Una cena
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I loro sforzi di fingere che il passato non abbia lasciato traccia si infrangeranno contro il muro di dolore e di silenzio che permane tra loro. Quell’appuntamento le renderà consapevoli che l’inconscio non dimentica mai ciò che la mente tenta di cancellare.
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Anteprima del libro
Una cena - Claudia Delicato
Epilogo
Diana
13 giugno di quell’anno
Mi sveglio boccheggiando. Rimango seduta nel letto, mi sembra di aver corso per tutta la notte. Mi porto le mani alle tempie. No, sono quasi sicura di aver dormito. Forse addirittura sognato. Ne faccio tanti, di sogni. Sì, la scorsa notte, se ne è ripetuto uno che conosco bene.
C’era lui. Lui, in una casa, la mia, quella di quando ero bambina, ma nessun membro della famiglia, c’erano decine di estranei che non avevo invitato. Lui mi sorrideva, quel suo sorriso bruno tra le coperte leggere come crêpes, ma eravamo in Spagna perché c’era la Sagrada Familia, quella che assomiglia alle sculture di sabbia bagnata. C’era la terrazza su un tramonto che non vedevamo mai, perché preferivamo continuare a stringerci dall’altra parte della finestra.
Stendo le gambe, il giramento di testa di ogni mattina. La stanza è vuota: sul comodino, accanto al letto, un posacenere pieno. La caffeina bollente mi riporta in vita, mi accendo una Camel. Perché dopo il caffè c’è sempre la sigaretta, ma dopo la cenere non c’è la Fenice, ma la puzza di fumo che devo sventolare via con le mani, con l’aria fresca della Normandia. Apro la finestra su una via stretta, l’odore del pane caldo mi riempie le narici, lo stomaco si risveglia brontolando. Rouen è bella. E abbastanza grande per lasciarmi sola con i miei sogni.
Mi congedo con il pesce rosso, «Ciao John, fa’ il bravo».
Quel nome che aveva scelto lui. Infilo una giacca di jeans, questa piacerà anche a mia sorella, sarà strano trovarsi d’accordo sui gusti di abbigliamento. Afferro la valigia, controllo che ogni finestra sia chiusa, le chiavi, dove sono le doppie chiavi, poi ricordo, le ho lasciate ai vicini per John.
Le cinque son diventate le dieci, è tardi, l’avion va partir avec une heure de retard. Poi ancora l’odore di tabacco, i fumatori confinati dentro la loro aria pesante sotto il cartello degli arrivi. Sembra un abbraccio di una zia con una sesta di seno, di quelli che non ti lasciano andare più via, soffocante proprio come me la ricordavo, questa vecchia Roma.
Spengo la sigaretta con la punta di una scarpa, la mia, anche se comprata in un negozio di seconda mano. Mi guardo attorno alla ricerca di un bar, entro in uno, classico dal bancone stretto e lungo. Gente che si concede una pausa veloce, gli shots di caffè, amaro, macchiato, al vetro, la gente che si chiede permesso raggiungendo le bustine dello zucchero di canna. Che differenza con la Francia dove ogni caffè sembra un tè delle cinque, con la crema di latte lo zucchero e il biscottino accanto, da bere su tavoli di legno bassi e poltrone, in silenzio.
Io però mi siedo al tavolo. Mi gira ancora un po’ la testa. La signora dai capelli grigi e sporchi seduta accanto a me è immobile, finisce il cornetto che non le si è ancora sbriciolato sulla camicetta, senza distogliere lo sguardo dal nulla. La guardo, le sorrido, lei mi guarda incerta, di rimando. Vorrei dirle che la capisco: la sua tristezza non mi è estranea affatto.
Vibra il marmo, la pelle, vibra il cellulare, la mia mano lo afferra da una tasca di seta all’interno della mia borsa.
Mi paralizzo. Sembra il display di quattro anni fa. Di quando il suo nome mi compariva con cadenza giornaliera davanti agli occhi. Credevo di esserne pronta, e invece no, sono nervosa, incerta. In che anno siamo? Chi mi ha riportato indietro nel tempo?
