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La cassetta rosa
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E-book170 pagine2 ore

La cassetta rosa

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Info su questo ebook

C’è un istante, nella vita di ogni bambino, in cui un particolare, un gesto visto di sfuggita o una frase sentita per sbaglio spalancano improvvisamente le porte di un mondo tutto nuovo, dai tratti oscuri, che appare nello stesso tempo vertiginoso e irresistibile. Col mistero che la circonda, la sessualità è una scoperta tremenda, che fa di colpo abbandonare la fanciullezza e proietta in un universo di parole, di azioni, di emozioni incomprensibili.
A cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila, Ugo è un ragazzino che si ritrova alle prese con gli interrogativi fatidici. È cresciuto senza la mamma, con un padre introverso e scorbutico, in un paese di campagna che non offre tanti spunti. Il suo mondo è quello della scuola, con dei compagni che non molto più di lui sanno, degli adulti a cui non si può parlare così come servirebbe per capire, e delle infatuazioni travolgenti che non riescono a sbocciare.
La cassetta rosa è la vhs di un film hard che a un certo punto arriva nella sua casa, avvolta da un alone di segretezza che tuttavia niente può di fronte alla curiosità di un adolescente. Sarà quella che in un modo o in un altro, attraverso pagine spassose, bizzarre, tragiche, riuscirà a dare una luce nuova non solo alle proverbiali inquietudini ormonali di Ugo, ma pure ai suoi orizzonti personali e affettivi, misurandolo con temi più grandi della vita.
Romanzo trascinante di formazione sentimentale sui generis, che in una narrazione dolce ed equilibrata irride ogni morbosità e racconta, in un crescendo intenso e commovente, un delicato percorso di scoperta e di realizzazione di sé.
LinguaItaliano
Data di uscita27 set 2023
ISBN9791254572740
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    Anteprima del libro

    La cassetta rosa - Bruna Alboni

    Prima parte

    La prima volta

    1

    Tuffo al cuore

    L’ultimo anno di liceo era appena iniziato e nel pomeriggio di un ottobre allegro e soleggiato avevo deciso di andare a fare un giro fino al mare. Una passeggiata sul molo a vedere i pescatori e a immaginarmi oltre lo spazio dell’orizzonte che al mare sembra più ampio e luminoso. La solitudine era diventata da tempo una necessità e ogni tanto dovevo prenderne il respiro. Al ritorno, sull’autobus mi sedetti dietro. Dopo qualche fermata vicino a me prese posto una ragazzina. Jeans sdruciti e una maglietta rosa attillata che si intravedeva sotto una giacca di lana pesante colorata di marrone chiaro e ancora di rosa. Capelli ricci e neri.

    Un tuffo al cuore.

    I capelli ricci e neri mi facevano ripensare alla mamma, a Winnie e non ricordo, ma ero pronto a scommettere che anche Cesira avesse i capelli ricci e neri.

    I suoi erano lunghi ma raccolti dietro in una grossa e lenta treccia che le lasciava il viso circondato e incorniciato dalla chioma. Zaino in spalla e in mano il cellulare che stava infilando nella tasca dietro dei pantaloni. Dopo un po’, ecco disse a se stessa ad alta voce, si alzò in piedi e andò alla discesa. Io la seguii con gli occhi e la osservai ancora dal finestrino quando, ormai scesa, si allontanava.

    Carina, pensai.

    Una camminata lenta e ritmata, un lieve ancheggiare elegante e sbarazzino, più marcato dal lato sinistro.

    Pensai che avrei dovuto dirle qualcosa, attaccare bottone. Mi chiesi perché non è mai così facile come accade nei film o come penso accada ai miei compagni! Mi sentii inadeguato, impacciato e il ricordo di Jennifer era meglio che lo chiudessi in un cassetto e ne buttassi la chiave. Da quella sera di avventura con lei mi sentivo ancora più bloccato di prima, per come si era svolta la serata, per il mio insuccesso e per la mancanza di scintille che proprio non si erano accese.

    Invece qui l’avevo sentita la scintilla, un lampo improvviso, denso, che mi aveva fatto sussultare gli organi interni e rimescolare il sangue come diceva la nonna, ma l’occasione mi era scappata, lei era già scesa e io non avevo fatto niente per fermarla.

    Abbassai gli occhi per la delusione e vidi il suo cellulare. Le era caduto e non se n’era accorta. Lo presi e pensai a una botta di culo. Per me. Se l’indomani avessi avuto ancora occasione di incontrarla avrei saputo cosa dirle e magari lei mi avrebbe ringraziato e saremmo usciti insieme. Era praticamente scarico.

    A casa feci le prove per essere preparato all’incontro. Stavolta avevo tempo per evitare deludenti conclusioni. In camera mi misi a parlare con me stesso a voce alta.

    "L’altra volta ti è caduto il cellulare, eccolo. Dove scendi?" No, troppo sfacciato.

