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otargimmi
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E-book179 pagine2 ore

otargimmi

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Info su questo ebook

Normalmente si migra da Sud a Nord o da Est a Ovest.
L'Ovest è stato il centro del mondo per millenni.
Ma nei millenni, appunto, la Storia cambia, cambia la storia dei popoli e il verso dei movimenti.
Nello schema mentale collettivo il Sud del mondo è sinonimo di povertà, arretratezza, guerre e problemi.
Ma sarà davvero così?
C'è già chi ha letto e legge in chiave positiva le diversità del Sud, chi le interpreta e le coglie come opportunità.
Se liberiamo la nostra mente dal puro economicismo e torniamo a dare valore alla vita globale, prima che alla economia globale, forse scopriremmo che il Sud ne esce vincente.
Questo Sud del mondo è stata la opportunità che il Dr Marcello, ucciso moralmente e professionalmente dal “suo” mondo, ha voluto esplorare.
Questo medico prova a fare quello che milioni di persone fanno quando si trovano in condizioni umane e professionali disperate: decidono di fare le valigie, lasciare alle spalle un mondo ingrato e ostile per cercarne uno nuovo, affrontando l'incognita con il marchio di “immigrato”. Per Marcello il marchio diventa otargimmi, perché migra al contrario.
Non è la classica figura di volontario che va per aiutare ma va perché ha un disperato bisogno di essere aiutato.
Trova il coraggio di abbandonare e seppellire una vicenda professionale e umana disperata e senza via di uscita e, prima di seppellire se stesso, cerca di rinascere in un nuovo mondo.
Sorretto da una fede salda, matura e incrollabile non lascia nulla di intentato.
LinguaItaliano
Data di uscita22 dic 2015
ISBN9788892532151
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    Anteprima del libro

    otargimmi - (immigrato Al Contrario)

    INDICE

    OTARGIMMI

    Immigrato al contrario

    Questo libro é dedicato a tutti coloro che per amore o per forza lasciano i loro paesi, le loro origini e accettano la sfida dell’ignoto.

    Piangiamo coloro che perdono la vita in tale azzardo ma diamo onore al coraggio di chi alla fine ce la fa.

    PIETRO GIACOMO MENOLFI

    INTRODUZIONE

    Normalmente si migra da Sud a Nord o da Est a Ovest. L'Ovest è stato il centro del mondo per millenni. Ma nei millenni, appunto, la Storia cambia, così come cambia la storia dei popoli e il verso delle migrazioni.

    Nello schema mentale collettivo il Sud del mondo è sinonimo di povertà, arretratezza, guerre e problemi.

    Ma sarà davvero così?

    C'è già chi ha letto e legge in chiave positiva le diversità del Sud, chi le interpreta e le coglie come opportunità.

    Se liberiamo la nostra mente dal puro economicismo e torniamo a dare valore alla vita globale, prima che alla economia globale, forse scopriremmo che il Sud ne esce vincente.

    Questo Sud del mondo è stata la opportunità che il Dr Marcello, ucciso moralmente e professionalmente dal suo mondo, ha voluto esplorare.

    Questo medico prova a fare quello che milioni di persone fanno quando si trovano in condizioni umane e professionali disperate: decidono di fare le valigie, lasciare alle spalle un mondo ingrato e ostile per cercarne uno nuovo, affrontando l'incognita con il marchio di immigrato. Per Marcello il marchio diventa otargimmi, perché migra al contrario.

    Non è la classica figura di volontario che va per aiutare ma va perché ha un disperato bisogno di essere aiutato.

    Trova il coraggio di abbandonare e seppellire una vicenda professionale e umana disperata e senza via di uscita e, prima di seppellire se stesso, cerca di rinascere come uomo e medico nuovo in un nuovo mondo.

    Sorretto da una fede salda, matura e incrollabile non lascia nulla di intentato.  

