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Imperfetto quotidiano
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E-book266 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Sofia, classe ’52, di professione parrucchiera, è una donna solare, indipendente e generosa. La sua è una vita normale, per quanto normale possa essere definita la vita con le sue incertezze, i suoi affanni, le sue promesse. Trascorre la giovinezza a Torre del Lago poi si trasferisce a Viareggio per lavoro. Viareggio che diventa la sua città grazie al matrimonio con un viareggino doc ma soprattutto attraverso i racconti di vita delle clienti. Sofia, narra in prima persona, le vicende della propria famiglia facendo riemergere dalla memoria fatti, emozioni di ieri e di oggi capaci di restituire la trama di una quotidianità spesso difficile, talvolta drammatica per le donne ma non solo. Con un prima e dopo la sua nascita, la narrazione invita il lettore a leggere le esperienze della famiglia e della comunità che la circonda evitando le facili condanne come pure il buonismo inutile e magari dannoso; drammi familiari letti nel contesto più ampio delle problematiche del secolo appena trascorso.

Figlia, moglie, madre, rivive i suoi primi Cinquanta nella consapevolezza dell’eredità genetica e morale che la unisce ai membri della propria famiglia; dai quali però rivendica il diritto all’essere e sentirsi diversa. Stretta tra negozio e famiglia, vorrebbe non ripetere i vecchi errori, vorrebbe essere perfetta, ma chi lo è?

Maria Teresa Landi e Luciana Tola vivono e lavorano in Versilia. Forti di una lunga esperienza come insegnanti di Lettere, con il loro sodalizio hanno dato vita a testi di vario genere, dalla narrativa per ragazzi al racconto e al romanzo prevalentemente a carattere storico. Molto attente all’uso della parola, ricorrono spesso, per coinvolgere il lettore, alle tecniche proprie del giallo. Le storie, per lo più ambientate nella loro terra, hanno meritato vari riconoscimenti e premi. Dopo il primo romanzo, Una lunga sinistra scia di sangue, editore Il Molo (2006), hanno iniziato la collaborazione con la Giovane Holden pubblicando: Nella terra del diavolo (2008), Nel buio della coscienza (2009), Il silenzio uccide (2010), il testo teatrale Viareggio e la sua anima (2011), Tommasino e i sogni a ostacoli (2012), Caleidoscopio (2013).
LinguaItaliano
Data di uscita1 nov 2014
ISBN9788863966008
Imperfetto quotidiano

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    Anteprima del libro

    Imperfetto quotidiano - Maria Teresa Landi

    2013

    I

    Sabato pomeriggio. Bottega affollata. Vapori. Profumo di lacca. Chiacchiericcio.

    Buongiorno, Sofia. Entra e si mette a sedere senza aggiungere una sillaba. Lì per lì non ci faccio caso, appena un grugnito di risposta col beccuccio stretto fra le labbra, occhiata veloce dallo specchio, ma poi qualcosa mi spinge a guardare meglio: la voce è di Luisa, ma che ci fa conciata così? Foulard monacale, a mongolfiera, occhialoni scuri, vispa come un tacchino americano il giorno del ringraziamento: ma quando mai!

    Ingoiata la curiosità, mi affretto con gli ultimi colpi di phon, lacca e via, la cliente è pronta. Si guarda compiaciuta nello specchio: Sa che aveva ragione?

    Che le dicevo? Taglio corto e mosso, una testina giovane, sta proprio bene, e così dicendo mi viene d’istinto di sbirciare verso le poltrone, ma da quella parte nessuna reazione.

    Sono al banco a compilare la ricevuta, quando la mano mi resta sospesa a mezz’aria.

    Messa in piega? Ludovica alla signora Luisa.

    Sì, ma prima vorrei tagliarli.

    Cosa? Ho sentito bene?

    Davvero? Venga allora, che mettiamo la vestaglia.