    "Ho trovato il tuo cellulare. Ciao, chi sei?" Neanche.

    "Io sono Ugo e tu? Se mi dici come ti chiami ti darò il tuo cellulare." Un ricatto bell’e buono.

    Forse dovevo provare a immaginare un dialogo.

    "Tieni, ti è caduto ieri."

    "Oh, grazie, ero disperata!"

    "Prego." E sarebbe finito tutto lì. Troppo breve, troppo conciso. Dovevo lasciare spazio a un discorso che mi permettesse di approfondire.

    Tieni, l’ho trovato ieri. È tuo?

    Grande! Sì. Ero disperata. Ma come fai a sapere che è mio?

    Era caduto proprio dove eri seduta tu.

    "Ma tu eri in autobus ieri?" Eh no, proprio questo non dovevi dirmelo. Non mi avevi neanche notato, non ti eri proprio accorta che c’ero!

    Anche questo non andava.

    Tieni, credo che sia tuo.

    Sì cazzo, è mio, dove l’hai trovato?

    Mi era sembrata un tipo dinamico e moderno con annesso l’uso di quell’intercalare.

    Ieri, in autobus, proprio dove eri seduta tu.

    Che fortuna, ero disperata, grazie.

    E qui si concludeva un’altra volta. Capitolo chiuso. Come quest’estate. Come le barriere del babbo e finiamola qui.

    Non c’era altro da sperare che fosse lei a offrirmi uno spunto per poter continuare.

    Tieni, credo che sia tuo.

    Poi si sarebbe visto il resto.

    E così il giorno dopo ritornai al mare e ripresi lo stesso autobus alla stessa ora ma lei non salì. Ripetei l’operazione per una settimana anche se dovevo studiare o qualche amico mi chiedeva di andare da lui. Non posso, ho un impegno.

    Cosa devi fare?

    Coi nonni.

    Come al solito non svelai a nessuno il mio progetto. Un po’ per il timore di essere apostrofato con gli epiteti imbranato, pirla, testa di minchia che io stesso mi ero attribuito, un po’ per la mia abituale riservatezza e incapacità di espormi. Il Boss poi avrebbe trovato senz’altro una presa adatta e si sarebbe intrufolato nei suoi segreti cellulari e io né volevo gli insulti, né volevo invadere il mondo privato di qualcun altro. Mi era bastata una volta e ne avevo amaramente pagato le conseguenze.

    Ma lei non saliva.

    Per sicurezza tenevo sempre il suo cellulare nello zaino. Ogni tanto lo tiravo fuori, lo guardavo, lo annusavo, mi sentivo un depravato e lo rimettevo via.

    I viaggi inutili e infruttuosi mi deludevano e, dopo la prima settimana di assiduità, divennero più radi e non ci sperai più.

    Vieni alla festa di Halloween così ti faccio conoscere Marina, mi disse un giorno il Boss in classe.

    E chi è Marina?

    Sto con lei da circa un mese, guarda.

    E mi fece vedere la sua foto sul cellulare.

    Marina era lei, i ricci neri sull’autobus. Porca puttana come diceva Mangia merda. Fregato. Da un mese. Non valeva. L’avevo vista prima io ma se l’era beccata lui. Al diavolo i miei tentennamenti. Se le avessi detto qualcosa quel primo giorno! Dannate parole mancate! Un’occasione che non mi sarebbe capitata mai più. Non c’era scampo. Non avevo scampo. Come con Winnie. Ancora una volta.

    2

    Ostinazione

    Sconfitto e amareggiato decisi di andare alla festa. Dovevo restituire l’oggetto. Ormai dovevo liberarmene. Dovevo chiudere la faccenda e buttarmi da qualche altra parte.

    Cercai di agghindarmi al meglio. Stavolta di fronte allo specchio. Niente parole però, non sarebbe stato necessario, me la sarei sbrigata subito e chi s’è visto s’è visto, ma mi sentivo comunque teso.

    Jeans e camicia. No. Jeans e maglia blu. No. Jeans e camicia. No ancora. Alla fine jeans e maglia grigia col cappuccio. Cintura nera. Mi guardavo e riguardavo allo specchio come mai avevo fatto. I miei capelli biondi e lisci erano come quelli del babbo. Li avevo tenuti lunghi e il ciuffo mi cadeva spesso sulla fronte. Mi dava modo di nascondere lo sguardo che così scrutava e osservava senza essere visto. Ai piedi Converse di pelle nera e la punta bianca, alte sul collo del piede. Passabile.

    Lui è Nick, questa è Marina, mi venne incontro il Boss tenendola per mano.

    Ma tu ti chiami proprio Nick?

    No.

    E dimmelo allora come ti chiami!

    Mi chiamo Ugo.

    Lei si fece una risata. Che nome ammuffito! È più bello Nick. Ma perché ti chiami Nick? Non c’entra un fico secco con Ugo!

    Intanto che glielo spieghi io vado a prendere le birre. E il Boss si allontanò.

