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Where are you going
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E-book452 pagine7 ore

Where are you going

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Info su questo ebook

All’inizio del 2013 mi sono trasferita in Belgio, ho trovato un lavoro, mi sono ambientata, ho preso casa in affitto e mi sono fatta degli amici e ho iniziato così una nuova vita all’estero. Quando, per la prima volta della mia vita, ho avuto 2000 euro sul conto, sono andata in Australia per 7 settimane con un’amica belga. Abbiamo affittato un van e viaggiato da Cairns a Sydney insieme ad altri ragazzi incontrati lungo la strada. Dopo quel viaggio, al mio ritorno in Belgio, niente è stato più come prima e per questo ho lasciato il Belgio, il lavoro, l’appartamento in affitto e ho comprato un biglietto di sola andata per la Costa Rica. Il ricavato andrà alla realizzazione della versione inglese.
LinguaItaliano
EditoreDonna
Data di uscita29 gen 2016
ISBN9781326467463
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    Anteprima del libro

    Where are you going - Donna

    GOING?

    WHERE ARE YOU GOING?

    The only thing I will never learn is to say goodbye..

    Roma, Trastevere. Settembre 2015.

    Incontri fortuiti.

    L’alba del mio primo giorno della mia breve vita a Trastevere. Una festa in piscina, acrobati che cavalcano coccodrilli, io che assistevo a quello spettacolo fino a quando uno cade in acqua, le bestie verdi lo inseguono, grida aiuto. Qualcuno lo tira fuori, è salvo. Cade in acqua anche la proprietaria della piscina ma esce subito sana e salva. E poi cado anch’io, in acqua. I coccodrilli non ci sono però. Si, ce n’è uno solo ma dall’altra parte di dove sto. Non devo farmi scoprire. Apnea, nuoto in profondità fino al lato opposto dove sapevo di poter uscire. Trovo un cane, morto, un rottweiler per essere precisi. La proprietaria mi acchiappa dallo zainetto che tenevo dietro le spalle. Si sta facendo giorno, la festa è finita, dobbiamo andare. Un acrobata si avvicina, agita un pacchetto di fiammiferi. Linguaggio in codice per dire ‘addio’. Sapevamo che non ci saremmo mai più rivisti. Mi bacia in bocca. La proprietaria è triste per la morte del cane. Qualcuno mi spazzola i capelli! Che voleva dire? Mi rifiuto di cercare su Google. Mi giro e rigiro nel letto. Apro leggermente gli occhi. Luce è già giorno. Ho ancora sonno, mi giro dall’altra parte per cercare un po’ di buio. Due grandi occhioni mi fissano stupiti. Celine! Buongiorno! fammi dormire però!. Chiudo gli occhi, una strada e poi ancora la piscina, è giorno. Qualcuno mi tira ancora per i capelli. Apro gli occhi. E’ Celine! Guardo l’ora. Le 6.30. Cosa? Ma è prestissimo! Celine non puoi svegliarmi a quest’ora!.

    Fa caldo, sono quasi tentata ad accendere l’aria condizionata. Ho voglia di un caffè. Federica non ha la moka, usa la macchinetta. La guardo e penso: ‘chissà se riuscirò a farla funzionare?!’. Non sono mai stata brava con questi aggeggi. Non sarà difficile. La osservo e la studio. Trovo le pastiglie del caffè, dove andranno? La sposto, la tocco, la guardo da ogni lato. Non c’è neanche un buco! Non posso chiamare Federica per una stronzata del genere. No aspetta, c’è una leva, si muove su e giù, che succede? E come per magia, si apre uno scompartimento. Sarà lì il posto dove inserire la pastiglia! Ma come andrà messa, provo a infilarla e cade giù. Oh no! E ora come la prendo?. E’ tutto chiuso. Ok, prendo una forchetta e provo a riacciuffarla. Niente non funziona. Concentrazione, quello è, dove finiscono tutte le pastiglie usate, ci sarà un modo per aprirlo e ripulirlo, muovo il contenitore. Si sfila e si apre! Anche questo passaggio è andato. Ora dobbiamo mettere la pastiglia al posto giusto. Stress. Dunque, proviamo a metterla così. Voilà c’entra perfettamente! Premo il pulsante con la tazzina più piccola e via! Zucchero?.... dolcificante… no. Due barattoli uguali con della polvere bianca. Sale o zucchero?.. Lo zucchero sarà quello più brillante. Caffè pronto, missione compiuta. Giro lo zucchero e mi siedo davanti al pc. Il caffè ha anche la schiumetta, buono. Avrei voluto vedere la smorfia della mia faccia non appena ho assaggiato il caffè, salatissimo! Un sapore disgustoso. Sputo quell’intruglio imbevibile nel lavandino. Che schifo!

    C’è un bel sole là fuori, inutile restare chiusi a casa per cercare la risposta alla domanda che mi assilla da tre lunghi ed eterni giorni. Perché non uscire per una passeggiata? Ok, meglio trovare un obiettivo. E’ mezzogiorno, potrei comprare del pane o qualcosa da mangiare! No, meglio di no. Ci vuole un obiettivo più ambizioso. Il pane so già dove trovarlo, proprio dietro l’angolo del palazzo. Cercare una copisteria! Doccia, pulire la lettiera di Celine, vestirsi, buttare l’immondizia, ricordarsi le chiavi e il cellulare. Chissà qualcuno potrebbe cercarmi. Magari però non farò le cose in questo ordine.

    Ho preso tutto. No. Le chiavi! Cazzo. Per fortuna la porta è ancora aperta.