    Imperturbabile come sempre, brava Ludovica. Sì, perché non solo non c’è niente di normale in queste parole, ma addirittura la cosa ha dell’incredibile! Tagliarsi i capelli, lei, ma scherziamo? Piuttosto si farebbe ammazzare. Non sto esagerando, parola. Sono anni, anni dico, che cerco inutilmente di convincere quella donna a rinunciare al suo assurdo chignon, vecchio, antiquato, insomma una roba da Amarcord, ma niente, dura come il granito. Una spina nel fianco, ecco cos’è per me quel dannato chignon, e adesso viene a dire che vuole tagliarseli?

    Ho sentito bene? Ti sei decisa, finalmente! L’ho detto, confesso, mi è uscito dall’anima, ma mica ci credo per davvero. Lei zitta, infila la vestaglia, prende posto davanti allo specchio e finalmente si decide a sciogliere il foulard, che ricade mollemente, lasciandoci tutte senza parole. Altro che capelli, una poltiglia rossastra e nera, smozzicata, bruciacchiata, un disastro! Scena un po’ teatrale, lo ammetto, ma sicuramente d’effetto. Incrocio lo sguardo di Ludovica: stiamo pensando la stessa cosa. Silenzio greve, il fascino dell’orrore. Qualcuno però lo deve rompere questo silenzio, così mi faccio coraggio: Cosa ti è successo?

    I fornelli… una vampata e… Rabbrividisce al pensiero.

    Strega, sono una strega penso, ma non posso dirlo. Meglio prendere in mano la situazione.

    Non ti sgomentare, un bel taglio e sarai più bella di prima! E comincio a frugare nei cassetti alla ricerca degli attrezzi giusti. Voglio convincere più lei o me? Il fatto è che mi sento in colpa, un verme. Ve l’ho detto delle nostre schermaglie, no? Ebbene, proprio pochi giorni fa la cocciutaggine di Luisa mi ha portata all’esasperazione.

    Se n’era appena andata con la solita pettinatura da vecchia rincoglionita (scusate il linguaggio, ma me lo tira per davvero) che sbottai all’orecchio di Ludovica: Come vorrei che se li bruciasse quei quattro peli che ha in testa! Va beh, mica dicevo sul serio, o magari sì, ma insomma… chi poteva immaginare una catastrofe del genere? Capite ora? Non riesco a rassegnarmi.

    Il fatto è che a me questo lavoro piace e mi piace farlo come si deve. Dicono che il cliente ha sempre ragione, ma non è mica vero. Per carità, le mie donne cerco di accontentarle, ci mancherebbe, ma a volte hanno pretese assurde. Non si guardano allo specchio? Oppure hanno gli occhi foderati di prosciutto. Insomma… io ho il mio criterio e credo che funzioni, visto che alcune di loro mi seguono da quarant’anni. Molto semplice: la prima soddisfatta del lavoro voglio essere io. Me l’ha insegnato mio padre e va bene così.

    Brava Sofia, aveva ragione. Quante volte me lo sento dire e mi fa piacere, non ci piove, ma non lo prendo come un complimento. Certo che sono brava! Mica come tante ragazzine che fanno un apprendistato di pochi mesi e subito si illudono di potersi mettere in proprio, no. I giovani, si sa, vogliono tutto e alla svelta, ma non è così che funziona. Il mestiere non si inventa. Non si trova neanche sui libri. Ci vogliono anni di esperienza, bravi maestri e tanta, tanta passione. Dimenticavo: quando se ne va, la babbea deve ammettere che il taglio corto e sbarazzino che le ho fatto le dona eccome! Dieci anni di meno, potete giurarci.

    II

    Torno a casa soddisfatta, ma dura poco. Susanna è incollata al computer.

    Ciao Susy, che fai?

    Nulla di che, borbotta, tutta concentrata.

    Sbircio lo schermo: una camera, o meglio un corridoio stretto e lungo, un lettino e una miniscrivania. Completa l’arredo un armadio che rende l’anima a Dio. Il tutto prende luce da una finestrella in alto, tipo cella.

    Ma che schifo!

