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Vincere la vita
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E-book169 pagine2 ore

Vincere la vita

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Info su questo ebook

Nina, quarantacinque anni, disoccupata pur essendosi laureata in architettura, subisce la dipendenza economica e psicologica dal marito immaturo ed egoista. La situazione precipita quando Carlo a seguito di un viaggio in Kenya contrae un virus che lo condannerà alla disabilità motoria. Rifiutando il futuro crudele, Carlo tradisce la moglie con un’ex fidanzata. Nina scopre la tresca e parte prima per Parigi dall’amica Giselle e poi per Londra da Costanza, che le offre un’opportunità di lavoro, convincendola a dare una svolta alla sua vita.
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2016
ISBN9788863939095
Vincere la vita

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    Anteprima del libro

    Vincere la vita - Delfina Ducci

    I

    Esco. Ho bisogno di aria. Di luce. Ho bisogno di me, di stare con me. Bene con me. Mi voglio amare, ma è troppo tardi, troppo tardi per tutto. Perfino per prendere il treno. Ce n’è un altro tra mezz’ora. Trenta minuti dove impongo l’ozio al cervello.

    Non voglio pensare a nulla. Solo godere l’attesa guardando la borsa, fissare le persone che sostano sulla panchina, osservare i loro abiti. Cose futili ma che portano ossigeno al cervello stanco di trattenere pensieri assillanti, soluzioni, consigli, disperazioni, decisioni mai prese. Decisioni che appaiono in tutta la loro efficacia quando il corpo è rivolto al sole, aspettando il treno. Cambio vita.

    Questa volontà radicale infonde una serenità spenta e mortificata dall’inerzia, dal non agire aspettando il nulla.

    Giornata di merda, quando s’interrompe il ritmo febbrile degli impegni che sono l’anestesia della coscienza. Quasi un sollievo per quello stato di angoscia apparso da qualche giorno, quando ho avuto la sensazione di scendere le scale di uno scantinato. Blackout. Senza la forza di accendere la lampadina del solito entusiasmo.

    Sì, appartengo alla categoria dei cretini, quelli che distribuiscono consigli e incoraggiamenti. Che fanno la pranoterapia mentale agli sfigati per trasmettergli energia e ottimismo. Che tornano a casa soli come cani e s’illudono che, alla fine, qualcuno si accorgerà di quanto sia amaro constatare di essere un utile di cui servirsi a piacimento, mentre si attende di essere amati. Se questa parola suona impegnativa, mi accontenterei di sporadici apprezzamenti dove venga riconosciuto lo sforzo quotidiano di essere sempre disponibile, pronta al dialogo, alla comprensione, all’ammissione degli errori.

    Non posso fare miracoli quando l’altro vede se stesso allo specchio e pensa che tutto gli sia dovuto. Vittima non solo del proprio egoismo, ma anche portatore di sconforto e solitudine. Il silenzio e l’indifferenza feriscono, mentre l’orgoglio è il peggiore consigliere.

    Dice che è un’amica d’infanzia. Le farebbe piacere rivederlo. Vorrebbe consolarlo del suo disagio. L’accolgo con stima e affetto. Ricambio triplicando la disponibilità. Perfino i cioccolatini sistemati vicino alle tazzine da caffè. Due. Mi scuso, devo scappare. Oltretutto, questo ritorno al passato non mi appartiene. La mia presenza potrebbe impedire quell’abbandono che colma l’anima di una dolcezza simile allo svenimento.

    Il presente ingoia. Corro dietro a me stessa con l’affanno di non riuscire a raggiungere tutti e tutto. La pretesa di efficienza è la maledizione della vita. Le azioni giornaliere sono sequenze di un film vissuto da spettatore e da protagonista, con l’angoscia di non sapere quale sarà il finale e se la storia avrà successo. Il consenso sarebbe il farmaco miracoloso, la risposta a un’inquietudine che lima giorno dopo giorno l’anima e imprigiona in una scontentezza irritante.

    Ho dimenticato il materiale da consegnare. Torno indietro. Telefono per farmelo passare dal cancello senza perdere tempo a girare la chiave che sistematicamente cade in terra e sparisce nel nulla. Scampanellate per comunicare la fretta. Allora entro. Forse sono fuori in giardino. Lui ha la passione dei fiori. Macché. Non in mezzo a quelle camelie rosse che sputano fuoco di passione. Quelle le hanno già annusate. Seduti nel lettino singolo ascoltano una musica languida. Colpevoli le camelie, il nirvana che ha procurato l’astrazione dal mondo e ha reso tutto più semplice. Complici le parole sdolcinate, usate per i ricordi ancora vivi e difficili da tradurre in espressioni sincere. Perfino ridicole nel rivedersi in un’immagine cristallizzata nel tempo. Nonostante il presente. Eloquente.