    CAPITOLO 1

    IL TEMPO PASSATO

    La missione è l’espressione e il naturale risultato del sentirsi amati e chiamati.

    Mi chiamo Marcello; ero nato e cresciuto in un paese del Nord Italia, dove avevo vissuto tutto il mio segmento di vita giovanile e dove avevo costruito le amicizie e gli affetti più cari. Avevo vissuto in un contesto familiare e parrocchiale che aveva favorito la mia vita fatta di semplicità e di attenzione ai bisogni degli altri.

    Era stata per me importante l’esperienza vissuta in oratorio, che avevo frequentato fin da bambino e che, all’inizio dell’adolescenza, mi aveva aperto alla dimensione sociale del gruppo, dell’amicizia e del servizio. Come molti in tenera età, a quattordici anni avevo avuto quasi intenzione di andare in seminario, perché mi era sembrato di aver sentito la cosiddetta chiamata del Signore, ma accantonai l'idea, pensando alla fine che non fosse la strada giusta.

    Ero convinto che Dio ci chiama ad essere noi stessi, con le nostre inclinazioni, i nostri talenti e le nostre debolezze qualunque sia il nostro ruolo nella vita. Mi veniva naturale la propensione al servizio, senza caricarlo di grandi significati; veniva naturale e faceva parte della mia educazione, tipica di quegli anni.

    Sin dagli anni del Liceo ebbi chiara l'idea di che cosa avrei fatto nella vita: volevo diventare medico. Non mi attiravano la ricchezza e le cose che la accompagnano; sentivo che dovevo fare una professione in cui fossi utile a qualcuno.

    Nella mia gioventù, essendo di famiglia dalle possibilità economiche modeste, non potei coltivare molte passioni, quali letture, musica o altro. Il mio diversivo era andare a giocare all'oratorio, quando ero libero e non c'era bisogno di me in famiglia.

    C

    Negli anni del Liceo ebbi un periodo di grande sofferenza per la morte improvvisa di un amico in un incidente stradale e, seppur giovane, mi trovai a interrogarmi profondamente sul senso della vita; cominciai a capire che probabilmente non ne eravamo i padroni.

    Dai miei genitori avevo ricevuto insegnamenti preziosi che avevano segnato in modo determinante il mio cammino: il coraggio di osare, il concepire la vita come una missione e un impegno che richiede sacrificio e generosità, il coltivare la fiducia nel futuro e tanto altro.

    Ma da quell’episodio tragico ricevetti uno sprone ad impegnarmi di più per fare il massimo, intanto che lo potevo ancora fare. Si rafforzò la mia fede; quel momento di dolore terribile fu quello che si chiama l’incontro personale con Dio e mi fece fare un grande passo verso una fede più matura. Il Signore, toccandomi il cuore e plasmandomi la mente, mi diede l'opportunità di fare le cose sempre meglio, di essere determinato negli obiettivi che volevo raggiungere. Quella specie di illuminazione interiore mi aveva segnato col fuoco e trasformato nella mente e nella vita pratica. Di conseguenza le mie prestazioni nello studio prima e nel lavoro poi mirarono sempre al meglio e si consolidò la mia propensione per l'aiuto a chi era nel bisogno.

    Finito il Liceo, ero entrato per gli studi nella Facoltà di Medicina e l'impegno fu intenso. Dovevo fare lavori saltuari per sostentarmi agli studi. Ero animato da un profondo spirito di indipendenza e cercavo di pesare il meno possibile sulla mia famiglia.

    Pur facendo una vita semplice in una residenza universitaria che ci alloggiava per delle rette veramente di favore, di soldi ne servivano sempre, per i libri, per qualche extra con gli amici cui non ci si poteva sempre sottrarre e per partecipare alla vita universitaria.

