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Il Cammino dell'Universo
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Il Cammino dell'Universo
E-book242 pagine3 ore

Il Cammino dell'Universo

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Info su questo ebook

Un ragazzo si sveglia nella normale decadenza della sua vita. La perdita improvvisa del suo unico amico rimasto lo convince a tornare sul Cammino di Santiago per un'ultima volta. Questo Cammino, rispetto ai precedenti da lui percorsi, si rivela molto più "magico" e misterioso, disseminato di incontri ed avvenimenti un po' troppo "diversi", anche per la normale natura di questo viaggio. Il ragazzo si trova a fare i conti con i suoi ricordi, tutta la vita lasciata sospesa e gli errori del suo passato, fino a che, pezzo dopo pezzo, prova a rimettere insieme ogni cosa intervenendo su tutto l'Universo. Una continua scoperta di strane verità ed un viaggio attraverso uno dei percorsi più incredibili che esistano su questa Terra, per un’unica ragione: arrivare in un luogo che si possa chiamare casa, dentro noi stessi.
LinguaItaliano
Data di uscita14 ago 2015
ISBN9786050405507
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    Anteprima del libro

    Il Cammino dell'Universo - Severino Cirillo

    Farm

    1

    Era davvero un sacco di tempo che non mi svegliavo così sudato. I trentotto gradi pressano l’aria che mi circonda e anche respirare è una fatica.

    Quanti mesi sono passati dall'ultima volta che ho sorriso? Magari è stato ieri stesso, ma non è rimasto più nulla di genuino, sembra più una reazione estrema di salvezza. Devo essere sincero: mi manca il ricordo dei giorni felici, di quando camminavo mano nella mano con chi mi amava, o attraversavo il Sud-America su autobus improbabili, o solamente bevevo un caffè freddo in piazza a Bologna. Dove ho lasciato correre quest’ultima parte della mia giovinezza? Mi sento vecchissimo, eppure ho solo ventisette anni.

    Mi alzo dal divano, che accoglie me e i miei vestiti sporchi dalla sera passata, notando un dolore alla mia gamba destra e mi dirigo verso il bagno. Qui, l’unico specchio della casa mi presenta un conto salato.

    Mi passo la mano sul mento e sento un’altra fitta: dev'essere stata una notte grandiosa... chissà dov’ero. Non che in questo momento faccia molta differenza.

    Piscio rosso: piacevole sorpresa. Se la mia connessione funziona ancora, e trovo il mio tablet, cercherò di capire quale malattia prova a mangiarsi i miei giorni... magari mi sono solo rotto un rene.

    Dopo un ultimo sguardo alla mia disgustosa dimora, indosso la maglietta col cigno, i jeans, le mie scarpe logore ed esco. Una cosa, mi ricordo: è ora di incontrare Lumi.

    Lumi è giovane e, tempo fa, mi ha regalato molte notti serene, ma è passato così tanto tempo che non ce lo ricordiamo quasi più.

    È un anno che non la vedo e non so come mi sia venuto in mente di incontrarla di nuovo. 

    "Ci vediamo sotto porta Marioli" mi scrive, il luogo dove ci siamo conosciuti.

    Quel giorno io camminavo, come al solito, quando a lei sfuggì una scarpa che mi arrivò in fronte. A quei tempi ero piuttosto affabile e risi così tanto della sua vergogna, che non potemmo fare a meno di andare a bere, ancora, qualcosa. 

    Però non l’ho mai amata davvero: in quel periodo, il mio cuore era completamente in frantumi per Greta e non avevo spazio per nessun’altra. Nel cuore, perlomeno.

    Così, passammo una decina di mesi a divertirci liberamente, fino a quando lei si innamorò e diede inizio a un periodo di dolore e repulsione che spezzò il cuore a entrambi.

    Tagliammo i ponti, anche se ci volevamo bene. Lasciar andare è una cosa che ho sempre odiato, ma la vita non ti lascia scelta. 

    La vedo arrivare, dopo circa un anno dall’ultima volta, di nuovo sotto la stessa porta. Nessuna scarpa in faccia, oggi. Lei mi corre in contro con un sorriso grande come una casa, mentre mi chiedo:

    "Cosa avrò mai lasciato dentro di lei?"... non riuscirò mai a comprenderlo. Mi saluta, mi bacia sulla guancia e guarda l’anello che porto alla sinistra:

    TI SEI SPOSATO? mi urla in faccia, rimanendo poi a bocca aperta. Rispondo vagamente: in realtà non è che proprio mi sono sposato, ma per me è come se lo fossi tutt’ora. Effettivamente è strano che io porti ancora questo anello, che è un relitto di un tempo che non ricordo più.

    Andiamo a sederci, le dico io.