    Buongiorno signorina!! Lei è l’amica, giusto?. Giusto, i vicini! Federica mi aveva detto che probabilmente mi avrebbero invitata a pranzo. Tengono sempre la porta aperta.

    Salve! Piacere, si sono io, l’Amica!

    Ma che bella ragazza!... Vuole unirsi a noi per il pranzo?. Non mi aspettavo un invito così estemporaneo. Sarebbe carino.. ma cos’è che dovevo cercare? Ah si! La copisteria! Non posso rinunciare così subito.

    Oh grazie! Siete davvero carini e gentili, ma stavo uscendo.. magari un’altra volta!. Forse ero sembrata scortese? Però gli rifilai uno dei miei migliori sorrisi.

    Sono fuori, giro l’angolo. Ecco la panetteria francese! Ok, prendo subito il pane, così mi tolgo il pensiero. Magari anche un pezzo di pizza ha un aspetto buonissimo.

    Una piazzetta con un mercato. Bella, non la conosco. Cerco l’insegna col nome della piazza. Piazza San Cosimato! Certo, la piazza col mercato di cui mi parlava mia madre. Bar, negozietti, ristorantini, alimentari, hamburgherie, osterie. C’è un sacco da fare qua. Una ragazza urla al suo telefono: Ma fai l’uomo per favore!!. Bene, sono ancora a Roma. Una vecchietta sulla sedia a rotelle lancia i chicchi di mais ai piccioni. Dove vado?

    Non lo so. Avanti. All’angolo della piazza un ragazzo biondo con la barba maneggia una cartina della città. Accanto a lui una ragazza dall’aspetto asiatico, lo rimprovera nervosa. Sembrano in impasse. E’ finita la piazza. Dove vado? Anch’io sono in impasse. I due ragazzi sono ancora là a girare da tutti i lati quella cartina, forse si sono persi. Che faccio? Molto probabilmente se la sbrigheranno da soli nel giro di dieci minuti, si fermeranno a chiedere a un bar o qualcuno in mezzo alla strada, oppure rinunceranno a capire dove sono. Oppure potrei aiutarli.

    Hey! Do you need help?

    La ragazza asiatica mi guarda come se avesse visto un angelo cadutole dal cielo, il biondino invece sembra un po’ scettico. Però è lui che parla per primo. Oh, grazie si per favore! Stiamo cercando la gelateria Fata Morgana!. E’ famosa quella gelateria. Ci sono stata una volta, però ero a Monti. Forse si erano sbagliati. O forse ce n’era una anche qui. Ma io sono un po’ come una turista da queste parti.

    Io ne conosco una vicina alla metro Cavour. Siete sicuri che sia qui!?Si il ragazzo da cui dormiamo ci ha indicato Gelateria Fata Morgana. Piazza San Cosimato.E questa è piazza San Cosimato, quindi deve essere qui! Avete già fatto il giro della piazza?.. chiesto a un bar?Ehm, no, per la verità. Che faccio? Provo ad aiutarli lo stesso oppure li lascio persi al loro destino? Say yes. Beh, ho tempo.. Vi aiuto io a cercarla!. La ragazza s’illumina. E non smette più di ripetere Grazie Grazie Grazie!...Sai anche dov’è Beer& Food?. Mai sentito. Sulla mia faccia si stampa un grande punto interrogativo, credo, perché sennò non si spiega perché lei si mette a fare lo spelling della parola B – E – E – R. No, mi dispiace, però se volete, conosco un altro posto carino, dove mangiare e bere birra, è proprio qua vicino…. La ragazza m’interrompe: Non è necessario.. magari intanto troviamo la gelateria!.

    Torniamo indietro per ripercorrere la piazza. Di dove siete?Oh io sono francese e lei australiana!. Noto infatti che il ragazzo ha un marcato accento francese. Oh Australia!? Di dove esattamente?Melbourne, sei mai stata? No, purtroppo ho mancato Melbourne, però sono stata sulla East coast! …e tra venti giorni, mi trasferisco a Perth.. ho il working holiday visa e non so esattamente cosa andrò a fare!Maddai che coincidenza!.. Anche noi! Ci siamo conosciuti a Londra, ora stiamo viaggiando un po’ in Europa e poi andiamo in Australia!. Perché sembra che tutti vadano in Australia ultimamente?. E tu invece di dove in Francia?Bretagne.Ma che coincidenza! J’ai travaillé à Cancale!. Lui rise. Eccola qui! esultai, quasi un po’ compiaciuta, incredula di aver trovato Fata Morgana in così poco tempo. Wow awesome!!. Erano sinceramente contenti, eppure se solo fossero andati un po’ più avanti l’avrebbero trovata da soli! Stavano già entrando, quando il ragazzo si volta verso di me: Lo prendi un gelato con noi?Perché no?!.

    Pistacchio e cocco. I miei gusti preferiti. Loro invece sono ancora indecisi su cosa prendere ma stavolta li lascio scegliere da soli. Prendo il portafogli dalla borsa quando la ragazza mi ferma: Oh no, vogliamo invitarti noi! Sei stata così carina ad aiutarci, sai queste cose non capitano spesso!Lo so.. per questo l’ho fatto…anch’io viaggio e.. so cosa significa sentirsi persi. Una volta ero in Germania, a Brema, mi ero persa con la bicicletta. Ero in una strada isolata a squadrare la mappa quando un signore in bici si ferma e mi chiede se avevo bisogno di aiuto…e poi mi ha accompagnato lui stesso fino al mio albergo!.

