Per oggi non mi tolgo la vita
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Anteprima del libro
Per oggi non mi tolgo la vita - Alfonso Brentani
IL LIBRO
Nato storto per morire dritto. Dice il protagonista, un trentenne aspirante suicida.
Brentani, ispirato da Il male oscuro di Giuseppe Berto, mette in scena, con un vero e proprio flusso di coscienza, la tragicomica vicenda di un personaggio che fallisce reiterati tentativi di suicidio, giungendo a prendere posizioni precise nei confronti dell’etica medica e degli interessi industriali delle case farmaceutiche che producono psicofarmaci. Dal fatto all’antefatto. Tra grotteschi tentativi infruttuosi di togliersi la vita con il gas di scarico della marmitta, la corda al collo o il gas della stufa, sempre distolto dalle sue stesse riflessioni, il nostro disturbato guerriero incrocia la dottoressa centottanta
e scopre le verità del bugiardino
. Lucida, intelligente, disincantata, la narrazione assume a volte un tono aspro che tende alla comicità e all’assurdo. Ma riuscirà a diradare l’ombra del male oscuro
?
L’AUTORE
Alfonso Brentani è nato, nell’inverno del 1977, nel nord della Sardegna, dove vive.
È appassionato di letteratura e di black-metal, oltre che di alberi.
Ha lavorato per qualche anno nell’editoria, ma ora ha smesso: gli è però rimasta la simpatia per il «punto e virgola» e i congiuntivi, che sembra siano sempre più rari; non gli piacciono né la d eufonica, né il cinema, né la poesia; e neanche le petizioni, e quasi nessuna forma, virtuale e reale, di eccessiva socialità.
PER OGGI NON MI TOLGO LA VITA
ALFONSO BRENTANI
Per oggi non mi tolgo la vita
di Alfonso Brentani
© 2010 – Edizioni Exòrma
via Fabrizio Luscino 73 – Roma
Tutti i diritti riservati
www.exormaedizioni.com
Progetto editoriale Orfeo Pagnani
Foto di copertina Virgilio Cinque
ISBN 978-88-98848-11-9
… e per farla breve non appena da qualche regione fisica o metafisica del mio corpo sentivo partire una corrente di malessere caldo o freddo che andava all’assalto del mio Io col proposito di disintegrarlo cercavo lei prima di tutto, anzi cercavo unicamente lei in una città che sovrabbonda di medici e cliniche per malati di cervello, ed ecco che lei quando può viene, talvolta anche di notte viene e si sdraia accanto a me sopra le coperte col plaid addosso e mi tiene le mani e mi dice che non sono solo al mondo perché c’è chi non mi abbandonerà mai…
G. Berto, Il male oscuro
… tutto è aspro, cupo, orrendo: la disperazione trasforma il giorno in notte d’inferno e costringe a nutrirci di lacrime e di dolore con un non so che di una voluttà tanto che a malincuore se ne distoglie.
F. Petrarca, Secretum
È più facile scrivere una ricetta che parlare con un sofferente.
F. Kafka
PREMESSA A DISCOLPA
Le pagine di questo agglomerato di parole nascono – come si potrà intuire – in seguito alla lettura de Il male oscuro di Giuseppe Berto. Si dice sempre e si è convinti che i libri importanti siano quelli in grado di emozionarci e cambiarci o quantomeno aiutarci o affossarci definitivamente. Sono perciò, per quanto soggettive possano essere le valutazioni nelle storie delle letterature, ben pochi: sono libri che si leggono e che rimangono, come la polvere d’oro sul fondo del gold pan; non sono quelli che sempre hanno avuto successo, come Berto stesso ci ricorda nell’Appendice a Il male oscuro: «[…] libri che magari hanno avuto successo ma sono libri inutili, come tutti i libri di maniera».
Utilizzando una viale metafora: io con Il male oscuro ho acquistato una bottiglia di vino, l’ho annusata e poi bevuta tutta d’un colpo; mi ha preso la nausea, e ho vomitato dentro la stessa bottiglia un altro vino, non certo all’altezza però del primo.
«… la corsa alla morte, come fatto collettivo, si consumava in silenzio, nasceva da un bisogno imperioso e ignaro. E questo suo carattere, come anche l’assenza di facili componenti culturali o economiche, persuadeva la nostra povera, povera sociologia a non occuparsene, ma c’era chi teneva gli occhi aperti sui fatti. Il capo dipartimento del traffico nello Stato del New Jersey, un modesto funzionario, dichiarava ai giornalisti: Voi dite imprudenza
quando scrivete delle stragi domenicali sulle strade, ma l’imprudenza non è una causa, è un mezzo. Il guidatore sceglie l’imprudenza perché ha scelto la morte. Perché non vuole tornare a casa. Se gli levate l’automobile si getterà dalla finestra».
