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Il sommo cardine
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E-book322 pagine4 ore

Il sommo cardine

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Info su questo ebook

Jake Devilish è un giovane professore della Universitì of London, tormentato nell'ultimo periodo da strani sogni. Arkell Blood è un biologo norvegese che ha rilevato dai suoi studi cambiamenti territoriali e climatici. Le loro esistenze preso cambieranno: Jake conoscerà Nora, una misteriosa ragazza, allieva del suo corso di simbologia che gli presenterà un libro misterioso. Arkell, invece, incontrerà Ametiste, la donna Angelo detentrice del potere dell'Equilibrio, e suo fratello Cassian, il Guerriero della Morte e la Rinascita, con il quale da tempo ha un conto insospeso. Le loro vie s'incroceranno nella capitale inglese dove faranno la loro comparsa i Deliberatori, un gruppo di seguaci del male con l'obbiettivo di ottenere il potere dei Lost Angels. Jake ed Arkell affronteranno il loro destino dopo che le loro anime saranno unite in un patto ed insieme alla Triade, un trio di stregoni composto da Nora ed i cugini, Raphael e Lucy. Lotteranno insieme per pendere e ricaricare il Sommo Cardine, il fulcro dei poteri dei Lost Angels. Così facendo dovranno salvare Londra e tutto il resto del Mondo. Ma Cinnamon, il capo dei Deliberatori, sarà pronto a metter loro il bastone tra le ruote. Il secondo volume della saga degli Angeli Perduti, seguito de "Le Croci dell'Anima". Una nuova avventura che emozionerà ed appassionerà i lettori di tutte le età.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2016
ISBN9788868824419
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    Anteprima del libro

    Il sommo cardine - Victoria Crystal

    www.lettereanimate.com

    NOTE D'AUTORE

    Siamo fiere di essere arrivate a tanto. Il secondo volume della nostra serie, la collana degli Angeli Perduti.

    Siamo grate a tutti coloro che ci hanno sostenute, e ancora ringraziamo noi stesse per l'impegno che ci abbiamo messo vicendevolmente, nonostante i momenti di vuoto e scontri.

    Per noi questi racconti sono un vero tesoro, non in senso economico ma perché sono parte di noi, le nostre fantasie diventate concrete e trasformatesi in lettere messe nere su bianco. Grazie a tutti i nostri adorati personaggi e a coloro che ci hanno ispirato nella loro creazione, anche se non sapranno mai di noi.

    Alessandra e Jessica

    PROLOGO

    Era trascorso un quarto di secolo dall'ultima grande battaglia a cui i Lost Angels, le creature che governano l'equilibrio del mondo, avevano partecipato. I loro sette sigilli erano stati riuniti ma il fulcro dei loro poteri, il Sommo Cardine, fu ripristinato nel modo sbagliato.

    Per le sette creature alate e il mondo, questo era motivo di decadimento perché il Sommo Cardine richiedeva un particolare processo di ricarica che era stato erroneamente avviato, causando un conto alla rovescia alla fine del Mondo che sarebbe finito nel caos.

    I Lost Angels vagarono a lungo alla ricerca di ciò che portasse il fulcro di questo potere al massimo, cosicché i sette sigilli tornassero ai loro legittimi proprietari.

    La pace e l'equilibrio sarebbero tornati solo così alla loro origine.

    Lottarono con alcuni individui prescelti per ottenere ciò, ma il Sommo Cardine si stava scaricando del tutto ormai e l'autodistruzione del mistico oggetto avrebbe portato alla distruzione dei Lost Angels e, con loro, del mondo e l'intera umanità.

    Il mistico oggetto pulsava di energia ripristinata a metà, all'interno del Tempio del Sentiero, situato nell'Oltre, la terra degli Angeli Perduti., diventata vulnerabile, e gli Angeli sapevano che il potere oscuro non solo non era stato distrutto, ma si era diffuso ancora di più.

