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E se questo fosse il paradiso: Come i nostri miti culturali ci impediscono di vivere il paradiso in terra
E se questo fosse il paradiso: Come i nostri miti culturali ci impediscono di vivere il paradiso in terra
E se questo fosse il paradiso: Come i nostri miti culturali ci impediscono di vivere il paradiso in terra
E-book244 pagine3 ore

E se questo fosse il paradiso: Come i nostri miti culturali ci impediscono di vivere il paradiso in terra

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Info su questo ebook

Il primo best seller di Anita Moorjani, Morendo ho ritrovato me stessa, è stato tradotto in 45 lingue e ha venduto 1 milione di copie. Dal libro è stata realizzata una produzione hollywoodiana al cinema.
L’inferno e il paradiso sono stati dell’anima,
condizioni di benessere fisico e mentale interrotte o agevolate dalle circostanze della vita.

Se anche tu vuoi imparare a ritrovare la pace interiore lavorando sulla tua autostima, questo è il libro giusto per te.
“La saggezza che Anita Moorjani condivide con i lettori li rende consapevoli del loro potere nell’ambito della salute e della pace interiore: amarsi veramente malgrado le difficoltà della vita fa parte del processo di realizzazione e del successo di ciascun essere umano qui sulla Terra.”
- Dr. Eben Alexander, neurochirurgo e autore del best seller Milioni di farfalle.
LinguaItaliano
Editoremylife
Data di uscita17 nov 2016
ISBN9788863867329
E se questo fosse il paradiso: Come i nostri miti culturali ci impediscono di vivere il paradiso in terra

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    Anteprima del libro

    E se questo fosse il paradiso - Anita Moorjani

    Capitolo 1

    MITO:

    HAI QUELLO CHE TI MERITI

    S ambo, Sambo, piccolo negretto Sambo! ripetevano le bambine nel parco giochi della scuola mentre circondandomi, mi deridevano a causa della mia pelle scura e dei miei capelli crespi. Il piccolo negretto Sambo, un bambino dell’India meridionale dalla pelle scura, era un personaggio di un libro per ragazzi che stavamo leggendo in classe, e sopportare queste crudeli prese in giro era la punizione per il privilegio di studiare in una scuola britannica privata.

    La mia faccia era rossa per l’imbarazzo e la vergogna, e la mia mente di bambina di otto anni era in preda alla confusione, non sapendo come reagire mentre il cerchio si chiudeva attorno a me. Perché fanno così? mi chiedevo, sentendomi indifesa. Non è colpa mia se ho questo aspetto! Che cosa dovrei fare? Rispondere agli insulti? Cercare di colpirle? Dirlo alla maestra?.

    Mi sentivo in trappola, incapace di muovermi. Cercai rapidamente con lo sguardo l’insegnante incaricata di sorvegliarci durante la ricreazione. Alla fine la individuai, ma era all’altro capo del parco giochi e stava scherzando con un gruppo di bambini che giocavano a ce l’hai e volevano che si unisse a loro. Non c’era speranza che mi notasse; non sarebbe comunque riuscita a sentirmi con tutta la confusione creata da centinaia di bambini che saltavano la corda, giocavano a palla e così via. Le mie tormentatrici si erano assicurate di essere abbastanza distanti dall’insegnante prima di iniziare a insultarmi.

    Trattenendo le lacrime, cercai di scappare, sperando di rompere il cerchio che si stringeva su di me. Ma, anche se cercavo di passare, le bambine continuavano a circondarmi, rimanendo vicine e tirandomi per lo zaino per impedirmi di scappare, fino a quando non raggiungemmo il muro di pietra della scuola, ai margini del parco giochi.

    Sei piccole bulle

    Quanto desideravo che il cielo si aprisse con un rombo di tuono e che un supereroe dei programmi Tv che guardavo arrivasse volando e colpisse le mie persecutrici, portandomi in salvo mentre ridevo di tutte loro! Ma a quel punto mi sarei accontentata di qualcosa di molto meno teatrale, per esempio di qualcuno, chiunque, forse anche di una delle altre ragazzine, che improvvisamente si fosse deciso a difendermi e a ribellarsi alle sue compagne. La mia immaginazione considerò tutte le opzioni che desideravo in quel momento ma, purtroppo, nessuna si manifestò.