    C’è un piccolo bar che si affaccia sulla piazza della porta Marioli, vuoto e triste, ma che tiene sempre aperto. Io chiedo un whisky con ghiaccio e lei il solito caffè greco. 

    "Non cambiano mai le persone", penso io.

    A quanto pare, in un anno, la sua vita è decollata: mi racconta della sua nuova laurea, del fatto che partirà per Dubai per uno splendido lavoro che le hanno offerto e che è felice, con un ragazzo che la tratta come una principessa; che vuole avere un bambino, ma solo dopo aver provato questo lavoro da manager.

    Le solite cose, mi dico, ma mi sembra davvero serena. Io, invece, sono ancora in guerra.

    Sento l’alcool avvilupparmi nei suoi meravigliosi vapori anche oggi, ma non sono un alcolista... solamente un po’ solo.

    Guardandola, mi chiedo perché ogni volta che qualcuno mi passa attraverso, io credo che non possa essere mai più felice di così. Ma la realtà è che regalo l’inferno, ogni volta.

    Parliamo del mio ultimo Cammino di Santiago, ormai il quarto. Sono tornato sul percorso francese, dopo aver provato la solitudine del Camino del Norte. Ho preferito la compagnia e la meraviglia delle amicizie del percorso originale.

    Lei sa già cosa le dirò su questo viaggio: della magia che lo pervade, della gioia in ogni dove... ma ormai sono mesi che sono tornato. 

    Per l’ennesima volta, sono tornato.

    Per l’ennesima volta ho sbagliato.

    Mi chiede cosa sto facendo della mia vita... cosa le rispondo? Sono un benzinaio, guadagno poco, ma abbastanza. Lo faccio per potermi pagare il prossimo viaggio, come sempre.

    Mi dici cosa cerchi, in giro per il mondo? mi chiede.

    Casa mia, rispondo sicuro. 

    E allora perché ritorni sempre? Non hai pensato che forse è questa casa tua?

    Bella domanda.

    E perché mi fa così schifo? replico, automaticamente.

    C’è qualcosa dentro di te, che ti fa schifo.

    Eccolo qui, il solito vecchio luogo comune: se ti piace viaggiare e non ti piace il tuo Paese, allora hai un problema dentro. Oddio, forse in questo momento davvero ho un problema, ma non penso che sia la causa di tutti i miei viaggi. O forse lo è?

    Mi stanco presto: chi si adatta alla vita nel quadrato non fa proprio per me. Le ho voluto bene, ho saputo anche quasi amarla, la vedo felice, ma non mi ha capito nemmeno un po’.

    È doloroso pensare che qualcuno possa entrare così in profondità dentro di te, senza comprendere nemmeno le origini dei tuoi sorrisi, dei tuoi dolori, delle tue passioni. Le persone che ami ti entrano sotto la pelle e puoi vederle muoversi, se stai un po’ attento. Se invece non le tratti con la dovuta cura, a un certo punto spingono da dentro e ti squarciano. Dopo, puoi metterci tutto il tempo del mondo a ristabilirti da questa ferita, ma il segno non se ne andrà mai.

    Ho perso l’attenzione e ho cominciato a osservare la gente che cammina di fianco al nostro tavolino.

    Le dico che devo andare e che mi ha fatto un piacere immenso rivederla e riconosco che, nonostante tutto, è vero.

    A casa, mi aspetta un’altra terribile serata di fronte alla TV, con Facebook al mio fianco e, molto probabilmente, un’altra pizza.

    Poi, la notte: uno dei miei peggiori incubi. Ho dormito quasi sempre, negli ultimi cinque anni, con qualcuno, ma in questi ultimi mesi sono rimasto solo con me stesso... con il buco nero intendo, quello che nessuno dei Cammini, dei viaggi è stato in grado di riempire.

    Io da solo, mi sento solo. Punto. Nessuno provi a convincermi che è una bella cosa, o che serva a qualcosa rimanere soli. No. È una merda, nient’altro.

    2

    Sono le 21.49, alla TV c’è un programma con bimbi che cantano. Una tortura, ma alcuni di loro sono talentuosi e sapere che c’è qualche innocente da sfruttare per profitto fa sempre piacere.

    Sto per finire la birra, quando mi squilla il telefono... il fisso. Giuro, nemmeno mi ricordavo di avere un telefono fisso. A quel punto seguo la suoneria, sperando di arrivare in tempo, tanto sono curioso.

    Pronto? rispondo.

    Il signor...? mi chiedono se sono io.

    Eh, si. 

    È la polizia. 

    Ottimo.

    Cosa ho fatto stavolta? chiedo, scettico.

    Dovrebbe, per favore, presentarsi in centrale appena possibile, mi informa l'agente, con accento del Sud.

