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Lo specchio e il cane
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E-book288 pagine4 ore

Lo specchio e il cane

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Info su questo ebook

Sono molte e drammatiche le vicende che il destino mette sulla strada di Vera, la protagonista del romanzo “Lo specchio e il cane” : un matrimonio finito male, il sospetto di avere subito molestie dal padre, tradimenti e molto altro… Ma c'è un motivo che percorre tutto il romanzo e ne costituisce il trait d’union: la ricerca vana della bellezza. Costretta a un controllo quasi ossessivo del suo aspetto, Vera cerca invano di liberarsi dalla propria dipendenza dall’immagine esteriore. Venerdì, un bastardino trovatello, intreccia le proprie alle complesse vicissitudini della padrona. È lui, col suo amore senza calcolo e di certo non legato alle apparenze, a rappresentare la condizione dell’innocenza e della naturalezza che Vera va inutilmente cercando in se stessa e negli uomini.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2014
ISBN9788868858025
Lo specchio e il cane

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    Anteprima del libro

    Lo specchio e il cane - Lucia Giolo

    Giolo

    II EDIZIONE RIVEDUTA E CORRETTA

            Romanzo

    FAVORISCE LA CONOSCENZA E LA PASSIONE

      Lucia Giolo                     

    Lo specchio

    e  il cane

    II Edizione riveduta e corretta

    Vanitas Vanitatum et Omnia Vanitas

        INTRODUZIONE

    Si tratta di un romanzo di educazione alla vita e all'amore, talvolta doloroso e malinconico benché anche aperto alla speranza.

    C'è una sincerità di fondo, una volontà di descrivere il reale e la quotidianità che avvicina questo romanzo a certi autori minimalisti.

    La storia non  dice infatti nulla che ciascuno di noi non abbia, se non vissuto personalmente, comunque incontrato nel corso della vita. I suoi personaggi, non a caso, sono tutte persone comuni, con vite comuni e lavori banali, così banali da poter essere lasciati pressoché fuori scena, poiché la vita è altrove.

    Il tema centrale della narrazione riguarda il rapporto conflittuale delle donne con il proprio corpo, al quale chiedono in primo luogo la bellezza. È un tema senza tempo, poiché fa parte da sempre del desiderio-obbligo femminile di corrispondere a canoni imposti dall'esterno.

    Anche Vera, una giovane donna che vive nel contesto sociale un po' soffocante di una città di provincia, cerca un difficile equilibrio tra il sé e il corpo, del quale controlla quasi ossessivamente l'aspetto per trovare conferme alla propria capacità di seduzione.

    Vera può sembrare superficiale a causa di questo cruccio. In realtà il suo obiettivo è quello di raggiungere, pur attraverso la strada tortuosa ed ambivalente dell’immagine, un amore autentico come quello che il suo cane dimostra di avere per lei.

    Tutto il romanzo è percorso dal suo tentativo, spesso doloroso e segnato da conquiste ricadute, di liberarsi da questa dipendenza: come a dire che è molto difficile sottrarsi alla seduzione dell’immagine per arrivare all’accettazione di sé e con ciò alla conquista della propria libertà interiore.

    Attraverso le sue vicende si tocca una serie di questioni sensibili o di nervi scoperti che da sempre costituiscono contraddizioni e problemi mai risolti dell'anima.

    Oltre alla ricerca della bellezza, si affrontano difatti i temi della solitudine e della comunicazione tra maschile e femminile, del bisogno profondo di amare e di essere amati spesso disilluso, del rapporto così equivoco fra sesso e amore, delle relazioni parentali sempre insolute.

    A raccontare ciò, episodi particolarmente duri, dal forte carico emotivo: un matrimonio finito male, il sospetto di essere stata oggetto di molestie da bambina, i tradimenti subiti da parte di uomini amati, l’esperienza  drammatica dello stupro …

    Si tratta di materiale impegnativo che però viene affrontato con grande delicatezza, quasi con pudore, senza nondimeno mai perdere il proprio crudo realismo.

    In tutto questo si inserisce la storia di un cane, un bastardino trovatello, chiamato ad essere protagonista non secondario né marginale del romanzo.