    Quel gelato ci stava proprio bene. Grazie ragazzi per il gelato, non dovevate proprio!...Io comunque mi chiamo Donna e voi?Jane!Gipi, Nice to meet you!. Jane: Questo gelato è davvero strepitoso!... è molto tempo che vivi in Italia?Veramente sono italiana. Ho vissuto la maggior parte della mia vita a Roma e tre anni fa mi sono trasferita in Belgio e poi… mi sono messa a viaggiare per il Centro America…. Jane: Woow! Ma è bellissimo…e adesso cosa fai?Sto finendo di scrivere un libro su questo viaggio…Oh my god! Un’altra coincidenza! Proprio una settimana fa un mio amico viaggiatore mi diceva la stessa cosa.. che sta scrivendo un libro!...e ora incontro, per caso, te che fai lo stesso!Chissà forse dovresti scrivere anche tu un libro!- Già.. forse dovrei!...e perché vai proprio a Perth? - Bella domanda. Ehm.. in realtà… volevo rivedere un ragazzo…qualcosa di speciale era successo tra di noi.. quando ero in America Centrale…lui ora è a Perth… ma una settimana fa mi ha scritto che quella magia è finita…che devo andare avanti...ed io non so come finire il libro…perché mi sento così stupida ad aver deciso di andare a Perth per lui…e quindi non so più perché vado proprio lì!. Perché mi ritrovo a parlare di Mark sempre a sconosciuti?!..Bastardo! Pensai tra me e me. Jane: Oh, beh non si può mai sapere… e se non è lui…sarà qualcun altro, no?.... Comunque dovremmo incontrarci a Melbourne, nel caso passassi da lì... Ti lascio il mio contatto FB.Sì, forte, sarebbe bello incontrarsi di nuovo lì!.

    E così mi diede il suo contatto e gli augurai di divertirsi a Roma e li tranquillizzai: Non preoccupatevi anch’io mi perdo sempre in questa città! e Jane: Si! Ci siamo persi e ti abbiamo incontrato! Proprio una bella sorpresa!.

    Gent, Belgio. Settembre 2013

    In Australia troverai l’amore.

    Che caos. Mille pezzi. Frammenti di vita scomposti. Ho rovesciato il puzzle sul tavolo, tanti pezzi sono ancora con la faccia girata, bisogna scoprirli, quanto tempo ci vuole? 2 ore.. 3 ore? Sembra un passaggio sottovalutato, come se il processo di ricostruzione dell’immagine non fosse ancora cominciato.

    Ho iniziato a fare puzzle per caso, per sfidarmi probabilmente. Avevo trovato a un mercatino un vecchio puzzle. Mi piaceva e stavo per andare a vivere da sola per la prima volta, volevo inaugurare quell’evento con qualcosa di nuovo e mai fatto prima. Poi conobbi la mia gentilissima vicina di casa, Veerle, m’invitò a bere e a mangiare qualcosina insieme. Quando le mostrai il puzzle che stavo facendo, mi mostrò un puzzle. Era uno di Escher. Mano con sfera. Sembrava particolarmente complicato. Mille pezzi in bianco e nero. Veerle mi raccontò che qualche anno prima aveva iniziato a farlo, per passare il tempo quando il suo ragazzo era via in tournée. Quando tornò, la rimproverò perché non era riuscita a finirlo. Lei lo distrusse di nuovo in mille pezzi. Mi diede quel puzzle: Voglio che tu lo faccia per me. Vorrei aiutarti e finirlo insieme una volta per tutte!. Io ero ancora molto impaziente e il suo aiuto fu prezioso. Ogni sera ci chiudevamo per ore incantate davanti a tutti quei pezzi poi quando ci distraevamo, ridevamo delle grandi scoperte che avevamo fatto. Potevamo stare ore a squadrare, apparentemente, ogni singolo pezzo. Non c’è! Esclamavo spesso con delusione. Sicuro l’abbiamo perso!. All’inizio mi arrabbiavo come un bambino cui è stato tolto il gioco. Poi, col tempo, ho imparato a prendermi una pausa da quell’ossessiva ricerca, come prendersi un caffè, uscire per una passeggiata, fumare una sigaretta. A volte provavo a cambiare prospettiva, a concentrarmi su un’altra immagine, così iniziavo a cercare qualcos’altro. Finivo davvero col dimenticare ciò che stavo cercando con tanta impazienza. Una sera dopo varie ore di assoluto silenzio, meditando davanti a tutti quei pezzi così uguali, Veerle propose una pausa: Che ne dici di un tè?. Sorseggiavamo davanti a quell’impresa impossibile. Secondo me non ce la faremo mai a completarlo!. Ero ancora nella fase del pessimismo cosmico. Veerle non la pensava come me. Ci vuole solo del tempo… secondo me invece ce la faremo, insieme!Dimenticarsi di ciò che si sta cercando, dimenticarsi di ciò che si sta aspettando… sembra essere questo il segreto del Puzzle! Solo quando smettiamo completamente di cercare, di aspettare…quel maledetto PEZZO MANCANTE compare! Come per magia…la cosa assurda è che era lì, ma non lo vedevamo! Perché?!. Veerle prese un giornale e iniziò a sfogliarlo. Ti leggo l’oroscopo!...Bilancia, giusto?Si!.. chissà magari l’oroscopo saprà dirmi dove si trova il pezzo che cerchiamo da tre ore!! .. Dai spara!…In Australia troverai l’amore!. Strabuzzai gli occhi. Era incredibile. Perché proprio in Australia? Non avevo mai pensato di andare in Australia. Certo ci sono i canguri e… Veerle stava ancora ridendo per quello che aveva appena letto: Aspetta continuo a leggere, mica è finita qua!: ‘.. vi sentite come un astronauta che si prepara al lancio nello spazio. Comprensibile un po' di timore, di questi tempi uno non sa come finirà ciò che inizia, ma se è la vostra Venere a dare il via libera, non c'è bisogno di essere apprensivi’…. Dovresti davvero andare in Australia!.