    E così rimasi lì, con le spalle al muro e le sei bulle che mi sovrastavano. Ero invisibile a chiunque altro al mondo tranne a queste sei ragazzine, tutte più alte di me. Per un momento considerai di prenderle a calci nelle gambe nel tentativo di liberarmi, ma tutto ciò che riuscii a fare fu di schiacciarmi sempre più contro il muro, cercando di allontanarmi da loro il più possibile, mentre chiudevo gli occhi e aspettavo che dessero il peggio di sé. All’improvviso, la più alta, una bambina di nome Lynette, afferrò le cinghie del mio zaino e quasi mi sollevò da terra. Rimasi in bilico sulle punte dei piedi quando mi tirò a sé, mi guardò dritta negli occhi e sibilò: Dacci i soldi del pranzo, Sambo!.

    Ormai stavo piangendo, non riuscendo a controllare le lacrime che mi scendevano sulle guance. Tremavo mentre Lynette allentava la presa, in modo che potessi prendere dallo zaino il denaro che mio padre mi aveva dato quella mattina per comprare un succo di frutta e una merendina durante la ricreazione. Proprio quando stavo per consegnare le monete a Lynette, suonò la campanella. Lynette agguantò il denaro dalla mia mano, e tutte le bambine si girarono e cominciarono a correre verso l’ingresso dell’edificio, dove avrebbero continuato la giornata come se nulla fosse successo. Mentre correvano via, le gambe mi cedettero e crollai a terra. Rimasi lì a singhiozzare senza riuscire a fermarmi.

    Golliwog fuor d’acqua

    In quanto bambina indiana in una scuola inglese ai tempi in cui Hong Kong era una colonia britannica, ero proprio una rara eccezione. Ricordo ancora il giorno, all’inizio di quello stesso anno scolastico, in cui mia madre mi portò al colloquio di ammissione con la direttrice, una signora dall’aspetto severo con i capelli corti a caschetto. Il suo atteggiamento mi comunicava che ero fortunata ad avere l’opportunità di studiare in quel prestigioso istituto e di conseguenza avrei dovuto essere grata per il privilegio.

    Quando cominciai a frequentare le lezioni, non solo le compagne mi schernivano nel parco giochi con l’epiteto piccolo negretto Sambo, ma mi chiamavano anche golliwog (o wog, che era ancora più offensivo), dal nome di un personaggio di colore con grandi labbra rosse, capelli crespi e occhi spalancati, molto diffuso nei libri per l’infanzia in quella parte del mondo. Siccome prendevo buoni voti abbastanza facilmente, mi chiamavano anche perfettina. Arrivavano persino a forzare il mio armadietto per rubarmi le cose, per esempio le mie nuove matite colorate, solo per dimostrare che potevano farlo. Io ero così timida e introversa che non reagivo mai, continuando a essere un facile bersaglio.

    A volte, il bullismo di cui ero vittima mi buttava talmente giù che mi nascondevo in uno stanzino nel bagno delle ragazze e piangevo fino a non avere più lacrime. Mi ricordo anche parecchie notti passate a piangere fino a quando non riuscivo ad addormentarmi. Mi sentivo intrappolata in un angolo buio e profondo da cui non c’era modo di scappare. Nonostante i buoni voti, odiavo la scuola con tutta me stessa.

    Le prese in giro mi umiliavano perché mi sembrava che avere la pelle scura fosse qualcosa di cui vergognarsi. Ero inoltre convinta che doveva esserci qualcosa di sbagliato nel mio atteggiamento o nelle cose che dicevo, tanto da provocare un tale comportamento negli altri. Ma non riuscivo a capire cosa facessi o dicessi di sbagliato, in modo da poterlo cambiare e da indurre finalmente le mie compagne ad apprezzarmi. Presto iniziai a credere di essere veramente un disastro e di non essere all’altezza di tutti gli altri.

    Siccome ero sicura che in qualche modo fosse tutta colpa mia, non ne parlavo mai a nessuno, né alle insegnanti né ai miei genitori. In particolare non volevo deludere mio padre e mia madre, che pensavano che stessi andando molto bene a scuola. Forse avevo anche il presentimento che denunciare le bulle le avrebbe solo fatte arrabbiare di più e che probabilmente si sarebbero vendicate per aver fatto la spia.

    Un altro fattore che mi remava contro era che provenivo da una cultura dove abbondavano le disuguaglianze tra i generi, in cui le donne erano considerate cittadine di serie B. Ero perfettamente consapevole di questa disuguaglianza fin da quando ero piccola. Anche se non ebbe un ruolo diretto nella mia esperienza di bullismo, poiché le mie persecutrici erano tutte femmine, questo fattore contribuì a rinforzare la mia bassa autostima in altre situazioni in cui venivo maltrattata.