    Nubi di tempesta si stagliavano all'orizzonte e gli Angeli si sarebbero dovuti affrettare per la loro salvezza e quella dell'umanità...

    CAPITOLO UNO

    Jake Devilish allungò una mano e spense la sveglia che da circa mezzo minuto scampanellava insistentemente. Emetteva un suono così fastidioso che, anche volendo, non gli avrebbe permesso di chiudere di nuovo occhio. Le sbavature di un sogno misterioso pulsavano ancora nella sua testa, mentre cercava di ricordarne i particolari. Ma i contorni precisi si rifiutavano di prender forma. Era abituato a svegliarsi sempre alle sette la mattina ma quel giorno si ritrovò a essere più stanco di quando la sera prima si era coricato.

    Restò disteso supino e immobile con gli occhi semi – aperti a fissare il candido soffitto della sua stanza. Fece alcuni respiri profondi per calmare quella stana agitazione che il sogno aveva lasciato dentro il suo animo. Si stiracchiò per distendere i nervi intorpiditi e si mise a sedere, schiudendo le labbra in un lungo sbaglio. Si rese conto di qualcosa di morbido e caldo che, appallottolato in mezzo alle sue gambe, respirava emettendo un delicato ronfo. Guardò sotto le coperte trovando il suo gatto, un grosso certosino dal pelo molto folto, che dormiva beatamente nell'incavo delle sue cosce.

    Jake alzò un sopracciglio e sospirando esclamò: «Bella vita che fai tu, Paco» Prese il gatto sotto le zampe anteriore e lo alzò davanti al suo viso, fissandolo nei due occhi gialli, leggermente socchiusi. Lo scosse piano e il gatto fece un sonoro meow, spalancando molto la bocca e alitando in faccia a Jake che con una smorfia schifata affermò: «Mi sa ti serve una mentina» Rifletté poi, mettendo sul pavimento il gatto. Alitò sulla sua mano e inspirò, assumendo un'espressione ancor più schifata. «Serve pure a me»

    Sistemò subito il letto, che divenne immediatamente proprietà di Paco. Raggiunse il bagno dove si spogliò la maglietta bianca di cotone e i boxer neri e si concedette una bella doccia ristoratrice che lo risvegliò completamente. Lavò i denti e asciugò i capelli con il fon. Alla fine indossò un paio di jeans e una giacca color antracite, con una camicia bianca, un paio di Sneakers in tinta con i vestiti e, per far fronte al clima umido di Londra, si coprì con il lungo cappotto nero e la sciarpa bordeaux. Casual ma con quel tocco di eleganza non esagerato, perfetto per un giovane docente universitario. Prese la valigetta con la documentazione per la lezione della giornata e prima di uscire si diede un'ultima occhiata nello specchio dell'atrio d'ingresso.

    Jake Devilish era un giovane professore universitario che aveva ottenuto la cattedra di scienze della comunicazione e linguista all'età di soli venticinque anni, per via dei suoi ottimi voti. Aveva un buon rapporto con tutti i suoi allievi che lo apprezzavano e lo stimavano e, dal canto suo, oltre alla professionalità che usava nelle ore di lezione, lui cercava sempre di andare d'accordo con loro, instaurando dei rapporti quasi più d'amicizia che da docente a matricola. Ma mentre era molto adorato dalle donne che lavoravano con lui e dalle ragazze che seguivano i suoi corsi, gli uomini e i ragazzi un poco lo invidiavano, gelosi del suo bell'aspetto e del fatto che il gentil sesso lo ammirasse parecchio.

    Aveva solo trentun anni, un aspetto curato e ordinato. I capelli castani ricadevano sulle spalle, sempre ben composti, e incorniciavano il suo giovane viso dalla fronte ampia e la mascella proporzionatamente larga, dove i suoi due occhi leggermente allungati, di una tonalità grigio – castana, spiccavano dando al suo sguardo quel non so che di semplice ma sensuale. Era piuttosto alto, all'incirca un metro e ottanta, un fisico atletico, asciutto con le spalle ampie e i muscoli non esagerati ma sempre attivi e scattanti.