    Posso sapere per quale motivo?

    Non al telefono. La aspettiamo, non oltre la mezzanotte, e la telefonata finisce con un clic.

    E questa? La sorpresa è doppia, non solo perché avevo completamente dimenticato il mio telefono fisso, ma perché... la polizia! Comunque, devo arrivare in centrale entro mezzanotte: dove ho le chiavi della macchina? Ribalto tutta la casa, ma nulla: niente chiavi; magari le ho lasciate dentro l’auto! Mi vesto e scendo in strada.

    Metà dei lampioni sono spenti, la mia via è sempre poco illuminata. Mi guardo intorno, perché non mi ricordo dove ho parcheggiato, poi faccio un giro dell’isolato. Non trovo la mia auto e mi tocca andare a piedi, prima che sia troppo tardi.

    La città è silenziosa e vuota, deve esserci qualche festa di paese qui intorno, perché in giro non c’è davvero nessuno.

    Non cammino bene a causa del dolore alla gamba e mi ci vuole una mezz'oretta per arrivare alla centrale di polizia, che è costruita in un quartiere abitato quasi esclusivamente da immigrati. 

    Nel silenzio, arrivo. Suono il citofono e mi chiedono di farmi riconoscere. Consegno i miei documenti e l’agente mi accompagna di persona.

    Venga, che andiamo dal collega, è senza dubbio lo stesso agente che mi ha telefonato.

    Entriamo in un ufficio senza targhe, diverso dal classico ufficio degli interrogatori.

    È venuto a piedi? mi chiedono subito.

    Eh, sì.

    Per forza, la sua auto è qui. Almeno, quella che lei guida.

    Ecco perché non l’ho trovata!

    Davvero? Non si ricorda dov’è stato ieri?

    Sembrano allo stesso tempo sorpresi e scettici.  

    Ma ricordare sarà un bel problema: proviamo.

    "Credo di essere stato al Minnie a bere con un amico."

    Il signor Montesi? mi chiedono, colpendomi.

    Sì.

    Dopo?

    Dopo, ci siamo spostati in un altro posto più vicino a casa mia, perché sapevo in che condizioni sarei stato e volevo poter tornare a casa agevolmente. Da quel punto in avanti, non ricordo praticamente più nulla: Marco è uno che non molla e ti distrugge, prima ancora di sentire un po’ l’alcool, spiego onestamente agli agenti, con una strana ammirazione per il mio amico.

    Sicuro, che non si ricorda più nulla?

    Beh, ricordo che stamattina mi sono svegliato sul mio divano, ed ero ancora vestito. Nulla di nuovo, se mi posso permettere di dirlo.

    Bene. Allora: come le ho detto, la sua auto è qui. Credo che dovrebbe almeno venire a vederla, mi ordina l'agente più alto.

    Okay, immagino che ci sia qualche problema. Vero? domando, ora preoccupato.

    Eh. Almeno uno di sicuro.

    Mi portano nel loro garage, dove trovo la mia auto con una fiancata distrutta e macchie di sangue sparse.

    Ma che cazzo è successo!? la visione mi ha sconvolto.

    Speravamo volesse dircelo lei.

    Eh, a saperlo! mi gira la testa.

    Sarà un bel problema, lo sa?

    Dovreste dirlo a chi ha fatto questo casino! rispondo, senza pensare. Non ne sembro in grado ora.

    Poi, li sento parlare di cose che per me non hanno alcun senso e che non ho alcuna voglia di ascoltare. Parole su parole, fino a che il mio cervello non percepisce:

    È morto in ospedale.

    Queste parole mi risvegliano improvvisamente.

    Chi, scusi? chiedo subito.

    Il signor Montesi, è morto stasera in ospedale: era evidentemente una persona molto sola, non siamo ancora riusciti a rintracciare nessun parente. Ma la macchina era la sua: sappiamo che lei non era alla guida, perché abbiamo trovato lui, ma la informiamo che ci sarà un’indagine. Ci domandavamo solo perché non era lei al volante, ma sembra che non otterremo granché. Condoglianze. Nel caso se la sentisse, può tornare a casa.

    Silenzio.

    Non ho molto da dire: il dolore che provo adesso non è la solita stretta che mi opprime giorno per giorno. Questo mi fa sanguinare, è bruciante... Marco è morto. Nemmeno quest’ultimo pezzo mi è rimasto per stare bene su questa Terra, non so come reagire. È da tempo immemore che non piango, ma questo è troppo anche per me. Non ho la forza di fare nulla, perché niente ha senso in questo momento. Come si fa a capire quando il dolore è troppo forte, perché ci si possa permettere il lusso di viverlo? Questa volta, credo lo sia.