    Terminammo quell’Escher dopo tre mesi. L’ultimo mese ci lavoravo sempre di più da sola. Purtroppo Veerle beveva troppo e non era in grado di aiutarmi, ma quando capii di essere arrivata alla fine. La aspettai. E lo completammo insieme. Quello fu il giorno più bello della mia vita in Belgio. Avevo capito quanto era importante prendersi il tempo di vivere un’esperienza, di non avere fretta, di condividerla con qualcuno. A volte le cose procedevano lentamente, c’erano giorni in cui riuscivo a unire solo uno o due pezzi, ma altre volte capitava che ne univo anche venti. E tutto sembrava fluire molto più velocemente. L’importante era sempre non perdere la fiducia in quello che stavamo facendo. Dovevo fidarmi del fatto che c’erano mille pezzi davanti a me, proprio su quel tavolo, anche se a volte, qualcuno lo ritrovavo per terra. La soluzione era già lì e prima o poi ci saremmo arrivati. Anche se non sapevamo mai con certezza quale pezzo stavamo cercando, avevo la sensazione che l’inconscio sapeva dove andare, conosceva già qual era il pezzo mancante. Veerle brindando alla nostra vittoria mi disse: Grazie, mi hai aiutato a finire qualcosa che non sarei riuscita a fare da sola…. Ti sei accorta che alla fine manca un pezzo?!. Si me n’ero accorta. L’immagine c’è, è completa, che importa?.. Nulla è perfetto. Veerle sorrise: Un giorno dovresti scrivere qualcosa sull’arte del Puzzle!.

    Il bus per l’aeroporto sarebbe passato alle cinque di mattina, quella breve e ultima notte insieme, Martin era stato distante, non abbiamo neanche fatto l’amore. Ero andata a letto all’una e avevo dormito malissimo. La sveglia suonò già alle 4,15. Martin dormiva ancora, non lo svegliai. Mi sono preparata e ho portato giù la valigia. Quando rientrai nella stanza numero 9, Martin si era alzato. Fa freschetto stamattina!Sarà il ciclone che sta arrivando!. Cercai di trovare qualcosa di carino da dire. Silenzio agghiacciante. Beh adesso, senza la mia valigia, avrai più spazio!. La sua stanza era proprio un buco. Lui guardandomi, mi disse con un’aria seria: Non ho bisogno di spazio. Poi prese qualcosa da sopra il frigorifero e me lo diede. Ti piacciono?.... Sono per te.. Un paio di occhiali da sole. Mi sembrò carino che volesse lasciarmi qualcosa. Desideravo intensamente che l’aeroporto chiudesse e che per causa di forza maggiore potessimo perdere l’aereo. Ci fumammo un’ultima sigaretta insieme, mi accompagnò fuori. Erano gli ultimi minuti insieme, restammo abbracciati, senza dire nulla. Non ero più triste, qualcosa dentro di me mi faceva credere che un giorno ci saremmo rivisti. Lo shuttle arrivò, ancora un bacio, le sue mani stringevano il mio viso, un ultimo bacio e salutandomi sottovoce disse solo: Chiamami.

    Aeroporto di Brisbane. Un’attesa di quattro ore prima di prendere il nostro aereo direzione Bruxelles. Quando infilai una mano nella tasca della giacca, trovai una chiave. La chiave numero 9 della sua stanza, mi venne un colpo, pensai che non fosse riuscito a rientrare a dormire quella notte, mi sentii in colpa. Cercai di ricordare come mai avevo ancora la chiave della sua stanza. Feci mente locale. Avevo portato giù tutto, ma dopo la sigaretta mi ero dimenticata il carica batterie del cellulare allora gli avevo chiesto le chiavi e poi nella confusione, mi sarò dimenticata di ridargliele. Gli scrissi un messaggio per scusarmi. Lui non rispose.

    Stavamo finalmente per imbarcarci, Charlotte sembrava preoccupata: Non capisco perché mio padre non risponde alle mie mail…Perché non lo chiami?. No, il loro modo di comunicare era quello. Il notiziario alla tv comunicava che avevano appena chiuso l’aeroporto di Cairns per il ciclone in arrivo. Per poche ore siamo riuscite a prendere quell’aereo. Era destino, dovevamo partire. Atterrammo all’aeroporto di Bruxelles verso le 8 di mattina. Il volo era stato davvero pesante, non ero riuscita mai a dormire, avevo visto qualche film e più volte mi ero chiesta che cosa stavo tornando a fare in Belgio. Lavorare. Un lavoro che non mi piaceva neanche ma che pagava bene. Questo non mi bastava più però. Anche Charlotte stava rimettendo in discussione la sua vita in Belgio, che definì ‘noiosa’. Il Belgio non era il mio paese ma in un anno mi ero ambientata, avevo trovato degli amici, avevo una casa, però avevo scoperto che si poteva lavorare con il ‘Working Visa Holiday’ anche in Australia, un paese di gran lunga più bello e affascinante, dove la natura domina sull’uomo anziché il contrario. Mi ero sentita più a casa in Australia, anche solo poiché potevo comunicare in una lingua che conoscevo mentre in Belgio mi ero abituata a sentirmi a casa in mezzo a persone che parlavano una lingua incomprensibile. Atterrammo in quella fredda terra stravolte, avevamo viaggiato per un tempo molto più lungo di quello che effettivamente era stato. Avevamo ucciso il tempo, cancellando ore di vita, finite chissà dove nell’universo. Per festeggiare il nostro rientro ci bevemmo subito una Duvel, Charlotte si sentì di nuovo a casa e poi andammo a prendere il treno per Gent.