    Dici?

    Oddio, sembra di essere in prigione. Dov’è?

    A Pisa.

    E perché ti interessa?

    Perché ci studio, mamma. Mi pare ovvio.

    E allora?

    Allora questa stanza si è liberata da Angela. Lo sai, no, che lei ha preso in affitto un appartamento proprio dietro la facoltà. Sono partite in tre, però una ha mollato e se n’è tornata al paesello; potrei prendere il suo posto, così sarei già lì la mattina…

    Ma perché? la interrompo.

    Che problema c’è? Fa la gnorri, la creatura.

    Come, che problema c’è! Capirei se ti ci volessero ore per arrivare, ma fra treni e autobus raggiungere Pisa è un vento. Che te ne fai di andarti a ficcare in quel buco?

    Ma che buco, è bellino e poi ogni giorno su e giù, su e giù, mi stanco e perdo un sacco di tempo per nulla.

    Ma fammi il piacere! Neanche tu andassi a Milano. A Pisa in mezz’ora ci arrivi.

    Tasto falso. Me ne rendo conto subito, ma ormai è fatta. Lei mi sbircia con quello sguardo obliquo che conosco fin troppo bene, del tipo l’hai detto, ora peggio per te e commenta agra: In macchina, forse, ma tu non vuoi che prenda la macchina!

    E ti pareva! Sempre gli stessi discorsi. Hai appena preso la patente, vorrai fare un po’ di pratica prima di affrontare l’Aurelia, perdinci. Non ce l’hai un po’ di giudizio?

    Terreno scivoloso, me ne rendo conto, mentre l’irritazione cresce in maniera esponenziale. E infatti: Devo fare pratica, appunto. Dunque lasciami andare a Pisa in macchina.

    Ormai sono in ballo. Sfodero tutto il repertorio contro: parcheggi, costo della benzina, traffico e poi gli incidenti, dove li mettiamo gli incidenti?

    Susanna mi lascia parlare, ma non si convince neanche un po’. È qui che mi impunto: sono o non sono sua madre?

    Falla finita. A Pisa in macchina non ci vai.

    Sorrisetto che mi spiazza e nemmeno protesta. Non mi torna e ho ragione.

    Non hai mica tutti i torti. Io però così non posso continuare; la soluzione migliore è trasferirmi là. Studierei bene, senza rotture.

    E chi sarebbero le rotture, si può sapere?

    No, dicevo così… glissa conciliante. E poi potrei pagare l’affitto facendo ripetizioni.

    Davvero? Hai già delle richieste?

    No, ma le avrò. Ho già messo i foglietti nell’atrio della facoltà, alla mensa, nei negozi…

    E intanto?

    Me li anticipi.

    Ti pareva!

    Non se ne parla nemmeno. Se lo dici a papà vedrai che la pensa come me.

    Veramente…

    Come al solito quei due tramano alle mie spalle. Rolando sempre dalla parte dei figli; sono io la iena, la strega, il mostro… ma mi sentiranno! Quanto a Susanna so già che non la smonterò. Ha un caratterino… l’ha sempre avuto, fin da piccola; tutta d’un pezzo, come me.

    Mi ricordo una volta in passeggiata.

    Voleva il gelato di Sommariva. Ferma, le mani sui fianchi, batteva il piedino testarda.

    Non è il caso, fa freddo, cercavo di convincerla. Del resto era gennaio, un freddo cane e stava per piovere. Niente da fare, come un mulo continuava a battere il piede senza spostarsi di un millimetro.

    Me ne vado, arrangiati, gridai esasperata. Guarda che resti sola.

    Lei continuava imperterrita, il viso chiuso, gli occhi ridotti a fessure.

    Feci finta di partire e arrivai a passi lenti fino in piazza Mazzini. A quel punto mi girai, speranzosa. Era sempre là. I pochi passanti la guardavano incuriositi, qualcuno le rivolgeva la parola, altri parlottavano tra loro. Immaginai i commenti, del tipo che donna sconsiderata la madre, lasciare sola una bimbetta, di chi sarà?