    Si ricompongono alla svelta: lei risistema le tette nella camicetta. Lui si alza in piedi. Disappunto. Il mio. Il loro. Conosco il tono della voce di Carlo quando tenta di dominare le situazioni critiche. Non dimenticare altro. Buona fortuna, Nina, dice lei. Il suo buon cuore augurava che la trovassi.

    Esco da casa confusa e disorientata. Una pena si piazza nello stomaco, accompagnata dalla sensazione che qualcosa di negativo stia per accadere. L’ansia si sovrappone a una paura indefinibile.

    Cerco di minimizzare ciò che ho visto. Vado oltre. M’impongo una magnanimità più razionale che emotiva, ma questa non acquieta il subbuglio, non rifiuta il logorio del botta e risposta interiore dove siamo tutti e tre in un tribunale. A decidere cosa? Chi ha fatto torto a chi. Chi ha preso cosa a chi. Chi ha deciso che. Insomma, il pubblico ministero come capo d’imputazione? Il tribunale della mente tiene in serbo un’infinità di accuse, una sterminata gamma di condanne, ergastoli, violenze, non appena l’imputato è il sentimento. Qualunque esso sia: di amicizia, coniugale, di amante. Il demone si scatena, impedendo il lucido esame della situazione.

    Sento dolore al braccio sinistro, gli organi interni tremano. Una corrente elettrica attraversa il corpo. Ci siamo. È infarto. Era meglio la scenata. Più salutare prendere la giostrina con i cavallucci colorati che ripete la nenia anche se solo la sfiori e fracassargliela in testa. Il cavallo destro a lui. Il sinistro alla stronza.

    Invece tu, cara Nina, vuoi apparire perfetta, educata. Un mostro d’intelligenza. Equilibrata in tutte le situazioni. Ora, beccati l’infarto. Mi esce pure il sangue dal naso e ho la tachicardia, ma non voglio andare al pronto soccorso. Che abbiano sulla coscienza la mia morte.

    Mi sento afferrare per una spalla.

    «Che cavolo ti è successo? Non ti ho mai visto così male!»

    «Niente.»

    «Classica risposta di tutte le donne» risponde Antonio. Mi bagna la fronte con l’acqua della bottiglietta che porto nella borsa e con tenerezza m’invita a sedere. Non mi cava una parola dalla bocca. Se ne va. Se ho bisogno, so dove trovarlo.

    Voglio stare da sola. Vivere il dispiacere per conto mio. Da dietro i palazzi, le strade, gli alberi, le buche, un brulicare di presenze pronte a dire la loro. E io devo ascoltarle perché parlano di me. Che vuoi fare, mi domanda la piccola Ninetta. Naso all’insù, occhioni verdi, denti da coniglietto. Come hai fatto a cacciarti in questo pasticcio? Il matrimonio non era per te. Una passionale non regge i ritmi del dolce tran tran coniugale. Tu sei avida di rapporti umani. Lo zoo umano lo esamini, gli apri il cervello, lo vuoi tenere in pugno. Succhi energia. Ami vivere. Nessuno arresta la tua corsa, neppure dei chiodi conficcati negli arti potrebbero. La libertà è sentire il vento tra i capelli, confonderti nelle infinite sensazioni della vita, amare senza appartenere a nessuno. Di che cavolo ti lamenti? Vai a ringraziare la stronza che, per sottolineare la tua superiorità culturale, chiami solo maleducata. Vai.

    Non è sufficiente la tolleranza o la non violenza, non basta l’amicizia o la benevolenza verso gli altri: devi amare senza aspettarti di essere amata. Cioè, santa? Devo diventare santa? Questo pretendeva mia madre con addosso il puzzo della sacrestia, dove padre Ernesto le suggeriva le risposte agli inquietanti quesiti di Ninetta.

    No, santa proprio no. Prima di trovare una soluzione devo parlare con lui. Ieri ci siamo appena salutati e poi tutto è rientrato nella normalità: Carlo chiuso nel solito mutismo, io apparentemente occupata con le mie carte che subivano spostamenti repentini, fino alla sbattitura sonora e pesante sulla scrivania.

    Eh no, per scema proprio non voglio passare. Da dove viene la stronza, dall’Università di Oxford per comportarsi così? Mi ferma per la strada, sei in gran forma, sempre uguale, non ti è passato un anno, dichiara con tutta la falsità di cui sono capaci le donne quando vogliono abbindolarti. Ho saputo di Carlo e poi il via a considerazioni con fare mesto, triste, comprensivo, disponibile, materno, umanitario.