G. Morselli, Dissipatio H.G.
FATTO
«Un ubriaco muore di sabato battendo la testa sul marciapiede e la gente che passa appena si scansa per non pestarlo. Il tuo prossimo ti cerca soltanto se e fino a quando hai qualcosa da pagare. Suonano alla porta e già sai che sono lì per chiedere, per togliere. Il padrone ti butta via a calci nel culo, e questo è giusto, va bene, perché i padroni sono così, devono essere così; ma poi vedi quelli come te ridursi a gusci opachi, farsi fretta per scordare, pensare soltanto meno male che non è toccato a me, e teniamoci alla larga perché questo ormai puzza di cadavere, e ci si potrebbe contaminare. Persone che conoscevi si uccidono, altre persone che conosci restano vive, ma fingono che non sia successo niente, fingono di non sapere che non era per niente una vocazione, un vizio assurdo, e che la colpa è stata di tutti noi. Fai testamento, ci scrivi chi vuoi a seguire il tuo carro, come vuoi il trasporto, ti raccomandi che non ti facciano spirare negli scantinati, ma poi, a ripensarci, vedi che quest’ultima tua volontà è fatta soltanto di rancore beffardo. Poiché l’impresa non era abbastanza redditizia, pur di chiuderla hanno ammazzato quarantatré amici tuoi, e chi li ha ammazzati oggi aumenta i dividendi e apre a sinistra».
Mentre faccio la fila alla cassa due signore litigano per la precedenza, e mi viene in mente questo passo de La vita agra di Bianciardi. Pago, spendo circa cinque euro, e salutando appena con un grazie e arrivederci esco senza guardare nessuno negli occhi, per non irritare gli occhi di nessuno che si chiederebbero cosa io abbia da guardare. Salgo in macchina, appoggio la busta sul sedile del passeggero, e mi siedo. Metto in moto, accendo l’autoradio a volume medio-alto e esco dal parcheggio guardando con diligenza gli specchietti per non correre il rischio di urtare qualche altra vettura in arrivo. Alterno la seconda e la terza, con una guida rilassata e tranquilla e non badando a chi dietro di me dà segni di insofferenza e di frenesia esistenziale; faccio passare tutti i pedoni che vedo titubare ai margini della strada, e provoco in chi mi sta dietro altra insofferenza e frenesia esistenziale, l’apologia in loro della fretta produttiva, l’odio per chi va lento e inceppa gli ingranaggi. L’odio per i denti spuntati, inutili, degli ingranaggi; guido da addormentato, o meglio dormiente, perché sveglio come loro e come tutti non voglio esserlo. Incrocio due semafori che volgono all’arancio e rallento, in attesa del rosso; non ho fretta. In venti minuti circa esco dalla città, sono quasi le nove di sera e è ormai buio da un paio di ore: ho in mente la mia meta, e ci arrivo senza esitazioni e con la sicurezza dell’obiettivo che lentamente, e per questo inesorabile, si avvicina. È un piccolo spiazzo a cui si arriva attraverso una deviazione, dalla strada principale, di cinquecento metri: è molto poco frequentato, ci sono già stato alcune volte, e l’unica presenza che casualmente ho notato è quella di un pastore che ci passa, forse per raggiungere il suo vicino ovile; le coppiette qua non si appartano perché forse temono i pastori. Il pastore, le volte che l’ho notato, passava sempre molto prima di questo orario: adesso suppongo di essere solo, o comunque di avere un’altissima probabilità di esserlo e per qualche ora ancora. Parcheggio con calma, e spengo la macchina; riaccendo lo stereo, e prendo la busta dal sedile. Penso a ciò che la vita ci chiede e ci dà, e mi vengono in mente gli obiettivi. L’amore, l’amicizia, l’ambizione, la riproduzione, la vita sociale e professionale, i sorrisi e le uscite notturne e diurne, gli interessi e l’arte, le passioni, le emozioni, i titoli e i profitti, gli affetti e gli abbracci e i dolori; e io di tutto ciò non voglio più nulla, voglio l’assoluta libertà di rifiutare tutto e di non combattere per ottenere tutto ciò, voglio l’onore delle armi per obiezione di coscienza alla vita. Voglio il diritto al patetismo: alla sconfitta e alla rinuncia, alla debolezza e al crollo. La busta è ancora in mano, è fatta con quel nuovo materiale che penso sia maggiormente biodegradabile, e il pensiero che ancora esistano miliardi di persone che fanno qualcosa per dimostrare attaccamento alla vita mi commuove: prendo un tubo di gomma verde e il nastro isolante nero. Mentre l’autoradio trasmette ancora musica a un volume molto basso, apro lo sportello e al buio scendo dalla macchina: seguendone a tastoni la linea, arrivo dietro, e mi abbasso. Trovo il tubo di scappamento subito, del resto è facile, e ci infilo per qualche millimetro l’estremità del tubo di gomma; tenendola con una mano, con l’altra, non senza difficoltà, inizio a avvolgerci attorno il nastro isolante nero, e faccio diversi giri, fino a quando non mi sembra assicurata abbastanza saldamente, in modo che non lasci traspirare neanche un fiato. Mi alzo, e porto il tubo verso il lato destro della macchina: lo infilo dentro l’abitacolo dal finestrino anteriore, e ritorno indietro per