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A.D. 30. L'anno del Messia
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A.D. 30. L'anno del Messia
E-book457 pagine6 ore

A.D. 30. L'anno del Messia

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Un autore da 5 milioni di copie

La verità cambierà la storia

Un grande romanzo storico

Maviah è la figlia di uno dei più potenti sceicchi beduini.
Quando una tribù rivale lancia un attacco improvviso e devastante al villaggio dove vive, è costretta a fuggire con l’aiuto di due soldati fedeli a suo padre: Saba, un uomo che usa la spada più della parola, e Giuda, un ebreo che viene da una comunità di astronomi. Il loro viaggio è pieno di insidie: se riusciranno a sopravvivere alle sabbie del deserto e al caldo opprimente, giungeranno in una terra brutale, soggiogata da tiranni. Qui Maviah dovrà forgiare un’improbabile alleanza con Erode, il re dei giudei. Ma sulla sua strada la ragazza incontrerà un altro uomo, un predicatore dal linguaggio enigmatico che dice di essere il figlio di Dio, e si fa chiamare Gesù… Le parole di quell’uomo cambieranno ogni cosa. Seguirlo potrebbe essere la cosa più rischiosa che Maviah abbia mai fatto, ma forse è l’unico modo per salvare il suo popolo e se stessa.

Un autore da 5 milioni di copie

«Potrebbe essere un genere a sé.»
New York Times

«Stupendo.»
Booklist

«Un thriller ambientato ai tempi di Gesù.»
Publishers Weekly
Ted Dekker
È cresciuto in Indonesia, dove i suoi genitori erano missionari. Trasferitosi negli Stati Uniti, ha fatto l’imprenditore prima di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Autore di più di venti romanzi, ha venduto oltre cinque milioni di copie in tutto il mondo. La Newton Compton ha pubblicato Il cimitero dei Vangeli segreti, Il segreto del santuario e A.D. 30. L'anno del Messia.
LinguaItaliano
Data di uscita8 feb 2017
ISBN9788822705051
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    Anteprima del libro

    A.D. 30. L'anno del Messia - Ted Dekker

    1490

    Dello stesso autore

    Il cimitero dei vangeli segreti

    Titolo originale: A.D. 30

    © 2014 by Ted Dekker

    Published in agreement with the author,

    c/o BAROR INTERNATIONAL, INC., Armonk, New York, U.S.A.

    Traduzione dall’inglese di Ilaria Ghisletti 

    Prima edizione ebook: aprile 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0505-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Oldoni Grafica Editoriale, Milano – www.oldoni.com

    www.newtoncompton.com

    Ted Dekker

    A.D. 30

    L’anno del Messia

    01_OMINO-1.tif

    Newton Compton editori

    Indice

    Il mio viaggio in A.D. 30. L’anno del Messia

    Prologo

    DUMA

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    IL NAFUD

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    GALILEA

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    CAFARNAO

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    PETRA

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    BETSAIDA

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    Capitolo ventisette

    Capitolo ventotto

    Nota dell’autore

    Appendice

    Il mio viaggio in A.D. 30.

    L’anno del Messia

    Si dice che la vera spiritualità non possa essere insegnata, ma solo appresa attraverso l’esperienza, cioè la storia. Tutto il resto sono solo chiacchiere. Si dice anche che la distanza più breve tra una persona e la verità sia una storia. Di sicuro è per questo che Gesù preferiva esprimersi attraverso parabole.

    Per dieci anni ho sognato di esplorare la vita di Cristo attraverso una storia, non come un ebreo che conosceva i costumi dell’epoca, ma come un estraneo, perché oggi siamo tutti estranei. Volevo ascoltare i suoi insegnamenti e vedere il suo potere. Volevo capire il suo pensiero su come si deve vivere, come rialzarsi di fronte alle difficoltà che tutti affrontano in questa esistenza terrena, non nella prossima.

    Tutti conosciamo il ruolo di Gesù per i cristiani e i suoi insegnamenti sul tema della vita dopo la morte e gliene saremo eternamente grati. Eppure dobbiamo vivere questa esistenza. Quali sono dunque gli insegnamenti di Cristo per questa vita, se non gli stessi che valgono per la prossima?

    Così ho iniziato a chiamare Gesù col suo vero nome dell’epoca, Yeshua, e mi sono rimesso in cammino per comprendere la sua via attraverso gli occhi di una straniera, una donna beduina che a causa di una terribile tragedia perde la sua precaria posizione nel profondo deserto arabo. Il suo epico e faticoso viaggio la costringe a recarsi in Israele, dove conosce gli insegnamenti radicali di Yeshua, che di nuovo sconvolgono il suo mondo.