    Infatti per tutto il racconto si snoda, facendo corpo unico con le vicende di Vera, la storia del piccolo Venerdì.

    E’ lui  il suo principale interlocutore, lui che  la fa costantemente riflettere sui limiti del proprio comportamento.

    Esso rappresenta insieme la condizione della perfetta innocenza e dell’amore fedele e senza ricompensa che Vera cerca, senza trovarlo, negli uomini..

    C’è qualcosa di commovente e di magico nel rapporto tra Vera e il suo cane, e insieme di profondamente educativo.

    Questo aspetto non sfugge a chi conosce appena la natura dell’amore di cui sono capaci di animali: essi delle persone colgono l’essenza e solo a questa si rapportano, scavalcando tutti quegli ostacoli che l’asservimento all’immagine impone invece gli uomini.

    1

    Erano appena le due di un torrido pomeriggio estivo. Vera se ne stava sdraiata sul divano cercando di riposare un po’ dopo il lavoro. Ma era come se avesse la febbre. Il sudore le colava giù dal mento fin sotto la gola. Scostò la maglietta dal corpo e si soffiò più volte sul petto, ma senza sentire refrigerio.

    Allora si alzò e andò verso la finestra.

    Il condominio in cui abitava era uno di quei caseggiati costruiti negli anni cinquanta con criteri popolari. Rivelava la sua età dall’intonaco ormai quasi tutto scrostato e dalle macchie di umidità che scurivano i muri. Nel cortile lastricato che circondava il palazzo erano stati piantati da poco alcuni alberi. Il verde delle loro chiome, seppure rade, le dava sempre un senso di frescura e di pace.

    Guardò fuori, sporgendosi con il busto dal davanzale e tendendo le orecchie. Voleva sentire se almeno frusciassero un poco le fronde, ma l’aria calda e pesante illanguidiva e stremava le foglie immobili. Pareva che il mondo stesso si fosse fermato, trattenendo il respiro, in attesa che il sole finalmente tramontasse.

    Proprio quel pomeriggio, doveva accompagnare i genitori all’ospedale per una visita.

    Avrebbe mentito dicendo che era contenta di rivederli, anche se era passato parecchio tempo dall’ultimo incontro.

    Sospirò e tornò a sdraiarsi, le mani intrecciate dietro il capo, gli occhi chiusi. Sentì il sonno arrivare da lontano e appesantirle le palpebre, ma subito si riscosse: quell’impegno improrogabile la richiamava al suo dovere.

    Si mise a sedere e, battendo la mano sul divano, invitò il suo bastardino nero, accucciato sul pavimento, a venirle accanto.

    Venerdì, Venerdì vieni qui!

    Ma questi fece orecchio da mercante, col muso affilato ben premuto tra le zampe. La coda però si muoveva da sola, animata da propria e incontenibile energia; la stessa che si rifletteva negli occhi di un marrone scuro screziato d’oro.

    Di nuovo batté la mano.

    Lui allora con un rapido balzo le fu accanto e poi le si distese in grembo.

    Nonostante il caldo, Vera non lo scostò da sé ma prese ad accarezzarlo, pettinandogli con le dita i neri peli ispidi. Poi gli sollevò la testa, sostenendogli il muso col palmo della mano.

    Negli occhi della bestiola scorse una dolcezza e una devozione così grandi che si sentì confortata.

    E va bene, sospirò. adesso cominciamo le manovre prima di uscire. Sai che ci metterò un po’, ma se tutti mi guardassero come te non avrei certo bisogno di tanti preparativi.

    Si spogliò degli abiti che aveva indossato quel giorno, umidi di sudore e strapazzati. Li gettò per terra sul pavimento poi, con un piede, li cacciò in un angolo. Aprì l’armadio per scegliere cosa mettere. Si decise per un vestito grigio di lino leggero, piuttosto corto e stretto in vita, così da sottolineare la sua figura.

    Volle provarlo, per essere più sicura.

    Dovette lottare con la stoffa che non voleva scendere: la pelle umida le impediva di scivolare agevolmente. Rimase per un po’ a contorcersi e a soffiare finché non riuscì nell’impresa. Quando si guardò allo specchio tutta rossa per lo sforzo e scarmigliata, pensò di sé che era tutto fuorché avvenente e strinse le labbra corrucciata. Però il vestito era bello. Lo tirò più giù sui fianchi rotondi, dove la stoffa era più tesa.