    Quel viaggio di ritorno sembrava non finire mai. Ero stanca morta e molto confusa. Il cellulare di Charlotte squillò. Naturalmente non capii nulla di quello che stava dicendo. Sottovoce mi disse che era sua madre. Dopo qualche minuto scoppiò a piangere e a urlare in quella lingua che non capivo. Intorno a noi c’era il silenzio più assoluto anche se il vagone era pieno di pendolari. Provai a sforzarmi di capire, ma lei parlava singhiozzando e le parole le si strozzavano in gola. Mi spaventai e non riuscii a immaginare cosa poteva essere successo. Quando staccò il cellulare, era nel panico totale e non riusciva a respirare. Cercai di farla calmare, mi sentivo impotente, le chiesi cosa fosse successo. Mio padre… mio padre…!, intuii che era morto suo padre, ma non capivo in quali circostanze. Lei ci provava a spiegarmelo ma non riusciva a parlare, tutto il suo corpo era in preda a un tremore che le impediva di dire ..si è ucciso...

    Alla stazione di Gent ci vennero a prendere due ragazze. Non le conoscevo. In macchina compresi che erano delle cugine. Charlotte era impossibile da calmare. Ci ritrovammo in un paese sperduto della campagna belga nella villa dei genitori di Charlotte. Tutta la famiglia era lì. Il dolore era immenso, poco dopo arrivarono anche la madre e la sorella gemella, erano andate in vacanza in Francia. Rimasi in quella casa per un altro tempo infinito fin quando un mio amico non mi venne a prendere per riportarmi a Gent. Per tutto il tempo avevo ascoltato dolore ma non avevo capito quasi nulla di quello che tutti dicevano e in quella situazione mai avrei potuto chiedere una traduzione. Potevo solo stare vicina a Charlotte, la compagna di avventure australiane con cui avevo passato sei intense settimane. Il padre aveva lasciato delle lettere per la famiglia e aveva già organizzato e predisposto il suo funerale. Charlotte non aveva mai creduto che fosse depresso, queste furono le poche cose che riuscii a comprendere in quella giornata orribile. Pareva che nella lettera di addio avesse raccontato della sua solitudine e del suo senso di smarrimento davanti al fatto che non sapeva che volesse fare nella sua vita, che aveva passato trent’anni a curare malattie e che alla fine forse si era ammalato lui stesso. Credo che il mestiere del medico sia un lavoro nobile e difficile e che rappresenti la lotta per la vita, mi sembrò paradossale quindi che un uomo possa perdere interesse per la vita, giorno dopo giorno, curando altre persone. Mi chiesi perché un uomo, un medico di cinquanta anni prepara la sua morte lucidamente e con cura. Le figlie urlavano perché le avesse abbandonate, perché non avesse chiesto aiuto, perché non aveva cercato di fare qualcosa, perché... Tutti quei perché mi fecero scoppiare la testa.

    Quando rientrai a casa, quei 35 metri quadrati non mi erano mai sembrati così grandi, sentii uno strano odore di pulito. Avevo vissuto per tre settimane in un van con altre tre persone e ogni mattina mi svegliavo con la puzza delle scarpe fradicie e umide, ma dopo un po’ di tempo ci avevo fatto l’abitudine. Il caldo già alle sette rendeva impossibile restare a dormire là dentro, mi mancava l’aria, allora aprivo la portiera e uscivo. Ogni mattina in un posto diverso, i pappagalli e i pellicani a darti il buongiorno davanti a un’immensa e meravigliosa spiaggia di palme.

    ONE WAY TICKET.

    Prendere e Partire si dice. No io dico lasciare, liberarsi di tutto e partire, come inizio, per un’avventura che non sai dove ti porterà. L’eccitazione che sale, il brivido del gettarsi a capofitto verso qualcosa che non sai cos’è. Essere preda dei venti, vivere in maniera esponenziale tutto ciò che puoi incontrare; sentirsi ubriachi e non solo per l’alcool che scorre nelle tue vene. Come una cascata d’acqua, che ti cade addosso con tutta la potenza della forza di gravità sommata al volume e al peso dell’acqua! H2O, vita. Sei bagnato di quella vita che non ti risparmia nulla e forse per questo ti sembra ancora più bella. Una cascata è bella da far paura. Così vorrei vivere. La sedentarietà, ti porta ad accumulare cose, a circondarti di cose. Ma ti servono davvero tutte queste cose? Riduci all’essenziale ciò che ti serve. Partire per un lungo viaggio implica questo. Mi sembra di avere poche cose: una bicicletta, un tavolo, 4 sedie, un armadio, un divano-letto, un forno, vestiti, scarpe, un divanetto, una scarpiera rotta, 7 vasi per fiori o piante, 4 asciugamani, due lenzuola, un piumino, una pentola, 2 padelle, 4 forchette, 4 coltelli, 4 cucchiai, 4 tazzine caffè, 3 tazze da tè, 4 tazze grandi, uno spremiagrumi, 3 scatole, un cestino, 6 cappotti! Un mobile da appoggio, 3 specchi, 6 quadri. E altri infiniti piccoli oggetti. Mi sembra di non avere niente ma ho già tante piccole cose. Nella mia non routine lavorativa c’è già tanta routine. E allora tutte queste piccole stupide cose le regalo, le vendo tutte a un bel mercato.., tutto si deve ridurre il più possibile. Ero arrivata in Belgio con una valigia di 20 kg. Ed è bastata. Schiavi della libertà. La schiavitù che intrappola all’interno di case. Le cose sono il veleno più potente che l’uomo utilizza per suicidarsi. Leggeri, lasciamo il pesante passato intrappolato nelle cose e ci muoviamo seguendo la praticità di avere una valigia leggera e la necessità di ciò di cui abbiamo davvero bisogno. Nutrirsi per prendere energia, minimo d’igiene personale per non ammalarsi, coprirsi dalla natura quanto serve, per proteggersi dal caldo, dal freddo o dalle zanzare.