    Lasciò il suo appartamento come sempre puntuale alle otto e si diresse a piedi alla caffetteria sul viale principale di Russell Square dove l'avrebbe rivista. Si sedette al tavolino e, facendo finta di niente, lanciò uno sguardo al bancone dove Faith, sempre sorridente e con quel suo viso dolcissimo, intratteneva i suoi abituali clienti e serviva loro la colazione. Era bellissima con quei suoi ricci ramati e i due grandi occhi di smeraldo, il suo trucco leggero e il vestiario semplice, per nulla appariscente, ma per Jake la creatura più bella di tutta Londra. Avevano confidenza, essendo grandi amici da anni, ma nonostante lui fosse un giovane ardito non trovava il coraggio di confidare a Faith i suoi sentimenti, essendo una persona che faticava molto a metterli in mostra. Inoltre temeva un rifiuto se l'avesse invitata a cena una volta.

    Prese il Times che era posato sulla sedia lì accanto e iniziò a sfogliarlo svogliatamente, soprattutto le pagine riguardanti la politica di cui lui non si interessava affatto. A Jake piaceva la letteratura e le storie antiche, testi riguardanti l'esoterismo e i fatti misteriosi e paranormali, oltre ovviamente ai suoi studi di simbologia, su cui spesso le sue lezioni s'incentravano. Alzò gli occhi quando davanti a lui si piazzò Faith che si piegò in avanti per parlargli a bassa voce. Jake la guardò in volto, cercando di ignorare ciò che la scollatura della sua maglietta mostrava. «Buongiorno Faith» La salutò.

    Lei timidamente e insicura, quasi timorosa a dire quella cosa disse: «Sto organizzando una festa tra amici» Lo informò osservando che nessuno la sentisse «È una festa privata, volevo chiederti se volevi partecipare»

    «Non so se avrò tempo. Sai, le sessioni d'esame m'impegnano molto»

    «Dai, Jake, non farti pregare» Lo supplicò posando le mani su quelle di lui «Sei il mio migliore amico. Mi offendo se non vieni, giuro»

    Jake sbirciò le affusolate mani di Faith sulle sue, calde con la pelle liscia e morbida e quelle unghie laccate di nero, per niente volgari. Tornò a guardarla, con quell'espressione supplichevole da bambina capricciosa, che lui adorava, con il naso all'insù e le labbra protese e piegate verso il basso.

    Oh, quante volte avrebbe voluto baciare la curva rosata di quella bocca.

    «Beh, se la metti così farò di tutto per esserci»

    «Sei un tesoro! Ti farò sapere in questi giorni. Solito caffè al ginseng e croissant alla marmellata per colazione?»

    «Sì, grazie»

    Faith gli sorrise e si allontanò diretta nuovamente al bancone mentre Jake, quasi senza nemmeno rendersene conto, rimase a lungo a contemplare la barista. La festa avrebbe potuto essere un diversivo per riuscire a chiederle finalmente di uscire insieme per una cena da soli. Doveva solo sfoderare il suo ardimento, anche se il sesto senso picchiava insistentemente, quasi volesse avvertirlo di non correre troppo con la fantasia.

    Raggiunse la University of London con la sua solita puntualità alle nove. Entrò nell'aula dove svolgeva spesso le sue lezioni e dove le matricole che seguivano il corso erano più o meno sempre gli stessi volti. Li salutò con un fare confidenziale e severo allo stesso tempo, preparò la sua cattedra e consultò l'elenco degli allievi presenti. Indossò i suoi occhiali da vista e si rivolse ai ragazzi, notando sorrisini e risatine. Abbozzò una falsa espressione da rimprovero e chiese: «Cosa ridete? Mai vista una talpa con gli occhiali?»

    Ci fu una risata generale alla quale Jake rispose con un ampio sorriso poi notò una strana espressione assente, stampata sul volto di una ragazza dai capelli neri che seguiva spesso i suoi corsi. «Ti senti bene, Kym?»