    Venerdì, che l’aveva seguita in camera da letto e osservata durante tutti i suoi armeggi, quando lo guardò, come a chiedergli il suo parere, scosse vigorosamente la coda e sollevò le orecchie: era chiaro che l’apprezzava in modo incondizionato.

    Di fronte a tanta adorazione, ogni volta Vera rimaneva meravigliata, come se non se la potesse proprio meritare. Si chiedeva per quale strano miracolo dell’amore quella creatura riuscisse a vederla sempre bella.

    Lo prese in braccio e se lo strinse al petto. Si divertì a mordicchiarlo dentro l’incavo del collo, poi lo tenne in alto davanti a sé prima di dargli un ultimo bacio e di rimetterlo a terra.

    Devo rinfrescarmi, gli disse, anche se scommetto che sarà un sollievo di breve durata!

    Si spogliò nuovamente. Raccolse i lunghi capelli neri in una crocchia dietro il capo, li coprì con una cuffia da bagno ed entrò sotto la doccia. Lì si mise a canticchiare, mentre il pensiero inseguiva fantasie che avevano in comune sempre la stessa cosa: l’amore.

    Era così ogni volta che si trovava a tu per tu con il corpo nudo sotto la doccia, mentre faceva scivolare le mani lungo i fianchi, sulle gambe e sul piccolo seno.

    Continuava ad accarezzarsi, gingillandosi con la spugna dalla quale fiocchi di schiuma bianca e profumata scendevano giù in rivoli lattiginosi. Sotto le sue dita la pelle era morbida e fresca. Chiuse gli occhi, mentre le note della canzone le si smorzavano a poco a poco sulle labbra.

    Con i sensi vigili e allertati, ne percorse ogni piega, ogni rotondità e linea, più corta o più lunga, dura o sinuosa. Andava in realtà immaginando che le mani non fossero le sue ma quelle di qualcun altro, mani che cercavano attraverso di esso uno spiraglio per arrivare fino alla sua anima prigioniera e liberarla.

    Avvicinò il getto dell’acqua alle cosce, perché voleva risentire meglio quel brivido caldo di eccitazione che le stava serpeggiando dentro.

    In quel momento squillò il telefono.

    Uscì precipitosamente dalla doccia, si infilò l’accappatoio e, inciampando nelle scarpe che aveva abbandonato in mezzo al pavimento, corse a rispondere.

    Vera, cara, siamo già qui. Siamo arrivati un po’ in anticipo, ti potresti sbrigare per favore e venirci a fare un po’ di compagnia?

    La voce stridula della madre le suonò fastidiosa, tanto che non nascose la sua irritazione.

    Insomma, mamma, stavo facendo la doccia! Comunque tra poco sarò lì. Sì, ci vediamo come d’accordo nell’atrio dell’ospedale.

    Cominciò a vestirsi con cura e a truccarsi scrupolosamente, anche se, ad essere sinceri, questo le procurava più sofferenza che piacere.

    Ma davanti allo specchio la assaliva sempre una incoercibile voglia di diventare più graziosa, per godere, pensava, dei privilegi riservati a chi aveva avuto la bellezza in dono dalla natura.

    Così impiegava un sacco di tempo a cercare di mascherare i suoi difetti e a sognare di essere diversa, per esempio con i capelli lisci e setosi, le cosce più asciutte e senza quelle rughe sottili che avevano cominciato a fare la loro comparsa attorno agli occhi.

    E un giorno, quando avesse avuto i soldi, avrebbe potuto rifarsi il naso e magari il seno…

    Ma tieni piedi per terra! si disse a voce alta, facendo delle smorfie alla propria immagine. Tu sei così e devi accettarti per quella che sei...

    Se lo andava ripetendo, mentre continuava con la fronte corrugata le ultime manovre. Ma le era impossibile trattenersi e vincere la frenesia che le bruciava dentro.