    E hanno sconvolto anche il mio.

    Anche se sono cresciuto nella Chiesa e conosco bene la religione cristiana, quello che ho riscoperto nelle parole di Yeshua mi ha colpito nel profondo. Per la parte di me che desiderava liberarsi dalle catene era meraviglioso, per la parte che invece non voleva cedere e incamminarsi sulla via della libertà in questa vita era terrificante.

    I miei genitori erano missionari che avevano lasciato tutto in Occidente per portare la Buona Novella a una tribù di cannibali indonesiani. Erano eroi sotto tutti gli aspetti e mi hanno insegnato cose meravigliose, non ultimi valori e virtù della vita cristiana. Sono stati un esempio straordinario per me.

    Quando avevo sei anni, i miei fecero quello che facevano tutti i missionari all’epoca (e non gliene porto rancore): mi mandarono in collegio. Mi sentii completamente sradicato e solo. La prima notte piansi per il terrore. Non ricordo le notti seguenti, perché in qualche modo ho rimosso quelle memorie dolorose, ma i miei amici dicono che per mesi ho passato ogni sera sveglio a piangere.

    Mi sentivo abbandonato, e avevo solo sei anni. Ero sperduto come quell’uccellino della favola, che gira tra gli animali della foresta chiedendo chi di loro è la sua mamma.

    Sei la mia mamma? Sei mio Padre?

    Oggi capisco che da allora la mia vita è stata un’eterna ricerca della mia identità e del senso di questa vita, perché per la prossima mi sentivo abbastanza sicuro.

    Crescendo, tutte le risposte preconfezionate che avevo imparato a memoria al catechismo mi sembravano incomplete o sbagliate, a volte in modo marchiano. Iniziai a vedere i difetti in quello che un tempo mi sembrava così semplice.

    Avrei dovuto avere dei superpoteri per riuscire ad amare il prossimo, porgere l’altra guancia, non parlare male e non giudicare. Dovevo essere uno scintillante esempio per il mondo, un faro di amore disinteressato, grazia e forza. Eppure mentre ascoltavo la retorica altrui, non mi sentivo di avere affatto quella forza.

    Da adolescenti mi convinsi che fosse solo colpa mia: non avevo abbastanza fede, dovevo sforzarmi di più. Il resto del mondo sembrava riuscire in tutto, io invece ero un fallimento completo.

    Vi suona familiare?

    Più avanti mi resi conto che in realtà eravamo tutti sulla stessa barca, a partire da coloro che mi erano più vicini. Quando le relazioni misero in discussione tutto quello che credevo sull’amore, quando la malattia visitò la mia casa, quando gli amici mi tradirono, mentre faticavo a pagare le bollette, mentre la vita mi prosciugava, iniziai a chiedermi dove fosse finita tutta quella forza che mi faceva esistere appieno. Poi mi chiesi se ci fosse davvero mai stata. Forse era per quel motivo che fallivo.

    Così mi sforzai di più sperando di trovare l’amore di Dio. E fallii di nuovo.

    E ogni volta che fallivo, capivo sempre più chiaramente che tutti coloro che sostenevano di vivere una vita santa in realtà erano esattamente nelle mie stesse condizioni, solo che mentivano a se stessi. Cosa che sembrava evidente a tutti, tranne che ai diretti interessati. Yeshua non aveva forse detto che invidia, pettegolezzo, ansia e paura sono solo un’altra forma di depravazione? Non aveva detto che arrabbiarsi con qualcuno o dargli dello stupido è tanto grave quanto ucciderlo? Era più o meno quello il concetto.

    Dunque ogni giorno eravamo tutti ugualmente colpevoli.

    Allora come si fa trovare pace e forza in questa vita quando si è circondati da una tale quantità di ipocriti, che fingono di essere puri come sepolcri imbiancati mentre in realtà puntano il dito per giudicare?

    Molti cristiani oggi si sentono profondamente traditi. Le promesse dell’infanzia si sono rivelate sospette, se non prive di senso, e questo li allontana in massa, lasciando il clero nella più completa impotenza.

    E voi? Potete salvarvi nella prossima vita, secondo la dottrina, ma in questa non vi sentite spesso perduti e deboli?

    Pensate alla vostra vita come a una barca nella tempesta. Le nubi nere oscurano il sole, il vento vi frusta il viso, le onde minacciano di strapparvi dalla vostra barca per seppellirvi in una bara d’acqua.

    E così, presi dal terrore, vi aggrappate alla barca, credendo che solo quella vi salverà dalla sofferenza.

    Eppure Yeshua è in pace. E mentre voi urlate per il terrore, lui osserva la tempesta senza timore alcuno.

    «Perché avete paura?», chiede.