    Tirai fuori dalla tasca il suo cellulare. È tuo?

    Cazzo!

    Avevo ragione, almeno sull’intercalare ci avevo azzeccato.

    E tu come fai ad averlo! Dove l’hai trovato? Quando l’hai trovato? Mia mamma mi ha legnato di brutto quando l’ho perso. Tutti i miei numeri! Sai quanto ci ho messo per riaverli? E poi ancora tutti non li ho. Ma come hai fatto a sapere che è mio?

    Cercai di spiegarle il più velocemente possibile il fatto trascurando i viaggi a vuoto della speranza. Le dissi che era diventato subito muto. Che l’avevo riconosciuta nella foto che mi aveva mostrato il Boss e che, quindi, eccomi lì, o meglio, eccolo qui.

    Grazie comunque, fortuna che sei venuto alla festa, ma perché non l’hai dato a Giorgio quando hai visto la foto?

    Il cellulare è qualcosa di personale e non devono esserci intermediari. Già io sono di troppo.

    È vero. Anzi, sai cosa faccio. Non glielo dico neanche a Giorgio che me l’hai portato! Così non ha niente da ridire su di te che non gli hai detto che era mio.

    Anticipò spontaneamente un mio desiderio, come se mi avesse letto nel pensiero, inoltre accese un segreto complice tra di noi, un contatto che, secondo me, andava oltre la semplice conoscenza asettica.

    Devi ancora spiegarmi perché ti chiami Nick.

    Marina! chiamò il Boss. Vieni qua un attimo! Era al banco delle bibite con altri.

    Ciao Ugo, mi fece lei, hai un nome ammuffito e anche tu sei un po’ ammuffito ma sei carino e hai ancora un debito con me. La spiegazione! Ci vediamo!

    Mi aveva chiamato Ugo. Nessuno mi chiamava più così fuori dalla cerchia famigliare. Tranne Jennifer ma mi ero detto che dovevo dimenticarla. E aveva aggiunto che ero carino. Grande!

    A scuola trafugai notizie da Giorgio.

    Simpatica la tua amica, cosa fa?

    Marina, si chiama Marina.

    Lo so bene, dissi tra me e aggiunsi con finta noncuranza: Di dov’è? Dille se ha qualche amica da presentarmi, ma non amica di scuola, precisai.

    Ti stai svegliando pirla! Il suo preambolo.

    Le notizie non erano rassicuranti. Faceva la terza liceo classico. Ecco, ti pareva? Fregato un’altra volta. Proprio nella tana del lupo. Proprio il classico. E non è che ce n’erano due, c’era solo quello. Un paio di conti fulminei. Lei faceva la terza, Jennifer faceva la quinta. Non erano in classe insieme e non lo erano mai state anche se c’era una sola sezione e si conoscevano tutti. Con un po’ di fortuna non sapeva niente. Abitava in città. Per il momento mi bastava.

    Continuai a pensarla e mi dicevo che dovevo tentare, nonostante i miei precedenti propositi di non avvicinarmi a quella scuola per nessun motivo per non incontrare l’altra, quindi cominciai a perlustrare la zona del classico la mattina. Mi mimetizzavo mettendomi in testa il cappuccio della felpa, mi fermavo, guardavo, mi appoggiavo al muro, aspettavo, niente. Pensavo a Giorgio e al tentativo di tradimento che stavo attuando. Non è giusto, mi dicevo, ma non resistevo, era più forte di me. Mi veniva in mente una scena di un cartone. La zanzara bambina si dirige verso la lampada che la brucerà. La mamma l’avverte.

    Torna indietro, non andare!

    Non pooosssooo risponde lei che zzzzsfrrish va a frantumarsi e friggersi.

    Io ero uguale, sapevo che mi stavo mettendo in un guaio ma non potevo trattenermi. Con Winnie ero stato discreto, ora non potevo proprio, non ce la facevo.

    Ma, come per i viaggi sull’autobus, anche questi tentativi finirono in niente. Non la vidi neanche di sfuggita. E per di più arrivavo in ritardo per la prima ora con conseguente rimprovero dei prof e minaccia di non accettare le giustificazioni che via via inventavo.

    La nonna si è sentita male.; Ho perso l’autobus.; Scusi prof ma i nonni non mi hanno svegliato. E basta che nessuno ci credeva più!

    Verso la metà di dicembre mi ritrovai rassegnato e allontanato dai pressi del classico alla ricerca di un incontro fortuito, ma un lunedì mi comparve davanti lei in via Cavour. Io ero capitato lì per scegliere il regalo che i nonni mi volevano fare per le feste natalizie e, proprio mentre stavo uscendo dal negozio per tornare a casa senza aver trovato niente, la vidi diretta verso di me. Aveva una strana berretta in testa, nera, larga abbastanza per contenere tutta la sua chioma che le usciva a ciuffi, ma la riconobbi immediatamente. Di nuovo un tuffo al cuore, l’agitazione, l’incertezza del da

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