    Situazione di stallo, imbarazzante.

    Signora, è sua quella bimba?

    Sì, è mia figlia, non si preoccupi.

    La tizia mi guardò con disprezzo e se ne andò.

    Mi ritrovai a tornare sui miei passi e a cedere, una delle tante volte in cui mia figlia l’ha avuta vinta. Una Orlandi insomma, caparbia nel bene e nel male.

    Non facile la convivenza tra noi; quando madre e figlia hanno lo stesso carattere, è una rovina. Ogni volta che nasce un alterco sprizzano scintille.

    Per chiarire meglio. C’è il tipo della mamma comprensiva, tenera, coccolona; di contro, ecco la madre intollerante o collerica, brusca negli atteggiamenti, mai una carezza, mai una parola dolce, mai un complimento. Nelle donne Orlandi convivono l’amore sviscerato per i figli, che le porta spesso ad avere i paraocchi, e l’intransigenza. È così e se non ti va, arrangiati! Questo è il nostro motto.

    E le figlie? Idem con patatine. Voglio fare come mi pare. Così fin dalla nascita e allora sono guerre per insegnare qualunque cosa.

    È successo tra me e mia madre, succede nello stesso modo tra me e mia figlia, con un’unica differenza: che ora ho un ruolo diverso e nella fattispecie piuttosto scomodo.

    Quando ci penso, mi domando: e le altre? Non illudetevi. I rapporti tra madre e figlia sono complessi, sempre, ma ciò non mi consola, nemmeno un grammo. Più facile il rapporto con il maschio? Mah, forse sì. Contrariamente a quanto si pensa, ancor oggi sopravvivono tanti stereotipi: è un maschio e deve essere autonomo. È bene che studi, si faccia una posizione. Ha la ragazza; che ci fa? Non mi importa, lui è un uomo e non si porta a casa la vergogna. Non può mica fare le faccende! Se qualcuno si deve occupare di me, tocca a lei, mia figlia. Le donne sono le più adatte. Se poi lui è sposato, tra suocera e nuora…

    Con questa solfa mia madre mi ha sempre messa in croce: da piccola, quando stavo con i maschi; da ragazzina, quando uscivo con le amiche e mi piaceva essere corteggiata, da adulta quando mi sono ritrovata a lavorare, da fidanzata: attenta qui, attenta là… Da sposata poi! 

    III

    L’avrete già capito, ma ve lo dico lo stesso: questa è la mia storia, la storia della mia vita intendo, anzi dei miei primi cinquanta.

    È una storia in gran parte al femminile: ecco, partiamo di qui. Sì, perché nella mia famiglia contrariamente alle apparenze i pezzi da novanta sono sempre state donne; non solo, ma per un curioso scherzo del destino la stessa cosa è successa nella famiglia di Rolando, mio marito. Affinità elettive? Coincidenze? Credo poco alle coincidenze, ma che importa? Raccontare la mia vita equivale a procedere lungo una galleria di ritratti di donne, o meglio madri, fuori dal comune, forti e al tempo stesso fragilissime. Paolina, Rita, Beppa, così diverse eppure simili: educazione vecchio stampo, ruoli ben definiti, matrimonio e maternità obiettivi scontati. Tutte d’accordo? Beh, diciamo che questo era il percorso naturale maturato in secoli di storia al maschile e a nessuna di loro sarebbe mai balenata per il cervello l’idea di una scelta differente.

    E io? Chi sono io rispetto a loro? Vengo dallo stesso ceppo, in tante cose ci assomigliamo, le mie scelte di vita sono in linea con la tradizione familiare; come loro ho un carattere forte, anche scomodo per chi mi sta intorno, difendo la mia indipendenza con le unghie e con i denti, però, però… Altri tempi, altre esperienze, senz’altro mi sento diversa, ma lo sono davvero e fino a che punto?

    Dunque. Da dove comincio? Da mia madre, ovvio.