    È impazzito? Non vede cosa c’è da temere? Come fa a fare questa domanda?

    A meno che quello che vedete voi e quello che vede lui non siano due cose diverse… Pace.

    Yeshua ci ha indicato una Via per salvarci in mezzo a tutto ciò che noi riteniamo una minaccia, in mezzo al mare tempestoso della nostra vita terrena.

    Quando il vento si alza per distruggervi, potete calmare le onde? Potete abbandonare la vostra preziosa barca e camminare sulle acque tempestose? Oppure restate aggrappati all’albero maestro come tutti, certi che annegherete nel mare nero che vi circonda? Avete il potere di smuovere le montagne? Siete capaci di porgere l’altra guancia, di offrire pace e amore a chi vi colpisce?

    Le vostre relazioni vi mettono ansia o non ve ne avete affatto? Vi affannate per il denaro, la carriera o lo status? Temete per i vostri figli? Vi angosciate per i vestiti che indossate, o per quello che gli altri leggeranno nel vostro aspetto? Temete in segreto di non essere all’altezza di quello che Dio o il mondo si aspetta da voi? Pensate di essere condannati al fallimento e vedete subito i fallimenti altrui?

    Io rientravo in tutte queste categorie, anche se non me ne rendevo conto. È difficile vedere con chiarezza se nei nostri occhi c’è la trave del giudizio e del rancore, contro noi stessi o contro il mondo. Solo scrivendo questo libro ho capito quanto sono stato cieco e quanta strada mi resta da fare.

    Yeshua invece è venuto a ridare la vista ai ciechi e a liberare i prigionieri. La vista che ci offre è nel regno del Padre, pieno di luce, che può essere scorto solo con occhi nuovi. E con quegli occhi ho iniziato a intuire il mistero profondo della Via di Cristo, non nella prossima vita, ma in questa.

    La sua Via in questo mondo è piena di gioia e gratitudine, è una strada in cui il giogo è leggero e il passo è sicuro. Il cuore è pieno di pace e soddisfazione. Una nuova forza fluisce dentro di noi.

    Eppure questa Via è radicalmente opposta a quella del mondo e del tutto contraria a ogni logica umana.

    Il corpo non può vedere la Via di Yeshua in questa vita, perché la verità ha bisogno di occhi nuovi. La mente non può comprenderla, perché la verità ha bisogno di un sistema di pensiero radicalmente nuovo. Ecco perché, come ha detto Yeshua stesso, in pochi trovano davvero la sua Via. Si calcola che circa il 70% degli americani abbia accettato Gesù come salvatore, ma quanti di noi hanno davvero trovato la Via su questa terra?

    Per trovarla è necessario rinunciare a un mondo per vederne e conoscerne un altro, che è ci è ancora più vicino del nostro respiro.

    Bisogna rinunciare a ciò che crediamo di sapere sul Padre per poterlo conoscere davvero. Bisogna rovesciare tutto il nostro pensiero e solo così troveremo valore e significato in questa esistenza e vivremo con più pace e forza di ciò che abbiamo mai immaginato.

    Per dirlo alla maniera di oggi, la Via di Yeshua è quella dei supereroi. Non è stato forse lui il primo vero supereroe del quale noi siamo i seguaci? Non correremmo anche oggi da lui per vedere e conoscere la verità su di lui, sul Padre e su noi stessi?

    Sulla via di Yeshua troveremo la pace nelle tempeste della vita, cammineremo sui mari tumultuosi, non saremo morsi dalle bugie dei serpenti, smuoveremo montagne insormontabili, cureremo i mali che affliggono i nostri corpi e i nostri spiriti, saremo vincitori grazie a Yeshua, la vera fonte del nostro potere.

    Ecco la Via per questa vita che ho scoperto in A.D. 30. L’anno del Messia. Ogni volta che ci troviamo accecati dal rancore, dal giudizio e dalla paura, come Maviah anche noi cadiamo nelle tenebre. Ma se torniamo a credere in Yeshua e nella sua Via possiamo vedere il sole invece della tempesta.

    È questa la nostra rivoluzione in Yeshua: liberarci dalla prigione in cui eravamo rinchiusi. È questa la guarigione: vedere ciò che pochi vedono. È questa la resurrezione: sollevarsi dalla morte con Yeshua, come discepoli della Via del maestro.

    Dunque, se volete vedere ciò che Maviah ha visto, entrate in questa storia. Potrebbe cambiare il modo in cui vedevate il Padre il maestro, voi stessi e il mondo.

    Gli insegnamenti di Gesù riportati in A.D. 30. L’anno del Messia sono tratti dai Vangeli. (Cfr. anche l’Appendice).