    «Prof, ma lo sa che lei somiglia tanto al Principe Caspian

    Jake sgranò gli occhi ritrovandosi spiazzato davanti a quell'affermazione che aveva scatenato altre risate tra le matricole. Avvampato leggermente tolse gli occhiali e chinò il capo, massaggiandosi la fronte.

    «Quel tipo del film fantasy? Beh, sapete, anche lì c'è simbologia esoterica» Si ricompose e indossò nuovamente gli occhiali, mise apposto il proiettore e diede iniziò alla sua lezione, durante la quale ragazzi e ragazze pendevano sempre dalle sue labbra per la foga di sapere.

    Fu strano che quel giorno, durante la pausa pranzo, Jake non avvertì minimamente il senso di fame che a quell'ora si faceva sentire. Terminate le lezioni del mattino, di nuovo il suo pensiero si focalizzò su quel sogno che aveva occupato il suo sonno per quasi tutta la notte. Ma più ci pensava e meno ricordava. Mai gli era successa una cosa del genere perché solitamente i suoi sogni o non lo sfioravano minimamente o li ricordava tutti benissimo. Quello, come una mano invisibile che non permette ai suoi tratti di rendersi noti, continuava a sfiorare e a solleticare la sua mente.

    «I miei complimenti per la sua lezione, Professor Devilish»

    Si sentì dire all'improvviso, riscuotendosi dai suoi pensieri. Guardò Aaron seduto sul corrimano della scala antincendio dietro la mensa, un ragazzo del suo corso con i lunghi capelli raccolti in un ammasso di rasta. Nonostante l'aspetto era uno dei migliori del college.

    «Lieto che ti sia piaciuta»

    Aaron tolse una sigaretta dal suo pacchetto e l'accese. Jake deglutì e si voltò a guardare altrove, chiudendosi un pugno davanti alla bocca.

    «Sigaretta, professore?»

    «Sto cercando di smettere» Replicò Jake sospirando.

    «Chiedo scusa, l'ho solo vista un po' nervoso e pensieroso»

    «Lo ero in effetti» Anche lui si sedette nello stesso modo del giovane rasta sul corrimano delle scale, dimenticando per un po' la sua compostezza. «Ma niente d'importante, solo preoccupazioni lavorative»

    «Professore, lei crede che tutti i simboli, anche quelli esistenti in natura, siano stati creati da un equilibrio che ci voglia mandare dei messaggi?»

    Jake ridacchiò. «Una visuale un po' generica la tua. Penso che i messaggi sottintesi nei simboli siano quelli prodotti da una mente sviluppata e creativa, quale quella degli esseri umani»

    «Ma lei dice spesso che l'essere umano è stato motivo di rovina per il nostro pianeta. Addirittura che lo stesso progresso ha danneggiato l'equilibrio»

    «Purtroppo la nostra intera esistenza è contraddittoria. Mentre da un lato la nostra creatività ha fatto grandi cose, dall'altra ha fatto solo danni»

    «Penso che nemmeno noi decidiamo il senso della nostra esistenza»

    «Pensi sia un Dio a deciderlo? Sbagli persona a cui parlarne, sono ateo»

    «No, non c'è Dio, ma qualcosa esiste»

    Tacquero mentre il suono della pioggia iniziava a diffondersi nel cortile. Jake sospirò e disse infine: «É ancora valida l'offerta di quella sigaretta?» Aaron sorrise e gliela porse. Rimasero in silenzio a godere del suono silenzioso della pioggia.

    Alla fine della giornata, dopo cena, Jake si ritrovò nel proprio bilocale, arredato in stile modero, dipinto prevalentemente con le tinte del bianco e il nero, a fissare fuori dalla vetrata centrale, reggendo una tazza di tè in mano. Stava riflettendo sul discorso fatto con Aaron, non focalizzando il perché l'ultima frase gli era tanto rimasta impressa. "Qualcosa esiste" Inconsciamente il giovane professore lo sapeva. Ma non voleva ammetterlo.