    La città ricomincia a muoversi, la gente torna dalle feste di paese, qualcuno mangia un gelato. Io sento tutti i rumori ovattati e i colori si mescolano in un grande caos che non sono più in grado di controllare. Crollo e comincio a piangere come si deve. La gente mi guarda mentre io penso che dovrebbero imparare anche loro a essere un po’ più sinceri con se stessi e con gli altri. In fondo è umano morire, soffrire, gioire. Le emozioni devono sempre avere lo spazio che si meritano, anche quando sono devastanti.

    Però adesso anche Marco è morto... è morto, cazzo. Ieri sera era lì al mio fianco, ora comincia a marcire da qualche parte. E adesso, che cosa mi rimane?

    Mentre mi lavo le mani e inizio a preparare la colazione, mi viene in mente un ricordo di qualche tempo fa.

    Ero in Svezia, su un pontile lungo un chilometro, ornato di un giardino in mezzo a un lago, in compagnia di una ragazza bellissima. La nostra storia stava finendo, ma avevamo comunque deciso di provare a passare un po' di tempo insieme nel Nord. 

    Rivedo lei che si ferma in mezzo al pontile, volge gli occhi al tramonto rosa di Agosto, e mi chiede: 

    Perché tu fai questo, alle persone? e mi lascia spiazzato.

    Dentro di me credo sempre di comportarmi bene e, anche quando sbaglio, tento di difendere le persone dai miei errori. Ma fu quel giorno che capii che è l’errore stesso che va evitato: le intenzioni, nella vita, sono decisive.

    Finisco di preparare una lettera alla padrona di casa e la piego. Poi la appoggio insieme alla penna sul tavolo e vado in camera mia. Il mio zaino è pronto da ieri notte, mi aspetta. Non ho dovuto farmi coraggio rispetto a questa decisione: nulla mi è rimasto da conservare qui, per cui è giunto il tempo di andarsene definitivamente. Non so quale sarà la vera meta, questa volta.

    Una volta era la strada, questa volta partirò - di nuovo - dal luogo che conosco meglio: torno a Santiago. Chissà mai che ci trovi qualcosa, stavolta. Indosso finalmente il mio zaino, bevo l’ultimo sorso d’acqua e mi chiudo la porta dietro le spalle.

    3

    Ho cominciato a camminare con un fardello, dentro di me, di gran lunga più pesante dell’immenso zaino che porto in spalla. I primi giorni sono stati molto, molto diversi da quelli dei miei Cammini passati: il Cammino Francese è un posto magico e molto organizzato, dove si trovano cibo e letti più o meno ovunque, senza muoversi per più di due ore. Partire da casa, invece, è una cosa diversa: non ci sono frecce gialle pitturate ovunque a suggerire la strada, non ci sono posti dove dormire e nessuno ti riconosce e ti rispetta per quello che sei. Non sei un pellegrino, ma solo uno di quegli hippie da mantenere alla larga dalla calma piatta della vita normale.

    Per questo, ho dovuto dormire una notte nel cortile interno di un palazzo, in tempo per essere svegliato nella notte dal vigilantes (che però mi ha compreso), un'altra notte sulla riva di un fiume (ma solo fino all’alzarsi del sole, perché non si può campeggiare sul suolo pubblico) e un'altra ancora in una bettola terribile. Il proprietario mi ha preso in simpatia, scambiandomi per un emule di Christopher McCandless, diventato famoso per la sua asocialità e il suo desiderio di vivere in Alaska "Into The Wild". Avventura, che gli è costata la vita.

    Anche il proprietario del posto si chiamava Marco e, dopo avermi offerto tutto quello che mi poteva offrire, mi ha permesso di dormire sul pavimento del minuscolo palco del locale, dove di tanto in tanto si divertiva a organizzare delle jam session.

    Sto camminando a un ritmo forsennato, quasi sessanta chilometri al giorno, perché non ho motivi per fermarmi e meno resto in Italia, meno starò male.

    Dopo qualche giorno intenso, mi preparo a raggiungere il confine. Qualcuno si starà occupando del funerale, almeno spero, come spero che la sua anima riposi tranquilla, dopo l’inferno che questa vita di merda ha fatto passare anche a lui.

    Mi sento solo. La pioggia è leggera, ma riesco a vedere il mare, da questa strada panoramica. Mi trovo da qualche parte di fianco all’Aurelia e vedo un Mediterraneo agitato, attraverso la sottilissima coltre d’acqua di questa mattina. Spero di trovare presto un bar, almeno per sentire il profumo del caffè... o del whisky. Probabilmente di entrambi. Bere non mi fa bene, se cammino, ma mi aiuta a non pensare troppo: trovarsi da

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