    Prologo

    Avevo sentito parlare di regni molto lontani dall’oasi che fa crescere la vita, là dove nulla dovrebbe crescere, regni al di là della vasta distesa di sabbia sterile del deserto arabo.

    Avevo vissuto in uno di quei regni oltre il Mar Rosso, una terra chiamata Egitto, dove ero stata venduta come schiava da bambina, e avevo sognato di altri regni, molto più a nord, dove si sentiva dire che i romani vivessero nell’opulenza e nello splendore, brindando sulle spoglie delle terre conquistate. Avevo immaginato i regni della seta più a est della Mesopotamia, il lontano Oriente fatto di magie e meraviglie.

    Ma io, Maviah, figlia del grande sceicco della tribù Banu Kalb, padrona delle sabbie settentrionali dell’Arabia, sapevo bene che non avrei mai visto nessuno di quei regni. Non li avrei mai visti perché io, Maviah, ero nata nella vergogna senza alcuna speranza di onore.

    Si dice che in Arabia esistano quattro pilastri senza i quali la vita nel deserto cesserebbe per sempre. Le sabbie, che rappresentano la terra e offrono acqua dove se ne può trovare. Il cammello, che dona latte e libertà, la tenda, che ripara da morte certa e i beduini, servi di nessuno, leali fino alla morte, amanti della vita, padroni del feroce deserto dove solo i più forti sopravvivono. Al mondo non esiste popolo più nobile dei beduini, perché solo loro sono realmente liberi e sanno vivere nello spietato equilibrio di questi pilastri.

    Eppure, i quattro pilastri sono asserviti a un quinto: il pilastro dell’onore e della vergogna.

    In realtà dovrei dire che non esiste onore più grande che nascere col sangue di uomo, né vergogna più grande che nascere col sangue di donna. Nata nella vergogna, una donna può solo sperare di trovare un briciolo di onore nel non arrecare disonore all’uomo.

    Tutti i legami si forgiano nel sangue. Ogni disonore si lava col sangue. La vita passa di padre in figlio attraverso il sangue. Il sangue contiene la vita, eppure una donna non ha il potere di possedere il suo. Ecco perché ogni donna nasce nella vergogna.

    Tuttavia, la mia vergogna non è solo quella di essere nata donna.

    Non per mio volere, sono anche figlia illegittima, frutto dell’unione disonorevole tra mio padre e una donna della tribù più infima del deserto, i Banu Abysm, vagabondi che macinano le ossa degli animali morti e se ne nutrono per sopravvivere.

    Non per mio volere, mia madre morì di parto.

    Non per mio volere, mio padre mi mandò in Egitto in segreto per nascondere il suo disonore, dato che, come si dice, una vergogna sconosciuta è per due terzi perdonata.

    Non per mio volere, fui fatta schiava in quella terra lontana.

    Non per mio volere, fui rimandata alla casa di mio padre quando partorii un figlio senza marito. Lì, sotto la sua riluttante protezione, mi ritrovai ancora una volta in esilio.

    Ero una beduina che non era libera, una donna per sempre immonda, una madre che non meritava marito, una reietta prigioniera dei possenti pilastri del deserto, soggetta solo al regno della morte.

    E poi, in quel mondo, arrivò un uomo che parlava di un altro regno, un regno che faceva impallidire tutti gli altri regni della terra.

    Alcuni dicevano che fosse un profeta del loro Dio. Altri lo definivano un mistico che parlava per enigmi, che apriva la mente e sollevava il cuore, che faceva miracoli per dimostrare i suoi poteri. Alcuni lo credevano un asceta, ma si sbagliavano. Altri sostenevano che fosse un mistico inviato a liberare la sua gente. Altri ancora che fosse un fanatico zelota, un eretico, un uomo che aveva visto troppa morte e troppo dolore per non impazzire.

    Io invece lo conobbi come l’Unto del Signore, l’uomo che avrebbe dato potere ai pochi che lo seguivano.

    Io sono Maviah, figlia di Rami bin Malik.

    Lui era Yeshua.

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    DUMA

    «Io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra».

    Yeshua

    Capitolo uno

    Nel deserto gli anni non esistono. Qui il tempo è segnato solo da tre cose. Dal sole che sorge e tramonta ogni giorno, con il suo fuoco che è insieme benedizione e condanna. Dalla pioggia che arriva forse due volte in inverno, se gli dei sono clementi. Dalla morte dei giovani e dei vecchi secondo i capricci di quegli stessi dei.

    Ero sola sotto il portico di pietra al piano superiore del palazzo di Marid, nel punto più alto dell’oasi di Duma, mentre il sole tramontava lentamente dietro le dune color sangue. Il mio bambino di un anno succhiava rumorosamente al mio seno, coperto dallo scialle bianco che lo proteggeva dal mondo.