    Jake aprì gli occhi, ritrovandosi in un luogo che non riconosceva. Tutto attorno era nero e solo un terreno ricoperto di rocce e sassi si delineava perfettamente. C'erano alcuni gradini di pietra e un grande altare, simile a quelli usati per i sacrifici umani del tempo degli Aztechi.

    Jake era disteso su quell'altare... Anzi: era legato!

    Cercò di liberarsi da quelle catene che lo tenevano stretto ma senza successo. Iniziò a respirare affannosamente con il panico che stava crescendo sempre di più dentro di lui. Attorno all'altare, in quel nero così denso, galleggiavano frammenti di vetro azzurro che riflettevano il suo sguardo intimorito.

    Sudava freddo e improvvisamente il timore divenne paura. Iniziò a tremare e a emettere gemiti di terrore. Un frastuono attirò la sua attenzione e, nel momento in cui voltò il capo, assistette a delle scene di caos e distruzione che si susseguivano, come su uno schermo sospeso nel vuoto.

    Fiumi di sangue iniziarono a creare un lago attorno all'altare. Anche se Jake fosse riuscito a liberarsi sarebbe annegato sicuramente. I suoi pensieri erano confusi e pasticciati, frullati in un turbine mentale che ruotava senza sosta. Una fitta alla testa gli fece emettere un grido e gli provocò un dolore tale che istintivamente strattonò le catene ai polsi, infliggendosi delle profonde piaghe nella pelle. Si accorse che accanto all'altare su cui giaceva era comparsa una figura incappucciata di nero, armata di una falce e con grandi ali. Fissò la creatura a occhi sgranati, a bocca aperta. Una voce, forse appartenente alla creatura, pronunciò una frase:

    «Vitium est omnia credere, vitium nihil credere:»

    Jake voltò il capo quando udì uno strano rumore e il lago di sangue si alzò in un'immensa onda che mirò a travolgerlo. Gridò...

    Di colpo si svegliò, ritrovandosi seduto sulla poltrona del suo salotto, con Paco che dormiva appallottolato nel suo grembo. Jake sospirò di sollievo, respirando diverse volte a fondo.

    Un sogno.

    Era stato solo frutto della sua immaginazione, nonostante l'oggetto della sua fantasia fosse stata la Morte. Quella frase latina non l'avrebbe più lasciato facilmente. Quella voce non smise di risuonare nei suoi pensieri per ore mentre continuava a tradurla mentalmente.

    "E' tanto sbagliato credere a tutto, quanto non credere a nulla"

    Arkell Blood era già sveglio da due ore quando guardò il suo orologio da polso che segnava le sei di mattina. Si era fermato appoggiato al tronco di una maestosa quercia su una collinetta a fissare il territorio circostante, dove alla vegetazione si abbracciavano distese di neve e ghiaccio. Sospirò producendo una nuvoletta di condensa e proseguì nella rampicata.

    La neve ghiacciata scricchiolava sotto i suoi scarponi militari. Erano due ore che vagava nella foresta, osservando il territorio e controllando i valori climatici sul suo mini scanner: da alcuni giorni si era reso conto che qualcosa era cambiato nell'ambiente. Cambiamenti che aveva notato avvenire lentamente negli ultimi venticinque anni e, infine, avvenuti nettamente nell'ultima periodo. Inoltre faceva freddo ma non era lo stesso gelo che da quarantadue anni a quella parte aveva conosciuto e negli ultimi vent'anni aveva studiato.

    Raggiunse la cima della collinetta boschiva, trovando dalla parte opposta a dove era giunto una distesa ghiacciata, un lago. Sembrava di guardare una fotografia in bianco e nero: il lago e gli alberi neri, spruzzati da neve, il cielo scuro e il terreno imbiancato e ghiacciato, Un'alce camminava con circospezione sulla riva opposta e un ululato rompeva la quiete a volte.