    Non sono mai stata gelosa del tuo passato, anche se a volte la curiosità di sapere l’origine di tanta riservatezza mi spingeva a chiedere, a indagare. La riservatezza può essere una qualità, ma non quando si trasforma nel muro, nella parete di cemento armato, nella pietra. Insomma, non voglio discutere sul tuo carattere ma sulla incapacità di sincerità. Menti, racconti bugie per proteggerti, le dici sempre a tuo vantaggio. Le bugie sono state la tua corazza. Ora, esigo la verità, la pretendo perché mi spetta. Pure bla bla bla rispondi? Invento tutto? Questo non è dire bugie, questa è spudoratezza. E allora stai bene a sentire, prima che uno dei due prenda una decisione. Anni di tentativi ad aprire la tua bocca, a scrutare nel tuo cervello il fluttuare di qualche pensiero, a sezionare il tuo cuore per assistere a qualche saltello di sentimento, a prendere le tue braccia per annodarle intorno a qualcuno che avevi vicino.

    Non ti ho costretto a restare con me. Carlo, devi rispondere, altrimenti prendo la giostrina e te la fracasso in testa. Ho fatto monologhi, soliloqui, e tu lo spettatore. A te la scena ora.

    «Non abbiamo fatto nulla, Nina, nulla, solo una rimpatriata, ricordi, scemenze…»

    «Potevate dirvele sul divano e, soprattutto, fai sapere alla stronza che si ascolta senza togliere la camicia e… Lasciamo perdere. Dove abita? Mi ha informata che non vive più a Roma, è divorziata, fa l’infermiera, i due figli sono divorziati. Dimmi, quanto ti ha chiesto per la rimpatriata? Ha bisogno di soldi e ha bussato alla porta dell’infanzia. Brava la cara fidanzatina che si riaccende di passione quando se la vede brutta.»

    Tutto ha un prezzo nella vita, anche il sacrificio, e allora vogliamo metterla sul piano del cuore venale? Devo imparare a difendermi. Sono stata una sprovveduta, non sono riuscita a prevedere, né a mettermi in testa che la vita della libertà e della coerenza è destinata a fallire. Sì, sono una fallita. Sono cavoli miei di come mi sento. Ora voglio sapere e, nel patologico samaritanesimo, salvarti dal burrone in cui cadrai. Anzi no, me ne frego, esco e torno all’orario che mi pare, senza vivere l’angoscia del tardi troppo tardi, di spaccarmi i piedi con quelle ballerine da pochi soldi per fare in tempo a preparare la cena e assicurarmi che tutto è salvo in questa casa.

    II

    Di nuovo alla stazione a prendere il trenino metropolitano che odora di sudore già di prima mattina. L’uno di faccia all’altro, bocca a bocca. Il dirimpettaio t’investe con l’aroma del caffè appena ingurgitato, oppure sputa il sapore amarognolo della sigaretta aspirata in fretta. L’odore fragrante della crema sul corpo, soffocato dall’alito cattivo di chi ha lo stomaco vuoto per non aver fatto in tempo a fare colazione.

    Tutto mi scivola addosso. Con quella massa di disperati esiste una specie di legame parentale. In quel centimetro quadrato che ci spetta, ascoltiamo tutto quello che l’animo umano possa aver prodotto durante la notte, il giorno, sul set del lavoro, con l’amante, il marito, i figli, la politica, la violenza… Qualcuno più intellettuale parla di arte o di teatro: il teatro del silenzio.

    Sì, lo vorrei un po’ di silenzio. Devo concentrarmi sulla mia pena. Ormai il campo di battaglia si è trasformato in un corpo a corpo con lei e con lui. Carlo chiuso nel suo mutismo evita lo scontro frontale e pensa di essere un trofeo per la vincitrice. Non lo voglio il trofeo. Non lo voglio.

    Cosa m’interessa, che cosa desidero, non lo so. L’esame si rivolge al passato, non a un futuro da vivere. È il presente a pretendere una presa di coscienza che vorrei evitare perché non c’è cosa più fastidiosa e insolente del rimuginare su comportamenti superati dal tempo e già analizzati e già discussi e già condannati e già digeriti… ma forse qualcosa è rimasto sullo stomaco.

    Che strazio ripercorrere il passato per trovare la ragione del presente. Le azioni non sempre seguono la logica, a volte si presentano avulse da ogni contesto, precipitate all’improvviso, sbucate fuori non si sa da dove.

    Avverto una pena persistente simile al mal di stomaco. Un cono da due euro di solo cioccolato: sono golosissima e quello mi attira sempre. Tre leccate, poi lo butto nel primo cestino che trovo per strada. Una tigre in gabbia con gli artigli pronti a dilaniare, per ora, solo la mia anima. Avevo bisogno di questa preoccupazione? Con quello che ho passato e quello che mi aspetta nel futuro in termini d’impegno familiare.

    Tu, caro Carlo, che tormenti i miei pensieri anche in questo momento, potresti esaminare con più lucidità la situazione. Purtroppo, ti è capitato un

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