    Quel mondo era governato da due razze: i popoli nomadi conosciuti come beduini, o Bedu, che vagano nel deserto divisi in grandi tribù come i Kalb e i Thamud, e i popoli stanziali che vivono in grandi città governate da re e imperatori. Tra questi c’erano i nabatei, i giudei, i romani e gli egizi.

    Le razze erano due, ma entrambe vivevano e morivano di spada.

    In quelle terre c’era più guerra che pace, perché la pace si raggiungeva solo con l’oppressione o con deboli alleanze tra re e tribù, che potevano tornare a essere nemici appena cambiava il vento.

    E uno di quei venti stava già soffiando.

    Avevo chiamato mio figlio come mio padre, Rami bin Malik, anche se l’avevo fatto prima di tornare a Duma e scoprire l’abisso che ci separava. In realtà lo sceicco tollerava la mia presenza solo perché sua moglie, Nashquya, l’aveva convinto. Certo, io ero illegittima, aveva detto saggiamente la donna, ma mio figlio era comunque nipote dello sceicco. Aveva insistito per accoglierci.

    Nasha non era una moglie come le altre, che potevano essere messe a tacere facilmente: era la nipote del re Aretas di Nabatea, che controllava tutte le rotte commerciali. In realtà mio padre doveva la sua ricchezza proprio all’alleanza con re Aretas, alleanza suggellata sposando Nasha.

    Comunque, io restavo per lui una grande vergogna, se non fosse stato per l’affetto di Nasha, di sicuro mi avrebbe mandata a morire sola nel deserto, crescendo mio figlio come se fosse stato suo.

    Nasha era stata la nostra unica salvatrice. Solo lei mi voleva bene.

    E ora Nasha giaceva moribonda nelle sue stanze, due piani sotto al portico in cui mi trovavo.

    Mi era stato proibito di vederla appena si era ammalata, ma ormai non resistevo più. Appena mio figlio fosse stato sazio e addormentato, l’avrei lasciato nella nostra stanza e sarei scesa di nascosto da Nasha.

    Davanti a me si estendevano le fonti e le pozze d’acqua di Duma che sostentavano migliaia di palme da dattero che circondavano il wadi, per una buona ora di camminata in lunghezza e almeno mezz’ora in larghezza. Crescevano anche degli ulivi, anche se non così numerosi. Nell’oasi c’erano frutteti ricchi di piante di melograno, meli, mandorli e alberi di limone, molti dei quali portati nel deserto dai nabatei.

    Ciò che non cresceva a Duma, veniva portato dalle carovane. Franchincenso e mirra, preziosi come oro per egizi e romani che usavano profumi per accompagnare i loro morti nell’aldilà. Dall’India e dal Golfo Persico giungevano ricche spezie, stoffe dai colori brillanti e altre merci. Dalla Mesopotamia, grano, miglio, orzo e cavalli.

    Tutti questi tesori viaggiavano tra le dune dell’Arabia lungo tre rotte principali, una delle quali attraversava Duma al centro del vasto deserto settentrionale. Alcuni dicevano che, senza le acque di Duma, l’Arabia sarebbe stata metà di ciò che era.

    L’oasi era davvero il gioiello del deserto. Duma traboccava di ricchezze grazie a una considerevole tassa imposta dalla tribù di mio padre, i Banu Kalb. Arrivavano molte carovane, a volte di più di mille cammelli, trasportando più ricchezze di quante un’intera tribù Bedu avrebbe potuto vedere durante tutta una vita.

    Molti traffici, molta gloria, molto onore. E poi io, l’unica macchia nell’impero di mio padre. Ero condannata alla disgrazia, e una parte di me odiava mio padre per questo.

    Il piccolo Rami si lamentò, in cerca di altro latte. Scostai lo scialle bianco per vedere il suo dolce viso, gli occhi sgranati pieni di innocenza e meraviglia. Il suo appetito cresceva in fretta come i riccioli neri, che non gli avevo mai tagliato dalla nascita.

    Lo spostai a sinistra, aprii la veste e lo lasciai poppare mentre alzavo gli occhi.

    Come schiava di casa cresciuta in una famiglia romana di alto livello, ero stata educata, soprattutto nelle lingue perché i romani hanno sempre appetito per le terre lontane. Quando ebbi il mio primo ciclo parlavo l’arabo, lingua del vasto deserto, l’aramaico, l’idioma commerciale dei nabatei e la lingua più comune in Palestina, il latino parlato dai romani e il greco, la lingua più comune in Egitto.