    Arkell fissò l'aurora boreale che tingeva il cielo: i colori spiccavano più del solito, cosa strana per quella zona della Norvegia, Il buio si stava protendendo troppo nel tempo.

    Scese dalla collinetta, scivolando volontariamente sulla neve, aggirò il lago analizzando le rocce e la consistenza del ghiaccio sull'acqua. Ricordava quel luogo: quando ancora faceva parte dell'esercito gli era capitato di svolgere su quel lago una simulazione di guerra.

    Diventare soldato, però, non era mai stato il suo obbiettivo ma il padre, un sergente dell'aeronautica militare norvegese, lo aveva obbligato a seguire la via dell'esercito. Il suo sogno era sempre stato quello di cantare e per alcuni anni della sua adolescenza si era dedicato allo studio di canto operistico. Arruolatosi in giovane età, però, non gli era restato altro che dedicarsi alla biologia, specializzandosi in geologia e climatologia. Ma non si dimenticò mai, in ogni caso, della sua passione per il canto.

    Lo strato di ghiaccio che analizzò rimandò ai suoi profondi occhi castani il proprio riflesso, leggermente sgranato: dimostrava alcuni anni in meno della sua effettiva età. Era alto un metro e ottantatré circa e gli addestramenti militari gli avevano fatto sviluppare un fisico atletico e robusto. Dopo la naia, durante la quale era stato obbligato a rasarsi, aveva lasciato crescere i capelli medio - corti, neri come il pizzetto che aveva sul mento. Difficilmente vestiva scostandosi dalle tonalità scure del nero, sempre molto sullo stile gothic military, abiti che uniti a quel suo sguardo tenebroso gli davano quel non so che di oscuro che incuteva una punta di timore, per chi lo incontrava la prima volta. Non aveva un viso sottile ma era proporzionato al suo corpo.

    Viveva quasi sempre in solitudine, tra i suoi studi e la foresta dov'era situata la sua casa che ricordava più un rifugio per via dello stile rustico con cui era costruita e arredata. Ma quello stato da eremita, per lui, era un conforto: gli faceva capire il vero senso di libertà che per anni gli era stata negata dalla troppa rigidità e disciplina che, nella sua famiglia, il padre aveva sempre imposto. Da bambino aveva spesso cercato di violare le regole ma ci aveva sempre e solo guadagnato rigide punizioni. La sua solitudine la considerava anche un simbolo di ribellione e la sua libertà l'aveva ottenuta solo quando, dieci anni prima, aveva lasciato Elverum, la sua città natale, dove anche tutt'ora vivevano i suoi genitori con i quali non aveva più contatti per via della delusione data al padre e la depressione che la madre attraversava da trent'anni, dopo la morte del fratello.

    Con un sospiro al ricordo del fratellino alzò gli occhi dal suo riflesso notando al di là del lago una strana luce. Socchiuse entrambi gli occhi e li strofinò «Sapevo che avrei fatto meglio a mettere gli occhiali» Mormorò.

    Quando guardò di nuovo là, dove prima c'era la luce, vide qualcuno e non fu subito certo di quello che guardava: gli sembrò una giovane donna dai lunghi capelli corvini che indossava un mantello grigio perla, con il cappuccio bordato di pelliccia bianca. Gli parve impossibile ciò che osservava e non ci rifletté due volte, per la voglia di sfamare la sua curiosità: correndo si mise ad attraversare il lago ghiacciato, diretto verso quella creatura, per constatare se stesse sognando o davvero c'era qualcuno o qualcosa, il che avrebbe mandato a monte ogni sua conoscenza scettica.