    Gli unici lavori disponibili erano quelli di cameriere sottopagato, distributore di pizze su ordinazione e poco altro; durante l'estate si trovava qualche posto nell'edilizia; un anno andai a lavorare in un cantiere per la costruzione di una autostrada; non mi riuscì mai di trovare lavoro, come altri fortunati, sui vagoni letto dei treni. Cercavo di concentrare il lavoro limitandolo a certi periodi in modo che non interferisse sulla frequenza alle lezioni. Il mio rendimento universitario fu sempre ottimo; non facevo davvero fatica a studiare. Come studente universitario il mio compito era quello di studiare con regolarità, pena allungare gli anni di studio e finire fuori corso, prospettive che non mi allettavano. Quindi ce la misi tutta per riuscire a svolgere gli esami nei tempi previsti.

    Non fu sempre facile organizzarmi tra i corsi da seguire ed il lavoro da svolgere, coniugare la vita personale e quella familiare, che avevo ridotto al minimo.

    Dalla mia esperienza universitaria ero uscito umanamente maturato ma non avevo incontrato veri amici tra i miei colleghi.

    Parecchi erano figli di medici che perpetuavano la professione di famiglia ed erano molto snob; i figli dell'alta società non mancavano di mostrare la loro arroganza; già avevano la forma mentis dei carrieristi e degli arrivisti. In realtà non avevo molto tempo da dedicare alle relazioni sociali e nemmeno ne sentivo la mancanza. Mi riuscì di completare i miei studi esattamente in tempo, alla fine dei sei anni previsti. Non eravamo davvero in molti ad aver conseguito tale risultato. Fu una liberazione e fu un lancio nella vita.

    Mi laureai con 110: quello fu il giorno del trionfo; mi sentivo un imperatore.

    Quella era la professione dei miei sogni per la quale avevo lottato durante tutti gli anni della scuola e della mia vita fino a quel momento.

    CAPITOLO 2

    PRIMI ANNI DA MEDICO

    Medicina mi affascina perché significa alleviare le sofferenze dell'uomo, comporta l’abnegazione nei confronti dell'altro, ti chiama a scendere in campo.

    In quegli anni per i medici era facile trovare lavoro, subito; quindi divisi i miei impegni iniziali fra medicina di famiglia e ospedale. Ma la mia ambizione restava quella di diventare cardiologo.

    Di solito quando hai una fissa, batti e ribatti fino a che riesci nei tuoi intenti. Io ero di carattere testardo e determinato; perciò mi impegnai fino a che conseguii il mio scopo. Non dovetti attendere a lungo per iscrivermi alla specialità e, nel contempo, ottenni un posto di lavoro in ospedale poiché in quegli anni non esistevano incompatibilità.

    All'inizio carriera, a fronte della incertezza del principiante, mi ritrovavo con energie esuberanti e mi sentivo di lavorare il doppio del normale, quasi che volessi recuperare il tempo perduto a studiare. Molti dei miei vecchi compagni di paese già lavoravano da anni quando io ero solo all'inizio. Così mi ritagliavo qualche spazio anche per fare qualche sostituzioni ai medici di paese. Stando sui due fronti potevo sperimentare dal vivo la differenza di approccio alla professione fra il medico ospedaliero e quello di famiglia. Negli ambulatori di paese aveva molta importanza la relazione individuale col paziente e con la famiglia. Io, facendo il lavoro saltuariamente, purtroppo non avevo quel patrimonio di conoscenza delle famiglie che apparteneva ai titolari di quei posti. Le persone avevano molte aspettative basate sulle relazioni e sulla conoscenza individuali. Un'altra differenza era che, in quegli ambulatori, con appena l'essenziale per fare delle visite, dovevo cavarmela nel rispondere alle aspettative più varie; non potevo certo mandare tutti in ospedale a fare esami. Non era difficile ma ne dedussi che una gran parte di quel lavoro veniva basato sulla reciproca simpatia fra medico e paziente.

    Più vado avanti e più mi accorgo che la medicina senza empatia è niente. È scienza vuota. Arte senza colori. È come un quadro in bianco e nero: non riesce ad esprimere il massimo della intensità della realtà; è limitata rappresentazione della realtà.