    Eppure anche le lingue erano amare sul mio palato, perché perfino la mia cultura infastidiva mio padre.

    Osservai l’orizzonte. Solo tre giorni fa le dune sterili appena fuori dall’oasi erano coperte di tende nere. La fiera di Duma aveva attirato migliaia di Kalb, Tayy e Asad, tutte tribù alleate di mio padre. Era stata una settimana di feste e commerci che aveva riempito la pancia dei marcanti e caricato la groppa dei cammelli con tante merci da soddisfarli per i mesi a venire. Ora tutti erano andati via, e Duma era quasi vuota, una città di cammelli randagi che brucavano pigri o sonnecchiavano al sole.

    A sud si estendeva l’inaccessibile deserto Nafud, riservato ai Bedu che volevano sfidare la sorte.

    A un giorno di cavalcata verso est sorgeva Sakakah, roccaforte dei Thamud, da tempo nostri acerrimi nemici. Quegli avvoltoi si tenevano lontani da Duma solo per paura di re Aretas, zio di Nasha, che era alleato di mio padre e aveva un grande esercito. Thamud e Kalb erano entrambe tribù potenti, ma nessuna delle due poteva sperare di governare l’oasi senza l’appoggio di Aretas.

    Eppure l’alleanza tra lui e mio padre si fondava sulla vita di Nasha, la donna che mi aveva offerto salvezza e clemenza.

    La donna che ora stava per morire.

    Ero così assorta in quei pensieri da non notare che Rami aveva smesso di succhiare. Ora respirava tranquillo nel sonno, all’oscuro delle preoccupazioni che mi turbavano.

    Era il momento. Se mi avessero scoperta al capezzale di Nasha, mio padre avrebbe potuto infuriarsi e sostenere che avessi disonorato la moglie entrando nelle sue stanze. Tuttavia non potevo più starle lontana. Dovevo andare finché Rami offriva le sue preghiere al dio della luna Wadd.

    Stringendo mio figlio al petto, scesi in fretta tre rampe di scale ed entrai, scalza, nella mia stanza sul retro del palazzo assicurandomi di non essere vista dai servi. La fortezza era piena di silenzio.

    Lasciai il bambino a dormire sulla stuoia, chiusi la porta senza fare rumore, sollevai la veste con una mano per poter correre liberamente e attraversai in fretta il passaggio inferiore. Salii una rampa di scale, poi scesi nel salone che si apriva sull’ala sud.

    «Maviah?».

    Trattenendo il fiato mi girai per scorgere Falak, la serva ben pasciuta di Nasha, ferma sulla soglia della cucina.

    «Dove corri?», mi chiese seccata, come se perfino una serva mi superasse per rango.

    Mi ripresi in fretta. «Hai visto mio padre?».

    Lei mi guardò sospettosa. «Non ti riguarda affatto dove va tuo padre».

    «Sai quando tornerà?»

    «Cosa te ne importa?». I suoi occhi si posarono sulla mia veste, una semplice tunica di cotone bianco da popolana, non le sete colorate indossate dai nobili del palazzo Marid. «Dov’è il bambino?»

    «Dorme». Lasciai cadere la veste e mi fermai, fingendomi confusa.

    «Solo?», chiese lei seccamente.

    «Volevo chiedere a mio padre il permesso di pregare per Nasha», spiegai.

    «E cosa se ne farebbe delle tue preghiere? Non insultare tuo padre con una simile domanda».

    «Pensavo solo…».

    «Gli dei non danno ascolto alle puttane!».

    Il suo tono era crudele, contrariamente al solito. Credo che avesse paura per il suo futuro se la padrona, Nasha, non si fosse ripresa.

    «Anche una puttana può essere affezionata a Nashquya», dissi con cautela. «E anche Nashquya può voler bene a una puttana. Ma io non sono una puttana, Falak. Sono la madre del nipote di mio padre».

    «Allora torna da tuo figlio, al posto che ti spetta».

    Volevo risponderle, ma non potevo insospettirla oltre.

    Chinai la testa, rispettosa. «Quando vedrai Nashquya, puoi dirle che colei a cui vuole bene offre preghiere per lei?».

    Falak esitò, poi rispose più gentilmente. «Ora è col sacerdote. Glielo dirò. Vai da tuo figlio».

    Dopo scomparve in cucina.

    Mi girai subito e attraversai il corridoio di corsa, dietro l’angolo, oltre la sala delle udienze dove mio padre riceveva i visitatori delle altre tribù, poi giù da un’altra rampa di scale, nella stanza padronale dove Nasha riposava.

    Era con un sacerdote, aveva detto Falak, quindi sgusciai nell’adiacente stanza da bagno e scostai la pesante tenda abbastanza per vedere la camera di Nasha.