    Ho aspettato che Martin, l’affascinante tedesco, tornasse dall’Australia, mi sono persa nell’attesa di un qualcosa che non sapevo cosa fosse. Come quando cerchi il pezzo del puzzle mancante, sappiamo che quel pezzo da qualche parte dovrà pur essere, ma non sappiamo dov’è né quando ci verrà restituito. Mi ero innamorata di cosa? Del profumo del suo bagnoschiuma Nivea Sensitive Men, di quel suo modo di fare misterioso, di quello spirito da avventuriero e un po’ anticonformista, di quando tornava sempre con qualcosa di dolce per me. Aspettavo qualcosa e l’attesa genera in noi ricerca e la ricerca ci porta a viaggiare. Che poi quel pezzo mancante arrivi o no, non è poi così importante, ma proprio lui ti spinge a muoverti alla ricerca di quel qualcosa che puoi immaginare o ricordare ma in che in fondo non hai mai saputo cosa fosse. Viaggiando, lasciandomi portare dal caso o dalla necessità avevo capito che l’amore era come un paesaggio, non una meta, non un’ancora di salvezza e nemmeno una conquista. Il tempo ci annebbia i ricordi, perdiamo il contatto con un volto, con un paesaggio, forse neanche una foto può restituire la verità di un attimo vissuto intensamente. L’amore previsto per me in Australia divenne materia per fare qualcosa di nuovo con me stessa.

    MEXICO

    La Vigilia di Natale

    Arrivammo a Bacalar la vigilia di Natale intorno alle 21 e senza ancora un posto dove dormire. Sul bus avevo conosciuto meglio una ragazza australiana, era simpatica, Georgia si chiamava. L’avevo già incontrata per caso diverse volte in Guatemala, così c’eravamo messe a parlare. Voleva fermarsi nella prima città messicana subito dopo la frontiera, nella triste Chetumal, per poi ripartire il giorno dopo per Cancun dove aveva appuntamento con suo fratello. L’avevo convinta però a venire con noi a Bacalar. Nessuno deve passare la notte di Natale da solo.

    Le amiche argentine di Francesco alloggiavano all’ostello Casa China. Eravamo donne piene di speranza, sicure che avremmo trovato una soluzione per dormire, andammo anche noi in quell’ostello. Ci accolse subito un ragazzo estremamente gentile che naturalmente ci confermò che era tutto pieno ma che non ci avrebbe lasciato in mezzo alla strada. Fu molto più facile di quello che Francesco pensava. C’era sempre una soluzione. Così ci sistemò su un’amaca e sul divano. Io e Georgia ci prendemmo il divano, la Michi adora le amache, quindi se la prese lei. Sapevo che avrei potuto dormire in tenda con Francesco ma avevo finalmente messo un punto a quella situazione del cazzo e avevo deciso che non sarei andata con lui a Playa del Carmen per Capodanno, invece avevo deciso di andare a Tulum con Michela. E lì finalmente speravo di fermarmi.

    L’incaricato gentile dell’ostello iniziò a raccontarci del lago: Questo lago è chiamato dei sette colori, unico al mondo, perché ci sono sette diverse sfumature di azzurro! Peccato che era buio, morivo dalla curiosità di vedere questo lago spettacolare dei sette colori. Anche Francesco ce l’aveva venduto così bene per convincerci a seguirlo fin lì, che volevo subito verificarne la bellezza. Il ragazzo ci portò in giro a perlustrare l’ostello, che somigliava più a una villetta col giardino. Ci mostrò la torretta, come disse lui, ‘il pezzo forte di Casa China’. Ines dormiva là, che fortuna, forse faceva un po’ freschetto, ma era una di quelle piccolissime torrette da mille e una notte, tutt’intorno un tappeto di stelle. Molto romantico.

    La cosa più strana era l’architettura della casa in stile cinese e dire che ero appena arrivata in Messico. Dettagli della globalizzazione, pensai. Scendemmo fino al lago ma col buio non si vedeva nulla, però notai un catamarano attraccato a un piccolo molo e un ragazzo con i rasta sdraiato per terra. Anche lui mi notò, si girò verso di me: Ciao sono Nic, stai calpestando la mia casa, io dormo qui. Sto scherzando. Sei appena arrivata?. Quello era Nic e dormiva veramente lì per terra. C’era sempre una soluzione e a me e Georgia c’era andata proprio bene col divano.