    Venerdì, accovacciato in un angolo con il muso appoggiato sulle zampe, seguiva i suoi movimenti solo con gli occhi. Era così buffo, con quel ciuffo in piedi sulla testa e lo sguardo da spettatore curioso che rivede sempre lo stesso film senza stancarsi mai!

    Vera gli sorrise e uscì di casa.

    L’ospedale era piuttosto lontano e dovette sbrigarsi, perché le dispiaceva fare aspettare troppo i due vecchi.

    Dopo aver parcheggiato la macchina, si inoltrò per uno dei viali che costeggiavano i vari comprensori. Scivolò con lo sguardo sopra i cespugli mezzi rinsecchiti dal calore e dalla polvere, e sulle panchine scrostate e deserte.

    C’era un gran trambusto a mano a mano che si avvicinava all’ingresso del poliambulatorio. Tra la gente che andava e veniva, qualcuno era vistosamente sofferente.

    Anche suo padre stava male, lo sapeva da un po’.

    La consapevolezza di non provare per lui una reale compassione continuava a disturbarla. Le pareva strano sentire il suo cuore così refrattario alla pietà, quando era ritenuta da tutti una persona sensibile e tenera.

    L’unica cosa che desiderava veramente era fuggire da lì ma non poteva sottrarsi al suo dovere.

    Allora si stampò sulle labbra un mezzo sorriso e quando vide tra la folla davanti all’ingresso principale, uno vicino all’altro, i suoi genitori, allungò il passo.

    Amelia, la madre, avanzava con la sua camminata pesante.

    Bassa di statura e corpulenta, il volto rugoso perennemente corrucciato, stava appoggiata al braccio del marito come se fosse lui, traballante com’era sulle gambe malferme, a doverla sostenere a forza di braccia.

    La sua voce querula la investì:

    Ehi ciao Vera! È da un pezzo che ti stiamo aspettando! Sai, io e il papà abbiamo preferito prendere la corriera un’ora prima, per essere qui in anticipo e poter stare un po’ con te...

    Buona idea, avete fatto bene! Vera la interruppe e arrossì: provava per le menzogne una tale avversità da sentirsi male ogni volta che ne diceva una.

    Suo padre stava come al solito in silenzio. Sul viso affilato e dai tratti gentili, la bocca avvizzita aveva una piega di straordinaria malinconia.

    Ehi, ciao papà, come stai?

    Non c’è male. Siamo qui, da poveri vecchi... rispose lui, incurvando la schiena e allargando le braccia.

    Poi sollevò gli occhi. Le sue pupille, dai contorni resi un po’ sfocati dagli anni, non riuscivano a riflettere nemmeno la forte luce delle lampade al neon, incastrate sul soffitto del vasto corridoio d’ingresso. Vera ebbe la sensazione di sporgersi sopra un pozzo in una notte senza luna. Capì che era divorato da una malinconia senza scampo, di quelle che ti fanno sembrare morto quando sei ancora vivo.

    Coraggio, papà! gli fece allora, posandogli una mano sulla spalla. Sono qui io adesso. Cerchiamo l’ambulatorio della tua visita e un posto dove sederci.

    Si avviarono. La madre la prese sottobraccio e, appoggiandosi pesantemente, cominciò a raccontarle quello che aveva fatto nelle ultime settimane, mentre il padre le seguiva, due passi indietro.

    Ma Vera già non l’ascoltava più, sentendo prorompere dall’oscurità della propria anima una preoccupazione frivola ma prepotente: doveva assolutamente controllare il proprio aspetto per capire se poteva suscitare una gradevole impressione.

    Così camminava cercando una vetrata, su cui potersi specchiare per levarsi quel capriccio. La trovò alla fine del corridoio: una grande porta a vetri aperta che riceveva luce direttamente da una finestra adiacente.

    Ciò che vide le piacque: una giovane donna dai lunghi capelli neri e dal viso tutto sommato interessante, che indossava un vestito di buon taglio.

    Accanto a lei, la madre non si era accorta di nulla e continuava il suo monologo senza fine. Nemmeno il padre aveva visto qualcosa, perso com’era nei suoi pensieri.

    Trovate le sedie, si sedettero in attesa.

    Signor Ferro Antonio!