    Il tradimento di Riyana

    A un certo punto, durante quell’anno, feci amicizia con un’altra bambina indiana di nome Riyana, che aveva un anno più di me. Anche lei era vittima di bullismo, e in poco tempo diventammo molto intime. Era così bello avere una migliore amica; per la prima volta, sentivo di poter condividere con qualcuno tutto quello che mi succedeva. Stavamo sempre insieme, credendo che in quel modo avremmo potuto contrastare le nostre persecutrici. Ci saremmo difese a vicenda, guardandoci le spalle l’un l’altra.

    Trovammo nascondigli segreti nell’enorme labirinto di corridoi e cortili della scuola, posti in cui ci sentivamo al sicuro. Portavamo la merenda e il pranzo in questi luoghi segreti, sapendo che non sarebbe arrivato nessuno a rubarceli. Inoltre, dopo la scuola frequentavamo le reciproche case, e a volte, nei fine settimana, dormivamo insieme a casa dell’una o dell’altra. Eravamo entrambe dei maschiacci e ci piaceva andare in bicicletta e sui pattini a rotelle, giocare a calcio e a cricket.

    Poi un giorno tutto cambiò. A quanto pare, Lynette e il suo gruppo avevano chiuso Riyana in un angolo durante la ricreazione, minacciando di picchiarla. Riyana, in un momento di debolezza, disse che si sarebbe unita a loro contro di me e che le avrebbe portate al mio nascondiglio se l’avessero lasciata andare. Mi offrì come merce di scambio, come agnello sacrificale, per così dire, per togliersi dai guai. Lynette e le sue amiche accettarono l’accordo.

    Immagina come rimasi scioccata quando Lynette e la sua banda, al grido familiare di Sambo, Sambo!, mi trovarono in uno dei nostri nascondigli preferiti. Ma la mia sorpresa fu niente in confronto al trauma di scoprire che Riyana era una di loro! La mia migliore amica, invece di venire in mio soccorso e prendere le mie difese, le aveva condotte dritte a me! Ero così ferita dal modo in cui si era rivoltata contro di me che il suo tradimento mi sembrò di gran lunga peggiore del bullismo. Questo, più di ogni altra cosa, mi fece sentire davvero indegna come persona.

    Ripensandoci, ora capisco quanto l’essere stata vittima di bullismo mi abbia segnata dal punto di vista emotivo e cambiata in profondità. Mi portò a desiderare di essere invisibile, in modo da farmi gli affari miei senza essere notata. Mi fece temere gli altri, tanto che mi assicuravo di passare sempre inosservata, non partecipando mai ad attività come il teatro o il consiglio studentesco, che avrebbero attirato l’attenzione su di me. Mi vestivo in modo sobrio invece di seguire le mode del momento come le mie coetanee. Odiavo gli sport di squadra, perché sapevo che sarei stata l’ultima a essere scelta nella formazione delle squadre. Non mi piaceva neanche lavorare in gruppo perché ero consapevole che nessuno mi voleva nel proprio.

    Benché mia madre provasse senza sosta a farmi uscire dal guscio, rimasi timida e introversa per la maggior parte della mia giovinezza perché, fondamentalmente, mi sentivo indegna d’amore, sbagliata, brutta, ripugnante e inutile. Più di una volta pensai che l’unica soluzione fosse togliermi la vita. Così imparano!, ricordo di aver pensato verso i tredici anni. L’idea mi sembrava quasi eroica, come se volessi sacrificare la mia vita per tutti i bambini vittime di bullismo. Le autorità avrebbero sicuramente iniziato ad accorgersi del problema, soprattutto se avessi lasciato un biglietto spiegando il motivo di questa scelta estrema. Anche le stesse bulle ne sarebbero state scioccate, magari a a un punto tale da voler cambiare comportamento.

    Ma, un attimo dopo, mi rendevo conto che il mio suicidio avrebbe devastato la mia cara madre, che mi amava incondizionatamente. Pensare a lei in quei momenti di disperazione era sufficiente a scacciare ogni idea di suicidio. Anche solo immaginare il suo dolore per la mia morte mi faceva piangere ancor di più, dissolvendo qualsiasi piano suicida prima ancora che prendesse forma.

    Dopotutto, avevo già visto mia madre piangere per la morte di un figlio. Quando avevo otto anni perdemmo il mio fratellino di due, che aveva la sindrome di Down ed era nato con un problema al cuore. Non dimenticherò mai come la sua morte devastò i miei genitori e quanto tempo ci volle prima che mia madre superasse il dolore. Quel ricordo è forse la ragione principale per cui sono ancora qui oggi.

    Disagio adolescenziale

    Quando diventai adolescente e raggiunsi la pubertà, mi ritrovai a desiderare di nascondere il mio corpo in trasformazione sotto abiti larghi, per non attirare l’attenzione. Lasciai crescere i capelli perché sparire sotto la mia spessa chioma mi dava una sensazione di sicurezza e protezione. Andavo a scuola con la speranza di non essere notata perché credevo che, passando inosservata, nessuno se la sarebbe presa con me.

