti.

    La coltellata o il filo di acciaio che serra la gola. Mentre spendono gli ultimi respiri in quello sguardo…

    Perché proprio a me? Perché lo fai?

    La verità?

    Il motivo non c’è. Mio padre era rassicurante, mia madre mi ha accudito. Ho amici, una famiglia. Una vita di moderato successo e duro lavoro.

    Faccio sport, non fumo, porto fuori il cane. Godo come fossi un dio nel provocare la morte agli esseri umani.

    Sono un uomo che ha fatto l’errore di domandarsi fin dove potesse arrivare. E ha trovato il coraggio di rispondersi.

    2

    Dopo tanto peregrinare, il carcere della Dozza mi spalanca le porte come fossero cosce laide.

    Alle mie spalle, l’agente penitenziario.

    Procedura.

    È poco più di un ragazzo. Tanto giovane e porta già la fede al dito. Con che spirito bacerà i suoi figli, dopo una giornata in compagnia di muri grigi, sguardi neri, cancelli di ferro, regole di ferro, latrine puzzolenti, assassini, corrotti, stupratori, bugiardi, spacciatori e ladri. Epatiti, malattie veneree. Tra la sodomia indotta. Pressati. Come marinai imbarcati a forza. Anche peggio.

    E io? Cosa provo? Ancora una volta non lo so. È tutto nuovo: ho bisogno di tempo, quando si tratta di me. Mi devo concentrare. O forse lasciarmi andare. Neppure questo ho ancora capito. Ma ho promesso alla dottoressa Lussiani di farci caso.

    Gia! La dottoressa Lussiani, psichiatra e psicoterapeuta.

    Inguaribilmente freudiana: praticamente un’incudine che cerca di spiccare il volo.

    All’inizio temevo che la Doc potesse leggermi nel pensiero. Ma non è così. Nessuno può farlo. Per il mio bene.

    E sua sfortuna.

    La Lussiani.

    Dottoressa immobilità. Specialista in benzodiazepine.

    A questo si è ridotta la psicoterapia? Dov’è finito il fervore dei pionieri? E le migliaia di volumi sugli scaffali delle librerie, cosa sono, arredamento intellettuale e basta? Miliardi di parole scagliate come gocce dalle torri d’avorio, sul popolo assetato di pace interiore, sono solo bubbole?

    No, non lo sono. Adesso so che non è così. I dottori capaci, esistono.

    Ma ho vagato a lungo, prima di rendermene conto.

    Divago…

    Il secondino mi sta fissando. Torno alla realtà. Io, Oscar Torri – quarantanove anni, un metro e ottantadue, i baffi, gli occhiali tondi che mi danno un’aria rassicurante e vagamente intellettuale – sono solo momentaneamente murato vivo dentro il carcere della Dozza. Ho un mio piano.

    Io, Oscar Torri, di fronte ai crimini, al sangue e al dolore che ho inflitto ai miei simili (che simili a me non sono). Di fronte a questo oceano di male che è solo un mio strumento di conoscenza, io che potrei essere definito un demonio, io, io, io…

    Io non provo niente.

    Un pacifico nulla.

    Come ho già detto, dopo tanto peregrinare, sono finalmente un uomo libero.

    La Colomba e la notte

    È la sera della vigilia di Natale, indosso un passamontagna e sono vestito di nero.

    Lei si chiama Mirella. Ha trentadue anni, è un’infermiera senza fissa occupazione che si accontenta di assistere degenti. Viene pagata a ore, una miseria per quello che a volte è costretta a fare.

    Ama correre e ha tentato la fortuna con un quiz televisivo, perché le sue amiche sostengono che ha una memoria prodigiosa. È andata benino, ci ha guadagnato i soldi per il matrimonio e un lungo viaggio in oriente.

    Ha appena finito il turno all’ospedale Malpighi e sta tornando a casa. L’attendono il marito, rappresentante di caffè, e i tre gatti.

    Come tutti gli anni, vorrebbe chiamare sua madre e sua sorella, che abitano ancora a Campobasso, anche se con loro non è in buoni rapporti. Solo così, per scambiarsi gli auguri.

    Il rumore dei suoi tacchi è al di là del muro. Prosegue fino al cancello che dà su via Pizzardi, e finalmente ecco la sua figura slanciata.

    Fa freddo, sottozero. Il suo respiro affannato si condensa in vapore.