    Quel nome, strillato in mezzo alla piccola sala d’aspetto, la fece sussultare.

    Si alzarono tutti e tre ma Vera, rivolta alla madre, Mamma tu resti fuori! le ingiunse.

    Seduto alla scrivania, sopra la quale stavano in pittoresco disordine libri, ricette, farmaci ed anche una gazzetta dello sport, c’era il dottore.

    Quando entrarono, non alzò nemmeno lo sguardo da un foglio sul quale stava scrivendo. Diede così a Vera il tempo di osservarlo: un’occhiata veloce ma attenta ai particolari.

    Era sulla quarantina, i capelli biondi lasciati crescere fino quasi alle spalle, i lineamenti mascolini ai quali un mento particolarmente sporgente conferiva un’attraente aria volitiva.

    Mentre scriveva, con gli occhiali sulla punta del naso, aveva un’espressione bonaria ma, quando le piantò in faccia gli occhi azzurro chiaro, anche una certa maschile insolenza.

    Vera abbassò subito le palpebre.

    Bene, cosa abbiamo qui? chiese finalmente.

    Il vecchio guardò la figlia.

    Toccò a lei spiegare i sintomi e il motivo per cui era stato inviato ad una visita specialistica.

    Mentre parlava, il dottore scorreva velocemente le carte che l’uomo aveva portato con sé. Infine domandò: Antonio, e tu cosa dici?

    Questi, che era sempre rimasto seduto in silenzio, cercò di alzarsi in piedi ma poi si lasciò andare nuovamente sulla sedia e rimase lì, attonito, a guardarsi il dorso delle mani, dalle unghie ingiallite di nicotina.

    Mi scusi, dottore, mormorò, riprendendosi. mi sento mortalmente stanco e poi ho sempre male qui. Indicò pressappoco la zona sotto lo stomaco.

    Bene, ora ti visito, accomodati qua, Antonio.

    Il padre adesso voleva spiegare. Chissà quanto aveva aspettato quel momento per dire la sua! Ma il medico lo zittiva: quel suo borbottare a denti stretti disturbava la sua concentrazione.

    Imbavagliato e tornato invisibile, al pover’uomo non restava altro che mordersi le labbra, mentre gli veniva palpato l’addome.

    Ahi, ahi… ogni tanto si lamentava sotto la pressione di quelle dita. Ma l’altro non si faceva impressionare e continuava imperterrito i suoi palpeggiamenti.

    Conclusa la visita, lo congedò: Tu puoi pure andare, Antonio. Invece preferisco che tua figlia rimanga qui qualche minuto, per fare il punto della situazione. Con te ci vediamo il mese prossimo!

    Il padre fissò Vera inquieto. Aveva un’aria interrogativa e supplichevole, come se dovesse difenderlo, intercedere per lui, farlo rimanere.

    Ma lei lo accompagnò decisa alla porta, mormorandogli: Non preoccuparti, papà, dopo ti racconto tutto!

    Vera aveva capito subito, con una punta di vanità, che aveva fatto in modo di restare da solo con lei nell’ambulatorio.

    Il medico aveva incrociato le braccia e continuava a perlustrarla, stando seduto sulla scrivania come su un trono. Che fosse bello era fuor di dubbio e quel camice bianco sembrava da solo moltiplicare il suo fascino!

    Questa volta Vera sostenne il suo sguardo un po’ più a lungo, prima di riabbassare gli occhi. Il sudore le scivolava dietro la schiena e le inumidiva perfino il palmo delle mani.

    Lui si alzò in piedi e le si avvicinò, con un sorriso che gli scoprì i denti bianchi e regolari. Le venne così vicino che Vera riuscì a sentire il suo profumo, un aroma di menta e di tabacco che le piacque immediatamente.

    Le mani infilate dentro le tasche del camice aperto, cominciò a parlare della situazione del padre, ma più da uomo navigato che da uomo di scienza.

    Vera lo ascoltava compunta, con la faccia arrossata e gli occhi che brillavano.

    Di sicuro una cosa era chiara: nonostante sembrassero entrambi straordinariamente interessati a quella conversazione sul padre, non era tanto importante quello che si dicevano quanto gli sguardi, gli atteggiamenti, lo stesso tono della voce.