    Ero arrivata solo da qualche ora in terra mexicana e già sentivo la sua potente energia. E i messicani sono degli spudorati latin lover. Ma mi aveva già scritto Johnny, un messaggio dolcissimo in cui diceva che Buena Vista Social Club non era più la stessa senza di me e che non vedeva l’ora di scoprire quando i nostri destini si sarebbero incrociati ancora. Quel Johnny mi era entrato in testa, mi stavo già immaginando il nostro futuro insieme, la casa col giardino e tanti bambini. Cercai di distrarmi da quel filmino rosa con l’altro ancora in ballo. Solo immaginare di viaggiare in barca per quattro mesi dalla Jamaica a Cuba, spingendosi fino ad alcune isole dei Caraibi, passando per il triangolo delle Bermuda e poi giù dritto, fino in Francia, già quello era un bel film. Però se non fossi partita con quella barca, avrei potuto ritrovare Johnny da qualche parte. Ad esempio in Colombia, come mi aveva detto quando c’eravamo salutati. Ero curiosa di vedere come sarebbe iniziato il 2015 e di cosa mi avrebbe portato gennaio, dovevo solo aspettare di vedere come si mettevano le cose. Ero arrivata laddove non mi sarei mai aspettata di arrivare, o proseguivo verso nord fino agli Stati Uniti oppure sarei tornata giù, ma in quel momento mi stancava l’idea di rifare tutto lo stesso percorso. Quello che sapevo in quel momento era che volevo esplorare il Mar dei Caraibi, infine arrivare a Panama e trovare una barca per la Colombia!

    Per il cenone Francesco cucinò le lasagne, qualcun altro un pollo gigantesco tipo quelli che si mangiano nei film americani per il giorno del ringraziamento. Qualcuno allestì perfino una postazione deejay. Michela si divertiva a migliorare l’inglese con il suo nuovo amico di Boston un po’ agée. Tanta gente fumava e beveva e a parte Ines, che era già la terza volta che rivedevo in due mesi, le altre amiche di Francesco erano un po’ snob, soprattutto quella che lavorava nell’ostello. Aveva una voce orribile da gallina strozzata, poverina. Michela venne anche a chiedermi se secondo me era normale parlare con una voce così. A mezzanotte ero già stanca, il viaggio dal Guatemala al Messico passando per il Belize, era stato lungo e me ne andai a dormire sul mio divano. Fantastico, erano tutti fuori a festeggiare, non fu difficile prendere sonno.

    All’improvviso però, fui svegliata dal mio profondo sonno dall’incaricato dell’ostello, lo stesso che ci aveva accolto così generosamente. Con voce ferma e risoluta mi ordinò di svegliarmi perché stavano partendo per un giro in catamarano tutti insieme. Guardai l’ora. Le due e mezza. Ero sconvolta da quel brusco risveglio, stavo dormendo così bene e fui assalita dal dubbio se restare comodamente a dormire oppure salpare con tutti gli altri per un giro sul lago, la notte di Natale. E che non te lo fai un giro in catamarano sotto le stelle la notte di natale?! Così mi alzai abbastanza rincoglionita e scesi giù al molo, dove stavano già tutti gli altri. Il mio corpo voleva ancora dormire, era la mia mente quella che stava sforzando e trascinando quel corpo dormiente verso il catamarano, volevo approfittare di quella situazione irripetibile. Francesco era ubriaco di Metzcal, sbraitava cose senza senso e si era sistemato in un lato del catamarano abbastanza pericoloso per poter navigare. Quindi gli gridavano di salire, di mettersi dentro, ma lui sbraitava che non voleva. C’erano delle coperte per fortuna, faceva freddo. Il catamarano era di un cinese, abbastanza piccolino, e dall’energia un po’ pazzerella. Finalmente qualcuno convinse Francesco a togliersi di mezzo e quindi partimmo. L’atmosfera era confusa e caotica e non ce la feci a resistere, appena mi sistemai su una delle reti laterali, mi coprii tutta e crollai dal sonno. Feci dei sogni acquatici, a pochi centimetri dalla superficie dell’acqua, sentivo le onde che si muovevano sotto di me entrare nei miei sogni. Ogni tanto mi svegliavo per il freddo e allora mi accorgevo che eravamo in tre o quattro a dormire su quella piccola rete. Alcune coppiette si abbracciavano per tenersi caldi. Fui svegliata qualche tempo dopo, un’altra volta, di nuovo dallo stesso incaricato gentile di prima. Questa volta la comunicazione di servizio fu: Siamo arrivati in una spiaggia e stiamo facendo un falò! Vieni?. Ero infastidita, perché mi aveva svegliato ancora? L’unica cosa che desideravo veramente quella notte era dormire. Gli chiesi allora un po’ seccata : C’è un posto dove dormire?- Sì, certo!E dove?! gli gridai. Sulla sabbia. Quella risposta m’infastidì ancora di più perché era sicuramente più comodo dormire lì dov’ero. E così passò la vigilia di Natale, mi risvegliai solo alle luci di una splendida alba, eravamo di nuovo in navigazione, si ritornava a Casa China. Gli altri, non sapevo chi fossero in realtà, dormivano tutti distrutti e accoccolati in ogni angolo del catamarano. Finalmente vidi quanto era bello quel lago dall’acqua cristallina, che sembrava di stare al mare dei Caraibi per quanto era turchese. Ero ancora un po’ assonnata ma mi era passata la voglia di dormire, mi sedetti in alto, vicino alla vela e mi godetti il vento, il paesaggio e il silenzio.

    La vista del lago di Bacalar mi rilassava molto, mi sarebbe piaciuto tanto fermarmi di più, ma non so bene per quale motivo, dopo due giorni, mi ritrovai già sulla strada verso Tulum con Michi e Nic, il francese hippy che dormiva al molo. Conosceva bene Tulum, quando era arrivato a Bacalar per Natale, pensava di andare verso sud e invece cambiò idea e tornò a Tulum con noi. Doveva esserci una forte energia attrattiva da quelle parti.