    Non avevo nessuna intenzione di fare quel lavoro ma, caso mai l'avessi avuta, credo che avrei cambiato idea.

    Nonostante non mi desse fastidio il lavoro, avevo capito che quel tipo di professione ti impegnava totalmente e non ti lasciava spazi di riposo, per studiare o per una famiglia, il giorno in cui l'avessi avuta (come accadde). Alla fine della giornata mi sentivo soddisfatto, la gente era riconoscente, ma mi sentivo il cervello come svuotato ed il corpo esausto, nonostante fossi rimasto seduto per tante ore. Avevo letto una citazione in merito a quel lavoro, del tipo Sempre pronto, senza fretta ma senza riposo e credo che trovasse corrispondenza esatta.

    Ma il mio obiettivo era di lavorare come medico ospedaliero. Specialmente il primo anno fu cruciale nel porre le basi delle mia futura carriera; praticamente era l'ingranaggio per il passaggio dall'essere uno studente ad essere un professionista sul campo, con tutti i carichi di lavoro e di responsabilità.

    Lavoravo in medicina generale con anche l’ incarico di consulenze al Pronto Soccorso e agli altri reparti. Non essendoci le varie branche specialistiche della medicina, come cardiologia, pneumologia, nefrologia ed altre, il nostro reparto aveva in carico tutti questi settori.

    Non era una partita facile, ma ogni giorno aggiungeva il suo pezzo al puzzle. Ero principiante ma non per le responsabilità affidatemi: dovevo intervenire sulle emergenze; dovetti affrontare le prime questioni etiche, scoprendo che non erano solo cose teoriche scritte sui libri; mi incontrai a tu per tu con la morte e gli ultimi momenti di vita, sia sul versante del moribondo che della famiglia. Era così bello e interessante quando studiavo sui libri!

    Essendo alle prime armi dovevo essere onesto e obiettivo e saper riconoscere i miei limiti; ricordo la rabbia quando non mi riusciva di mettere una cannula; ricordo la frustrazione quando vedevo dei pazienti che miglioravano temporaneamente e poi peggioravano di nuovo, dopo che io avevo fatto tutto quello che conoscevo ed ero in grado di fare. Se poi il paziente moriva mi sentivo devastato.

    La storia aveva un altro colorito quando i pazienti miglioravano e guarivano, quando questi e i loro parenti mi ringraziavano; non disdegnavo sinceramente gli apprezzamenti anche di qualche collega, che erano però dosati col contagocce.

    Il lavoro in ospedale favoriva le relazioni positive o negative fra i medici e le infermiere; c'era molto pettegolezzo ma c’erano anche gli scambi professionali e nascevano antipatie o vere amicizie.

    Guardando indietro al tempo che scorreva, continuavo a meravigliarmi di come il tempo volasse, a differenza di quando ero all'università quando le date e le scadenze sembravano non arrivare mai. Col passare del tempo cominciai anche a lavorare con meno ansia, mi sentivo più sicuro di me ed ero in grado di gestire la maggior parte delle decisioni anche quelle non facili. Era diventata meno frequente la domanda che ponevo a me stesso: Riuscirò mai a...?

    Mi paragonavo a volte ad un neonato, al baby dottore che aveva bisogno di svilupparsi attraverso gli stadi della crescita fino ad essere capace di parlare e di camminare da solo.

    Affrontare e gestire la morte non era stato facilissimo. Imparai a dominare lo stress della sconfitta e a metterlo nella logica della professione, pur se mi rimaneva l'amarezza interiore.

    C'erano giorni o momenti in cui sembrava che la mente fosse un foglio bianco; sembrava che tutti gli studi fossero stati cancellati dal cervello, anche quelle cose che avevo imparato quasi a memoria. Purtroppo la teoria non sempre combaciava con la pratica; le risposte del

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