    Si guarda intorno come se annusasse il pericolo.

    Si accorge di me solo quando sbuco da dietro il camioncino parcheggiato, e le sono già addosso.

    Il resto della strada è una lunga striscia deserta che si perde nel buio.

    Il colpo è come il morso di un lupo.

    L’istante in cui la lama le lacera la carne del fianco, le premo sulla bocca la mano guantata, per soffocarne il grido.

    La sento vibrare, però, in fondo nell’anima. E schiantarsi come una finestra esplosa.

    Il dolore le si irradia per il corpo, rovente da rubarle il respiro.

    Nella foga, le sto tappando anche il naso. Non riesce a prendere aria. Le gambe mancano, piange e guaisce. Cerca di divincolarsi ma è inutile.

    La seconda coltellata è più profonda e ricalca la prima. E una terza sopraggiunge allo stomaco e lacera i visceri, e questa volta l’acciaio resta dentro.

    Si tratta di un’arma da caccia affilatissima, potrebbe tagliare un pelo di cinghiale per il lungo, diceva la pubblicità. L’ho comprata per questo.

    Ruoto la mano come se rimescolassi qualcosa. Respiro la potenza della morte.

    Re… e… spi… ro. E vivo.

    Vivo.

    Prima ero invaso dall’adrenalina, ora mi sento appagato.

    Mirella si agita ancora, debolmente.

    La tiro a me, guardo i suoi occhi farsi vitrei. Ogni vita è infinita fino alla morte e quello sguardo abiterà per sempre la mia memoria.

    Frammenti di mosaico.

    …il sangue a terra che scioglie le pozzanghere gelate, il cappotto lacerato, i capelli neri sotto la cuffia bianca, la fede al dito, i peli dei gatti sulla gonna, il corpo scomposto e violato…

    Queste immagini rimarranno per sempre, ad alleviare l’angoscia di una vita che mi soffocava con le sue convenzioni e civiltà.

    E tra tanti anni, quando la vecchiaia sopraggiungerà prosciugandomi, mi troverà pronto. Decrepito ma appagato. Benvoluto e rispettato dagli amici e dalla famiglia. E potrò finalmente spegnermi con serenità, custodendo i miei segreti.

    Certo di lasciare tra i miei cari, solo rimpianto e ricordi d’amore.

    Quattordici mesi prima

    Prima parte

    Preesistenza. L’insonnia. E io

    3

    La Doc se ne stava seduta a gambe accavallate sulla sua poltrona verde smeraldo.

    Il tailleur arancione ma educato e la messa in piega d’altri tempi. Il block notes in grembo, la stilografica nella sinistra.

    Mi chiedevo come te lo deve tenere e menare, una mancina.

    Quel giorno, mio figlio Luigi – carne e sangue della mia stessa carne e sangue – mi si era rivoltato contro come un mastino.

    Era dieci centimetri più alto di me, sebbene fosse magro. Ed era stato un promettente sportivo, prima di mandare alla discarica la sua esistenza e la serenità della nostra famiglia.

    «Potevo appiccicarlo al muro», sospirai. «Avevo voglia, sa. Ma cosa vuole che le dica, non l’ho mai toccato. E… sì, insomma, alla fine mi sono difeso senza reagire».

    Le mani addosso. Non credevo sarebbe arrivato a tanto, era stato traumatico.

    Silenzio.

    «Ha 22 anni, è un uomo misericordia. Io alla sua età gestivo già la contabilità di tutta l’azienda, studiavo la notte… e trovavo il tempo per divertirmi. Lui non fa niente dalla mattina alla sera», continuai. «Ha piantato Fisica, ora dovrebbe studiare Ingegneria Informatica. Siamo a zero esami in tredici mesi. Senza contare… beh, lei sa a cosa mi riferisco».

    Roba grossa, intendevo. Ero un padre scrupoloso e preoccupato.

    La Doc si limitò a un sospiro. Le piaceva che mi cuocessi da solo le mie castagne, per poi scottarmi le mani nel tentativo di mangiarle.

    Doveva essere il suo concetto di acquisizione della consapevolezza.

    «La piccola Sara invece è un’altra cosa», divagai per allentare la morsa allo stomaco. Mi consolava la dolcezza di Sara. Dodici anni, il più bell’errore della mia vita. Nel senso che non l’avevamo cercata, mi piaceva pensare che fosse stata lei a trovarci.