    Non ero preparata a quell’immagine. Il letto era posto su un rialzo di pietra a differenza di quelli dei Bedu, che preferivano tappeti e pelli stese a terra. Sulla pietra c’era un materasso di fibre di palma intrecciate, coperto di finissimo lino color porpora. La testata era ornata di cuscini rossi e oro, con frange nere, perché la padrona era nabatea e abituata al lusso.

    Nasha giaceva sui cuscini col viso del colore della cenere, gli occhi socchiusi. Indossava solo una sottile tunica di lino che si incollava alla pelle per via del sudore.

    Un sacerdote del dio della luna Wadd, paludato in una lunga veste bianca a frange blu, era ai piedi del letto. Agitava una grossa mano dalle unghie lunghe sopra un piccolo braciere di ferro pieno di incenso, mormorando preghiere per implorare la clemenza al dio di Duma. Non distoglieva gli occhi, completamente perso nei suoi incantesimi.

    Gli occhi di Nasha si riaprirono e capii che mi aveva notata. Tratteni il fiato in gola perché se il sacerdote mi avesse visto, avrebbe riferito tutto a mio padre.

    Ma Nasha era abbastanza in sé da guardare il sacerdote, alzando debolmente il braccio.

    «Lasciami sola», sussurrò.

    La cantilena si interruppe. Il sacerdote la guardò come se lei gli avesse strappato la veste di dosso. Nasha indicò la porta. «Lasciami».

    «Non capisco». Lui guardò la porta, perplesso. «Io… lo sceicco mi ha chiamato per guarire sua moglie».

    «E sua moglie ti sembra guarita?»

    «Certo che no. Il dio di Duma ha appena sentito le mie preghiere e inizia a svegliarsi dal suo sonno. Non posso assolutamente uscire in sua presenza».

    «Da quanto stai pregando?»

    «Da quando il sole era alto…».

    «Se ci vuole così tanto per svegliare il tuo dio, allora pretendo un altro sacerdote e un dio diverso».

    Forse Al-Uzza, pensai, la dea nabatea che Nasha pregava. Magari Al-Uzza non aveva un sonno profondo come Wadd, tuttavia non ho mai sentito di un dio che ascolti molto i mortali, per quanto essi lo implorino.

    «Lo sceicco mi ha dato un ordine!», protestò il sacerdote.

    «E ora Nashquya, nipote del re Aretas di Nabatea, te ne dà un altro», ansimò lei. «Sei solo con una donna sposata a un altro uomo che ti sta chiedendo di uscire. Torna al tuo tempio e proteggi il tuo onore».

    Il sacerdote impallidì di fronte all’insinuazione. Strinse i denti, la guardò accigliato, sputò dal disgusto e lasciò la stanza a passi lunghi e indignati.

    Appena la porta si chiuse entrai di corsa, temendo che le parole del sacerdote potessero accelerare il ritorno di Rami.

    «Nasha!». Corsi al suo capezzale, cadendo in ginocchio. Le presi la mano per baciarla, sorpresa da quanto la sua pelle scottasse. «Nasha, mi dispiace così tanto… Mi è stato proibito di venire, ma non ho saputo trattenermi».

    «Maviah». Sorrise. «Gli dei hanno ascoltato il mio ultimo desiderio».

    Era la febbre a parlare.

    Presi una ciotola vicino alla parete, intinsi un panno nell’acqua fresca, lo strizzai rapidamente e tornai a inginocchiarmi al capezzale di Nasha.

    Mi guardò con gratitudine mentre le asciugavo il sudore dalla fronte. Bruciava da dentro. La chiamavano febbre nera, ma in realtà molte malattie non erano conosciute.

    «Sei forte, Nasha», le disse. «La febbre passerà».

    «Sono già due giorni…».

    «Potevo prendermi io cura di te!», esclamai. «Perché devo starti lontana?»

    «Maviah, dolce Maviah… Sempre così appassionata e desiderosa di rendersi utile. Se non fossi una schiava, saresti una vera regina».

    «Risparmia le forze», la ammonii. Era l’unica persona con cui potevo parlare liberamente. «Devi dormire. Quand’è stata l’ultima volta che hai preso la polvere del frutto di ghada? Ti hanno dato le erbe di Persia?»

    «Sì… sì, sì. Ma ormai non conta più, Maviah. Mi sta portando via…».

    «Non dire così!».

    «Mi sta portando via e sono in pace con gli dei. Ormai sono una donna anziana…».

    «Come puoi dirlo? Sei ancora giovane!».

    «Ho vent’anni più di te e sono pronta ad affrontare la fine».

    Sorrideva, e mi chiesi se fosse ancora in sé.