    Michi e Nic erano dei veri esperti di autostop e viaggiavano senza soldi, quindi ci buttammo sulla strada a cercar passaggi. Michi aveva attraversato già mezzo Messico in autostop per 3 mesi e Nic, con i suoi 27 anni, i suoi lunghi rasta e la sua colazione a base di quinoa e amaranto, viveva un po’ dappertutto dal Brasile al Messico; tornava di tanto in tanto in Europa, solo per visitare la famiglia e lavorare in qualche vigneto in Svizzera per un paio di mesi. Per il resto Nic faceva il vagabondo spendendo pochissimi soldi, rifiutava l’ipotesi di lavorare nei paesi poveri. Diceva che non ne valeva la pena. Dopo il primo passaggio, molto breve, ci facemmo lasciare a una stazione di servizio. Tulum distava circa tre ore da Bacalar, delle signore friggevano empanadas e ci riempimmo lo stomaco. Michi era bravissima a chiedere passaggi, la sua tecnica era congiungere le mani sopra la testa in forma di preghiera islamica, mi divertiva tanto vederla implorare così le macchine, ma non funzionava sempre. Dopo una ventina di minuti trovammo il nostro passaggio diretto a Tulum. Ci caricò una ragazza messicana molto carina e gentile, ma anche una gran chiacchierona, per fortuna Michi si era seduta davanti e quindi si occupò lei del dovere di intrattenere l’autista. Tre ore erano tante e quella non si fermava un secondo dal parlare. Ecco stavo scoprendo quanto parlassero i messicani, peggio degli italiani, forse.

    Arrivammo a Tulum nel pomeriggio, Nic era la guida, ci portò a mangiare in un posto, secondo lui molto economico e buono. Ebbi qualche dubbio sulla bontà del cibo mangiando la mia prima pesantissima enchiladas verde affogata nel guacamole. Dovevamo decidere dove andare a dormire. L’idea era di andare in spiaggia a fare campeggio. Passammo davanti a un ostello, un uomo là fuori salutò Nic, ci disse che non c’era posto ma che potevamo ripassare il giorno dopo e che il prezzo per gli amici era di 120 pesos anziché 150. Mi sembrò abbastanza economico considerando che a Bacalar il letto in dormitorio costava 200 pesos, ero stata fortunata a dormire sul divano per 120! Nic disse che quest’ostello era il paradiso e la dimora di tutti gli artisti e musicisti che passavano per Tulum, l’Akadia. In ogni caso non c’era posto, quindi tirammo dritti alla spiaggia, distante 3 km dal paese. Faceva caldo a quell’ora, non ero più abituata all’aria umida del caribe, specialmente dopo quel mese in Guatemala tra le montagne. Però ero eccitata all’idea di tornare al mare, mi mancava. Il campeggio era a pochi metri da un mare cristallino e azzurro, la sabbia bianca, qualche alberello e un po’ di tende qua e là. Era un po’ spartano ma andava bene così. Michi ed io non avevamo neanche la tenda ma il gestore del campeggio, un buffo ometto, fu molto carino dal prestarcene una, Michi si occupò delle negoziazioni del prezzo. C’era una gran confusione con tutti i messicani in vacanza e il colore del mare mi ricordava la mia Lampedusa. La spiaggia era lunghissima e piena di tanti hotel e resort. In America centrale non c’erano resort sulla spiaggia, lasciandole così quell’atmosfera da paradiso incontaminato. Ma il Messico non era l’America Centrale.

    La prima notte a Tulum la passammo al Wayé, il bar più gettonato di Tulum. Ogni sera c’erano concerti live di musica cumbia, un genere che non avevo mai sentito, ma Michela conosceva tutti i passi. L’ambiente era molto allegro e colorato, si ballava sui marciapiedi, sulla strada. Mi misi a parlare con un ragazzo di Venezia che da due anni girovagava per l’America latina, gli raccontai di quanto volessi trovare una barca per girare i caraibi e mi suggerì di controllare il sito web di couchsailing dove aveva visto un annuncio di una barca che sarebbe partita da Cancun per la Colombia. Direzione Colombia.. quella destinazione mi piaceva. Mi raccontò anche di quanti soldi avesse fatto a Puerto Viejo, in Costa Rica, vendendo space cake sulla spiaggia. La notte sembrava non finire mai, alcune ragazze del locale passavano con bottiglie di tequila, tanti restavano con la bocca aperta e quelle gli versavano almeno mezza bottiglia giù per la gola. Un ragazzo messicano con un cappello di paglia alla Sampei, mi passò accanto ballando, era probabilmente ubriaco ma aveva degli occhi dolcissimi e in mezzo a tutta quella confusione e musica, mi attaccò un monologo delirante sull’amore come chiave e soluzione di tutti i problemi, alla fine di tutto il suo discorso che un po’ di senso ce l’aveva anche, ululò come un lupo, mostrandomi il suo nuovo tatuaggio sulla gola, che raffigurava un complicato simbolo concentrico. Prima di andarsene mi disse che si chiamava ‘il lupo di Tulum’. E poi si mise di nuovo a ululare.

    Quella prima notte dormii malissimo in quella minuscola tenda per una sola persona, dove c’eravamo io, Michi e i nostri due zaini, in pratica non si respirava e la sabbia era molto dura. In quei momenti, mi rendevo conto che non potevo vivere così per sempre.

    La seconda sera incontrammo l’amico agée di Michi, quello di Boston, era in un ristorante molto chic sulla spiaggia, dove suonavano un concerto Jazz. Era tanto che non vedevo gente acchittata, turisti in vacanza col vestito all’ultima moda, tacchi a spillo ridicoli sulla sabbia e prezzi più cari che in Europa. Quindi non mangiammo nulla e il nostro amico di Boston divise la sua pizza con noi.

    Sentivo che Tulum era un posto dove restare per un

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