    Ma quando giunse quasi sull'altra sponda posò il piede su uno strato più sottile che cedette sotto il suo peso. Sprofondò con le gambe nell'acqua gelida, emettendo un urlo. Si tenne con le mani sul resto della superficie e strisciò fuori dall'acqua, fermandosi sulla riva seduto in mezzo alla neve, respirando affannosamente e con la sensazione di avere le gambe trafitte da miriadi di spine. Non vide nessuna donna e scosse il capo dandosi dell'idiota da solo. a un tratto voltò il capo, trovando in piedi, accanto a sé, una persona incappucciata di nero che stringeva una falce tra le mani e lo stava fissando. Arkell non ebbe reazione, si limitò solo a ridacchiare e dire: «O sei uno spirito del Grande Inverno oppure sei la Morte»

    «Morte è uno dei tanti nomi che gli umani mi danno»

    Due grandi ali nere, sfumate di viola si spalancarono sulle spalle della persona incappucciata. Senza nemmeno guardare e con il viso freddo rivolto al lago Arkell ringhiò:

    «Mi ricordo di te, ti ho visto quando hai preso mio fratello»

    «Dopo trent'anni ancora mi ricordi? Onorato» Cassian abbassò il cappuccio e fissò in silenzio il corpo incosciente che giaceva nell'acqua gelida fino alla vita. Lo stesso Arkell giaceva lì, in bilico tra la vita e la morte, in fase di assideramento.

    «Non penso tu sia qui per restituirmi mio fratello. E vedendo come è ridotto il mio corpo immagino che il motivo della tua presenza sia io»

    «Non hai paura?»

    Arkell sputò e con un tono fermo ma cinico rispose: «Sinceramente avrei voglia di strapparti quelle belle ali e ficcartele là, dove non batte il sole»

    Cassian rise scoprendo i due canini lunghi e affilati «Cattivone» Asserii.

    «Ma so anche che contro di te non avrei speranze, quindi tanto vale pagare per il mio errore commesso e farla finita... Ora»

    Rimasero zitti per un po', mentre il vento iniziava a fischiare tra gli alberi di conifere e muoveva la neve in piccoli turbini.

    «Hai il cuore da soldato. Sei l'ombra di te stesso. T'incolpi sempre di tutto» Cassian e iniziò a camminare alle spalle di Arkell «Questo è il Destino legato a te»

    «Gran bel Destino di merda» Sbottò Arkell alzandosi in piedi e fulminando Cassian «Ho perso un fratello, mia moglie mi ha tradito, non ho realizzato nessuno dei miei sogni. Hai altre minchiate in serbo per me, Cassian?»

    L'Angelo rimase impassibile davanti a quello sguardo così inquietante ma con quei due occhi che si erano arrossati all'improvviso. Tratteneva le lacrime e un nodo in gola che Arkell avrebbe voluto far esplodere in un urlo di rabbia e dolore.

    «In certe cose voi mortali siete gli artefici del vostro Destino» Dalla falce uscì lentamente una fumo violaceo che assunse la forma di una mano femminile con lunghi artigli «Ancora il tuo nome non è iscritto nell'oscuro libro del Fato, ma se lo desideri ti accontento. Vuoi la Morte? L'avrai» La mano di fumo luminoso entrò dalla schiena del corpo, ancora morente sul ghiaccio. Arkell, che fino a quel momento stava di fronte all'Angelo a fissarlo, emise un grido strozzato sentendo quella mano dentro il petto che gli stringeva il cuore e lo stava estraendo a lui. Si piegò in avanti e lentamente iniziò a scendere in ginocchio nella neve, incapace di reagire a quel lancinante dolore che sentiva.

    L'Angelo ghignava mentre guardava l'uomo che sopportava quel calvario che lui stava prolungando nel tempo apposta per farlo patire di più. Ma all'improvviso la voce di una donna risuonò in quella valletta gridando:

    «CASSIAN! BASTA ORA!»

    Con un sospiro e alzando gli occhi al cielo Cassian ritrasse la mano luminosa dal corpo morente. Arkell emise un gemito nel momento in cui la mano uscì e con respiro pesante rivolse gli occhi verso il lago dove, sospesa a pochi centimetri dall'acqua ghiacciata, rivide quella donna dai capelli corvini con il mantello color perla.

    «Oddio... Una fata

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