    «Rami è andato al tempio di Wadd per offrire il sangue di una capra», disse. «Poi tutti gli dei saranno soddisfatti ed entrerò in pace nell’aldilà. Non temere per me».

    «No, non permetterò agli dei di portarti via così presto. Non posso vivere senza di te!».

    Il suo viso si addolcì alle mie parole, e i suoi occhi cercarono i miei. «Sei la mia unica sorella, Maviah». Non eravamo sorelle di sangue, ma il legame che ci univa era altrettanto forte.

    Poi la preoccupazione le deformò i lineamenti. Una lacrima le spuntò all’angolo dell’occhio. «Non sono una vera donna, Maviah», disse con voce rotta.

    «Non essere sciocca…».

    «Non ho potuto avere figli».

    «Hai Maliku».

    «Maliku è un tiranno!».

    Il figlio della prima moglie di Rami era solo un ragazzino quando Nasha era giunta a Duma per stringere l’alleanza coi nabatei grazie al suo matrimonio. Più vecchio di me di due anni, Maliku avrebbe ereditato l’autorità di nostro padre sui Kalb, ero però certa che Rami non si fidasse di lui.

    «Silenzio», sussurrai, guardando la porta. «Deliri per la febbre!». Eppure anche io disprezzavo Maliku, forse tanto quanto lui disprezzava me. Era un uomo incapace di dare amore, se non quando gli serviva per ottenere potere, possesso o posizioni.

    «Sto morendo, Maviah».

    «Non morirai, Nasha». Mi aggrappai alla sua mano. «Pregherò Al-Uzza. Pregherò Iside».

    In Egitto avevo iniziato a pregare Iside, che i nabatei chiamano Al-Uzza, dato che essi credono che protegga i bambini, gli schiavi e gli oppressi. È la più grande tra gli dei. Eppure sapevo già che perfino lei, che un tempo mi aveva protetta in Egitto, mi aveva voltato le spalle o era diventata sorda. Oppure era solo un’altra invenzione degli uomini per ingannare le donne disonorate.

    «Gli dei mi hanno già ascoltata e hanno portato mia sorella al mio fianco», rispose lei.

    «Basta!», esclamai. «È la febbre. Sei la regina del deserto, moglie dello sceicco che possiede centinaia di migliaia di cammelli e regna su tutti i Kalb di Duma!».

    «Sono debole e divorata dai vermi».

    «Sei la stirpe di Aretas, le cui ricchezze sono l’invidia di Roma e Palestina, Egitto e Arabia. Sei Nashquya, per sempre mia regina!».

    Il viso di Nasha si fece impenetrabile e il suo sguardo grave. Quando finalmente parlò, la sua voce era bassa.

    «No, Maviah. Sei tu che un giorno guiderai questo grande regno per volere dei cieli. È già scritto». La malattia doveva averla fatta impazzire. Il suo atteggiamento mi spaventò.

    «L’ho capito appena sei arrivata da noi», mormorò. «Non esiste donna in tutta l’Arabia con la tua nobiltà, se non le regine del passato. Nessuna bella come te. Nessuna così autorevole».

    Come potevo rispondere al suo delirio? Non poteva sapere che le sue parole erano solo scherno per me, una donna dal sangue disonorato.

    «Devi riposare», riuscii a rispondere.

    Ma lei mi strinse di più il braccio.

    «Porta via tuo figlio, Maviah! Fuggi con lui prima che i nabatei gli fracassino il cranio sulle pietre. Lascia Duma e salva tuo figlio».

    «Mio figlio appartiene a Rami!». Strappai il braccio dalla sua stretta, orripilata. «Il bambino è al sicuro con mio padre!».

    «L’alleanza di tuo padre coi nabatei dipende solo dalla mia vita», ribatté lei. «Io sono sotto la protezione di Rami. Pensi che se morirò il re Aretas se ne laverà le mani? Rami ha offeso gli dei».

    «Quale dio?»

    «Sono forse una degli dei per saperlo? Ma non sarei malata se così non fosse». Era così, si diceva, che gli dei manifestavano il loro scontento. «Aretas dovrà vendicare pubblicamente l’oltraggio per mantenere la sua posizione salda di fronte al popolo».

    «Migliaia di Kalb servono Rami», obiettai, cercando disperatamente di scacciare le sue paure, che erano anche le mie.

    «Solo grazie alla sua alleanza con Aretas», replicò piano. «Se io muoio e Aretas rompe l’alleanza, dovremo temere per Rami».

    Quel poco di onore che potevo avere in questa vita arrivava solo da mio padre, il più grande degli sceicchi, colui che non poteva fallire. Il solo scopo della

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