    Dentro di sé, non poteva negarlo, Vera si sentiva come un pesce che, allettato e insieme intimorito, gira intorno a un amo luccicante.

    Qualcosa nella sua mente le diceva di non abbandonarsi con tanta facilità, ma mentre costui le teneva gli occhi negli occhi, come non sentirsi inorgoglita? Sì, c’era forse troppa sicurezza nel suo atteggiamento, perfino una certa spavalderia, tuttavia in quel momento le sembrarono dettagli trascurabili.

    Quest’uomo mi sta corteggiando… pensava compiaciuta, dimenticando ogni altra considerazione.

    Mentre lui continuava a parlare, lei andava passandosi le dita tra i capelli per scostarli dalla fronte e aveva cura di sedere con la schiena bella dritta.

    Tornato dietro la scrivania, il medicosi tolse gli occhiali e li posò sul ripiano.

    Senza lenti sembrava anche più giovane.

    Non mi ha ancora detto come si chiama, signorina…?le domandò sorridendo amabile.

    Vera. E grazie per il signorina. Non sono poi così giovane! Abbassò gli occhi. E inoltre…

    Lo sembra. la interruppe. Non crede che questo sia uno dei casi in cui conta di più ciò che sembra?

    D’accordo, lo prendo come un complimento!

    Non è un complimento, è la pura verità.

    Sono sicura che è un intenditore, in questo campo… Vera gli lanciò un'occhiata allusiva.

    L'uomo scosse la testa compiaciuto. Vorrei esserlo, davvero, ma forse mi sta sopravvalutando.

    Lei rise.

    Quante volte erano state pronunciate frasi come queste, dalla sconcertante banalità ! Ma Vera le sentiva in quel momento come un rituale magico, una forma di universale liturgia propiziatoria.

    Arrivò il momento di congedarsi.

    Si dettero la mano, una stretta decisa.

    Sulla soglia lei indugiò un attimo titubante, il braccio proteso verso la maniglia, un’ombra di delusione in faccia. Già aveva socchiuso la porta, quando il medico la richiamò: Vera, tra una settimana si terrà una conferenza qui, nella sala congressi. Farò anch’io una breve relazione e tratterò in parte anche i problemi dell’apparato digerente. Le andrebbe di venire? Giovedì prossimo verso le quattro.

    Oh, ne sarei lusingata. Allora arrivederci e grazie!

    Uscì dall’ambulatorio eccitata, la testa in fiamme.

    Trovò i suoi che l’aspettavano seduti. Avevano entrambi gli occhi carichi di angosciosi interrogativi.

    Certo che ce ne hai messo di tempo! la rimproverò la madre.. Ma Vera non le badò nemmeno e si rivolse al padre.

    Non è niente, papà, non mi ha detto niente di così grave. Mi ha solo spiegato i tuoi sintomi e insistito che devi cercare di stare sereno e tranquillo. Aveva assunto un tono di grande sicurezza e persuasione.

    Il vecchio la guardò, sul volto una sorta di fidente riconoscenza. Le mise una mano sul braccio, stringendolo leggermente, come silenzioso ringraziamento.

    Vera ebbe un sussulto e si ritrasse. Non sarebbe riuscita, nemmeno volendo, a spiegargli in quale ambiguità si stava dibattendo. Sentiva però di averlo tradito.

    Dai, su, vi accompagno a casa così non dovete prendere la corriera. propose allora, tentando così di sdebitarsi.

    Quando uscirono, il caldo era diventato ancora più insopportabile.

    Anche se era estate, il cielo aveva un colore biancastro, come in certi giorni invernali. Dall’asfalto onde intermittenti di calore li avvolgevano.

    Nessuno parlava, nemmeno la madre, che si era appesa al suo braccio così pesantemente che dopo un po’ lo sentì tutto indolenzito.

    In altri casi si sarebbe spazientita e l’avrebbe allontanata, ma in quel momento non vi badò più di tanto. Era come sospesa in un’aria rarefatta, colma di aspettative tanto più seducenti quanto più erano vaghe.

    Prima di avviarsi verso il paese dei suoi genitori, passò a

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