    Esiste o no l’istinto materno? Quella spinta interna che ti porta a proteggere senza pensarci due volte il piccolo, l’indifeso, ad avvolgerlo in un bozzolo caldo d’amore? Sono sicura di sì.

    Ci sono donne che lo dimostrano fin dall’infanzia. Si riconoscono di colpo: sarà la risata contagiosa, saranno le paroline dolci, la voglia di giocare, di ascoltare serie quel che dicono i bambini, come se fosse la cosa più importante del mondo.

    Altre invece non lo possiedono e mia madre appartiene a quest’ultima categoria. Mai una parola o un gesto affettuoso, mai una carezza spontanea; le rare volte che si è lasciata andare le ho segnate sul calendario. In particolare un episodio: sono una bambina di quattro o cinque anni, ho una forte otite, mi lamento, piango. Lei mi prende in braccio, mi sussurra: Vieni, piccolina, vedrai che ti passa con quest’olio caldo.

    Due gocce, un po’ di cotone e poi la testa sul suo seno. Che bello e che buon profumo! Sa di rose, di mele cotogne… di mamma. È un odore unico al mondo che avrei riconosciuto tra mille. Niente da spartire con quello amarognolo di nonna o di brillantina di papà, un papà affettuoso, che mi prendeva in braccio e mi coccolava, quando piangevo. Era lui che ci svegliava per recitare l’apostolato della preghiera. Io rannicchiata contro il suo petto stentavo a tenere gli occhi aperti e Andrea sulle sue spalle ripeteva come un pappagallo: Cuore divino di Gesù, io ti offro/ per mezzo del Cuore immacolato di Maria,/ madre della Chiesa,/ in unione al Sacrificio eucaristico, le preghiere/ e le azioni, le gioie e le sofferenze/ di questo giorno…

    La mamma lasciava fare in una sorta di strano abbandono, come se la cosa non la riguardasse più che tanto. Si dedicava al lavoro a maglia con attenzione puntigliosa, quasi che dai ferri dipendesse la sua giornata, addirittura la sua vita. Così, anche quando ormai adulta avrei voluto un consiglio, un appoggio, anche quando sono diventata a mia volta madre e lei nonna. Una nonna che non aveva tempo per i nipoti.

    Eppure sapeva che lavoravo, che nessuno mi aiutava, salvo una ragazza del paese, brava per carità, ma giovane e svagata. Mamma usciva prestissimo la mattina per non sentirsi dire: Puoi rimanere con i bimbi finché non arriva la tata?

    Da parte mia, piuttosto che rivolgermi a lei mi sarei data una martellata su di un piede. Mi appoggiavo allora alle zie, le due sorelle giovani-vecchie che in qualche modo avevano allevato anche me.

    Le vedo ancora, Luigina e Vilma, trafficare in cucina o nel campo con gli stivali impastati di terra. Mi chiamavano a dare una mano e per me era puro divertimento zappettare tra i solchi di fagiolini o cercare le uova nascoste nel pagliaio. Per loro fare le contadine era naturale come respirare, un modo per mantenere viva l’eredità della famiglia, ma non bastava.

    Lavoravano infatti ai Pavimenti Apuani, immerse tutto il giorno nella polvere di graniglia. Da Torre al Varignano a piedi, dopo aver portato all’alba la verdura del campo al mercato. Andata e ritorno, carretto e bicicletta, senza un attimo di sosta. Fonio, il padrone, era generoso e i compagni tutto sommato ben disposti verso di loro.

    Quando poi l’azienda si trasferì in Libia, si ingegnarono presso il ristorante Lombardi: factotum indefesse pur di racimolare un bel gruzzoletto a fine mese.

    Risparmiatrici fino all’osso, vivevano di nulla. Luigina soltanto osò una volta spendere qualche lira e fu in un’occasione sognata da tempo. Se ne andò a Roma per ricevere l’apostolica benedizione e per di più si comprò un paio di scarpe nuove. Mal gliene incolse però: due giorni d’inferno, i piedi stretti in una morsa che la lasciava senza fiato, bolle sanguinanti ai calcagni, bruciore come fuoco … di quella gita avrebbe ricordato solo il dolore.