    Mentre le altre ragazze uscivano insieme, partecipavano a ogni tipo di attività dopo la scuola, come gli sport, e andavano alle feste nel fine settimana, per esempio ai balli scolastici, io ne stavo alla larga. Non volevo andarci per poi sentirmi esclusa. Preferivo di gran lunga tornare a casa dopo la scuola e passare il tempo con la famiglia o da sola, ascoltando musica o leggendo. A volte uscivamo con altre famiglie e mi piaceva molto, ma non ho mai raccontato a nessuno ciò che mi succedeva a scuola. Rimase il mio imbarazzante segreto.

    Certo, non tutta la mia infanzia è stata pessima; anzi, la maggior parte della mia vita era straordinaria e magica, specialmente il fatto di vivere in mezzo a così tante culture e lingue diverse a Hong Kong. Ora non scambierei l’esperienza di essere cresciuta lì per niente al mondo. Ma il danno alla mia psiche era già stato fatto. La bomba a orologeria aveva iniziato a ticchettare, in attesa di esplodere in una fase successiva della mia vita.

    Il bullismo, come ogni altra forma di violenza durante l’infanzia, ci cambia in maniera molto profonda e radicale. Se inizia in giovanissima età e dura abbastanza a lungo, il bullismo può incidere in maniera permanente sul modo in cui vediamo il mondo e percepiamo noi stessi in relazione agli altri, anche a distanza di tempo dalla sua fine. Quando accade molto presto nella vita di un bambino, altera le sue aspettative sul futuro. Non a caso, io passai la giovinezza aspettandomi di essere rifiutata. Il mio comportamento nel permettere che questo continuasse rifletteva semplicemente i miei sentimenti verso me stessa, che durarono per molti anni ancora.

    Di conseguenza, crebbi pensando di dovermi impegnare duramente per dare prova di me stessa in ogni fase della vita, per dimostrare il mio valore in generale e di essere degna delle cose positive che mi potevano accadere. Inoltre, quell’esperienza mi rese molto sensibile alle critiche negative, che tendevo a ingigantire nella mia testa. Ma forse il principale effetto del bullismo fu che, quando le persone mi rivolgevano attenzioni positive, mi sentivo immeritevole o indegna del loro apprezzamento e allora, per reazione, o rifiutavo le attenzioni o ne ero eccessivamente grata. Di conseguenza, cercavo in tutti i modi di dimostrare che ero veramente degna della loro attenzione positiva, a volte fino al punto di diventare uno zerbino.

    In breve, il bullismo mi privò dell’autostima.

    Imparare la verità sull’amore

    Puoi ben immaginare la mia totale meraviglia durante la mia esperienza di premorte nello scoprire che non solo ero degna di essere amata incondizionatamente per il solo fatto di essere me stessa, ma che ero anche una bellissima, magnifica e forte creazione dell’universo, unica, speciale e preziosa sotto ogni punto di vista. Non dovevo fare niente per essere degna di questo dono. Non dovevo piantare nessun seme speciale per raccogliere l’amore profondo e duraturo che l’universo provava per me. Non avevo bisogno di dimostrare o di realizzare nulla. Era così e basta, sicuro come il sole che tramonta la sera e sorge la mattina.

    Nella luce cristallina del regno della premorte, compresi che nessuna delle cose che mi erano accadute a scuola aveva qualcosa a che fare con me. Quelle ragazzine avevano solo messo in atto le loro insicurezze, perché si sentivano esse stesse poco amate e impotenti. E invece erano amate dall’universo come lo ero io. Anche loro erano belle e straordinarie anche se, come me, non lo sapevano. Avevano proiettato su di me il senso d’insicurezza che provavano perché potevano farlo, non perché io meritassi un tale trattamento.

    Sorprendentemente, vidi anche che niente di ciò che io o loro avevamo fatto richiedeva perdono. Avevamo agito per ignoranza a causa di quello che ci aveva inculcato la società, che aveva perso la consapevolezza della propria essenza divina. Ciò che avevamo vissuto, nel bene e nel male, faceva parte del percorso necessario per ritrovare l’amore incondizionato.

    Vivere il paradiso qui e ora

    Se Hai quello che ti meriti è un mito, quale potrebbe essere la verità?

    Considera queste possibili verità

    •A prescindere da quello che le persone pensano o dicono l’una dell’altra, siamo tutti degni di essere amati incondizionatamente per il solo fatto di essere ciò che siamo. Non dobbiamo guadagnarci l’amore di nessuno, è un nostro diritto di

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