    Questa volta la dottoressa mi elargì un sorriso. Faceva così quando non era interessata. E infatti mi domandò: «Di Luigi, diceva?».

    «Gli ho buttato la piantina di marijuana e lui l’ha presa male».

    «Marijuana?».

    «Sì. Il mio ex cognato, Andrea… il vigile urbano. Coi precedenti di Luigi, storceva il naso».

    La dottoressa appuntò qualcosa nel block notes. «Cosa intendeva dicendo che si è sentito male?».

    Questa era facile, credevo. «In colpa. Non capita così anche a lei?» saggiai. In realtà non sapevo se la dottoressa fosse sposata o avesse figli. Non sapevo nulla della sua vita privata.

    «E poi?» mi incalzò.

    «Sono andato in ditta. Ho sempre talmente tante cose da fare».

    «No, mi riferivo a cos’altro ha provato».

    «Ah! Provato. Beh, è naturale, ho provato… provato…», mi grattai l’orecchio. Sentii la faccia rattrappirsi nel tentativo di codificare l’emozione. «Cos’è che ho provato?», bofonchiai.

    Era strano. Cosa provavo, dentro di me… io non lo sapevo.

    4

    Sorrisi per nascondere l’imbarazzo. Quindi buttai fuori pensieri a casaccio: «Coltivarsi droga leggera è uno status symbol, lo fanno altri studenti. Tutti i giovani amano trasgredire».

    Non si potevano sentire le cose che stavo dicendo. Parlavo già come mio nonno: meritavo di fare il suo stesso odore.

    «Ai tempi dell’università, lei trasgrediva?».

    Che domanda. La dottoressa era curiosa. Vuoi vedere che avevo ragione, pensai, che sotto la cenere brillava ancora qualche scintilla maliziosa? La immaginai far le fusa, con autoreggenti e lingerie nera. Avrei potuto dar di stomaco. «Mah, non saprei», risposi sulla difensiva. Mentre sotto il mio sedere la poltrona era diventata improvvisamente scomoda.

    L’avevo fatto, invece. Avevo infilato le dita nella marmellata. E dopo, dentro la mia testa, il vasetto non si era più richiuso. Il profumo mi ubriacava.

    «Sono sempre stato un tipo tranquillo», aggiunsi, ma abbassai lo sguardo. Avevo il respiro affannato.

    Rimanemmo in silenzio e la cosa non mi aiutava.

    «Si sente bene?».

    Annuii nervosamente. Levai l’anello d’argento che portavo all’anulare e ci giocai per scaricare la tensione. Per non scaraventarglielo addosso. Ultimamente la Doc aveva il chiodo fisso sulle mie emozioni. Per me erano sempre state irrilevanti. Come la coda che ci è sparita perché non serviva più, e ci è restato il coccige. Lei mi osservava il coccige e pretendeva che io scodinzolassi.

    Buttai gli occhi sull’orologio. Questo round l’avevo vinto io: era finita l’ora. Anzi, i cinquanta minuti. Le sue ore duravano meno.

    La dottoressa Lussiani si alzò e ripose il block notes dentro il cassetto della scrivania. La pagai, ricordandole che faticavo ancora a prendere sonno. Che controllavo sempre più volte la porta, l’antifurto, il gas, l’acqua e le persiane, prima di andare a dormire. Che i rumori forti mi facevano esplodere il cuore, che bastava un tuono per farmi mancare le gambe e correre a ripararmi sotto la scrivania.

    Ero venuto per questo, due anni or sono, ma di questo non parlavamo quasi mai.

    Mi rispose con il suo cavallo di battaglia: di aumentare un poco le benzodiazepina.

    La ringraziai. In fin dei conti era quello che volevo sentirmi dire.

    Uscii dallo studio, in via Massarenti zona Libia. Era una splendida giornata d’autunno. Di cielo terso e natura infuocata.

    I bambini giocavano, la gente passeggiava tranquilla come se andasse tutto bene. Gli innamorati si tenevano per mano, convinti che il tempo avrebbe sparso diamanti e petali di rose ai loro piedi. E io, sottovuoto dentro la mia campana di vetro, avevo finalmente capito che la mia anima era un pozzo scuro e freddo. Che non provavo niente. A parte questa rabbia e angoscia lontane. Come fumo nero all’orizzonte di cui non sentivo nemmeno l’odore, ma che testimoniava

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