    Eh sì, le zie hanno sempre sgobbato, lavori pesanti da uomo, senza lamentarsi. Anzi ne andavano fiere: Non siamo mica delle signorine snob o delle pappamolle, noi! Frecciatina per la mamma, criticata senza pietà.

    Sempre insieme, non si sono mai lasciate, nemmeno quando a quarant’anni una delle due ha ricevuto una proposta di matrimonio, rifiutata per non separarsi dalla sorella. Mi hanno amata di un amore sviscerato, quasi con i paraocchi come i cavalli, e io le ho ricambiate fino all’ultimo.

    Ecco, quando penso alla figura materna vedo loro coi grembiuloni freschi di bucato affaccendarsi nella grande cucina per prepararmi una salutare merenda: pane fatto in casa e marmellata o pomodoro strusciato condito con un filo d’olio di quello buono, ché la bimba deve mangiare sano. Le vedo nella viuzza dal nome pomposo di Zanardelli, sedute sulle seggioline impagliate all’ombra del grande albero. Ci sono altre donne, ognuna con un lavoro in mano: chi ricama, chi cuce, chi sferruzza. Ma tutte lì a spettegolare, a rivoltare i paesani come i cappotti vecchi, a rivelare fatti e fattacci di una Torre del Lago che non esiste più.

    E quando d’estate arrivavano i bagnanti, agognati prima e vituperati poi, le cattiverie non si contavano. Tante risate e barzellette che mi facevano ridere a crepapelle. Allora pensavo: chissà quanto devono fischiare le orecchie ai poveracci!

    Allegria, gioia nella loro casa; atmosfera tesa, silenziosa nella nostra. Quando potevo, me ne fuggivo via. Lasciavo la mamma seduta al tavolo di cucina, sola, persa nei suoi pensieri.

    Se l’è portate dietro la tristezza e la solitudine per tutta la vita, ma non poteva essere altrimenti. 

    IV

    Bella donna mia madre, alta e snella, capelli setosi perennemente nascosti da un fazzoletto o imprigionati in una crocchia. Un delitto, perché quando se li scioglieva per lavarli e lasciarli asciugare al sole si animavano di riflessi bluastri e la fasciavano tutta fino alla vita. Rari momenti, quelli, in cui la donna prendeva il sopravvento sulla moglie-madre-nuora e lei si lasciava andare, padrona finalmente di uno spazio soltanto suo.

    Senza preoccuparsi di intaccare la levigata purezza del viso, si offriva alla carezza del sole, passando e ripassando il pettine tra i lunghi capelli. Avrei voluto parlare con lei, aiutarla, così le ronzavo intorno, ma sempre riusciva a farmi sentire un’intrusa. Bastava uno sguardo per tenermi lontana e lei a occhi chiusi, un vago sorriso sulle labbra, si estraniava, paga forse della dolcezza dei ricordi. A cosa pensava?

    Forse alla casa colonica dai muri scrostati, l’arancio coi rami protesi verso la finestra, l’aia dalle lastre sconnesse di pietra popolate di ciuffi d’erba e a lato, vicino alla pergola d’uva fragola, la pompa dall’acqua marmata. E ancora la stalla mugghiante, i campi… visioni come sogni, odori che galleggiavano nell’aria mischiati in un’armonia di profumi. Quello pungente dell’erba tagliata di fresco, l’altro polveroso del fieno rimasto a seccare nei campi, l’aroma dolciastro dell’uva matura, l’umido della terra e l’afrore di foglie in putrefazione, l’olezzo del gelsomino fiorito, della menta, del rosmarino.

    Il padre Angelo faceva il guardacaccia, la mamma si occupava dei campi e loro, i bambini, raspavano tra le zolle e i fossi. Lei provvedeva in casa e ogni sera aspettava il

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