«Pronto».
È la mia voce a tremare?
«Ciao. Sì, sono arrivata».
Mi hai chiamata sul cellulare, no?
«Sì, tutto bene. A parte l’ora di ritardo, la prossima volta riprendo Ryanair e via».
Dove sei? Lì c’è qualcosa più importante di me.
«Ora sto bevendo un caffè. Poi prendo subito un taxi».
Non c’era nessuno ad aspettarmi, perché sono qui?
«Ah, bene, grazie. Senti, mi dai l’indirizzo per stasera?».
Non so se ho la forza. Ascolto le sue parole atoniche.
«Sì, credo di sapere come ci si arriva. A stasera».
Sono passati quattro anni, ma questa città sarà nella mia mente per sempre, e non c’è un modo meno stupido per dirlo.
Termina la chiamata. Il display dice che il vaso di Pandora si è riaperto in zero minuti e trentasette secondi. Esco dal bar con un Arrivederci
e una gran voglia di vomitare.
Inspiro. Espiro. Una cosa per volta.
Mi incammino verso il parcheggio dei taxi. Ma le gambe sembrano cedere. Forse sono le scarpe troppo pesanti per questo clima così caldo, così marino. Entro nella prima vettura bianca del parcheggio. Il tassista e la sua macchina sono gli unici anelli sconosciuti di questa catena di eventi che mi porterà a destinazione. Guardo fuori dal finestrino, il naso sfiora il vetro, cercando di raggiungere quelle strade che riconosco, quegli edifici che si sfaldano pallidi e sciatti, in fiamme, sotto i trentadue gradi centigradi.
L’auto imbocca quella strada, quei ricordi di quando ero una pupa
, così mi chiamava mia nonna, fortuna che ha imparato il mio vero nome con l’andare del tempo. Pago e scendo, il vestito verde mi rimane attaccato al sedere, ora mi preoccupo più per la chiazza di sudore che non per come mi calza.
Attraverso il cortile, è bello osservare i bambini e capirne le preoccupazioni senza dover ricorrere a rapide traduzioni. Una bambina dal vestito a scacchi viene trascinata dalla madre.
«Non ho preso Lillo…».
«Siamo in ritardo Arianna!».
Ha ragione la mamma, Arianna, è meglio essere puntuali, è meglio avere rispetto per il mondo, anteporre i doveri prima dei diritti… non è vero quello che dicevano gli economisti scozzesi… tanti piccoli egoisti sono solo tanti piccoli egoisti e basta.
Attraverso il viale di ciottoli e la mia valigia me ne ricorda la superficie irregolare con un trum trum agitato, spero che i miei souvenir non si rovinino.
Alla porta un po’ di attesa, poi mi apre una signora sull’ottantina, vestaglia di flanella rosa, pantofole, ma truccata, ombretto azzurro acquamarina. Dicono non fosse tanto bella da giovane.
Mi sorride ma a malapena; è un sorriso imbarazzato come si vergognasse un po’ a farsi trovare in déshabillé, nonostante sapesse l’ora del mio arrivo. Quella vestaglia e quelle pantofole non rappresentano un ritorno in un ambiente familiare, ma un’intrusione in un luogo che non mi appartiene.
«Ciao nonna».
«Ciao Diana», due baci sulle guance, infine.
Mi fa sedere in cucina, è quasi l’una, ma c’è ancora la tazza della colazione, latte macchiato fette biscottate e marmellata. Non so se mi manca averne in casa, il mio particolare rapporto con l’arida dispensa, mi stringo i polsi. Ma continuo a osservare la consistenza corposa della marmellata: pezzettoni di ciliegie, così vividi, sanguinei, fanno quasi impressione. Mia nonna segue il mio sguardo:
«Ti sei dimagrita».
E lo dice guardandomi fissa: forse con sollievo, non le è mai piaciuto cucinare.
«Sì, ho una vita