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Jack e Rebecca
Jack e Rebecca
Jack e Rebecca
E-book194 pagine2 ore

Jack e Rebecca

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Info su questo ebook

Jack è un ragazzo di Roma, Rebecca di New York.
Il destino li farà incontrare, il loro amore scoppierà nello stesso istante in cui i loro occhi s’incroceranno la prima volta.
Hanno un passato difficile alle spalle, il loro amore sarà sottoposto a prove enormi. Riusciranno a superarle e stare insieme oppure sarà più forte il fardello del loro passato?
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita18 giu 2020
ISBN9788833665726
Jack e Rebecca

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    Anteprima del libro

    Jack e Rebecca - Demetrio Verbaro

    collana

    Prologo

    Il primo incontro

    Il viaggio di Rebecca

    Stelle cadenti graffiarono di fuoco la notte, lacerando il cielo come pugnali grondanti sangue caldo. La luna cominciò a lamentarsi dello scempio di quelle sue figlie ribelli, ma esse continuarono a rigare la notte, incuranti dei rimproveri. Come rivoluzionari in preda al furore dei valori, come adolescenti in balia dell’eccitazione degli ormoni, fecero regnare il caos e il disordine. La notte cominciò a ribollire di vita e di coraggio e di passione e di colore e di luce. L’intero firmamento ardeva come un vortice di fuochi d’artificio. Tranne la luna che, pallida di vergogna, brillò sempre più fiocamente nel buio, nascondendosi dietro ogni nube che contenesse il suo profilo rotondo, fino a scomparire del tutto.

    Erano gli ultimi giorni di ottobre del 2019, l’autunno aveva messo già da un po’ le sue caduche radici sopra la città di Blackwater nello stato dell’Arizona.

    Rebecca non aveva mai assistito a un simile spettacolo in questo periodo dell’anno, il cielo le sembrò un quadro di Kandinsky. Lo interpretò come un segno negativo. Ebbe la tentazione di tornare indietro, le mani sul volante avevano appena iniziato a fare inversione, poi la ragazza si alzò la manica del maglioncino nero e guardò quello che si era scritta con una penna blu sull’avambraccio: LIBERA DAL PASSATO.

    Sapeva che avrebbe sentito l’irresistibile tentazione di tornare indietro, le succedeva sempre ogni volta che superava quella precisa curva di notte. Quella curva era il confine di Blackwater oltre il quale non era mai andata. Se provava a superarla veniva colta da violenti attacchi di panico. La gola si serrava in una morsa, la lingua si seccava come se fosse nel deserto, i bronchi si chiudevano all’improvviso, pesanti come macigni, e respirare diventava maledettamente difficile.

    I dottori le avevano detto che non era reale, era solo una sensazione, una forte ansia, che bastava controllare la mente e stare calmi. Dopo qualche tempo arrivarono a deriderla, a non prenderla in considerazione e a trattarla come una malata immaginaria. Tutti tranne Paul e Richard; era stata fortunata a incontrare due medici speciali come loro, ma per quanto riguardava gli altri imbecilli stretti in un camice bianco non aveva alcuna stima. Loro non sapevano cosa significava soffocare. Lei invece lo sapeva bene. L’aveva sperimentato in prima persona tanti anni fa.

    Scrollò la testa e si rifiutò di pensare ancora a quello che le era accaduto quando era solo una bambina di sei anni, e si concentrò su quelle tre parole che si era scritta quella mattina: LIBERA DAL PASSATO. Per dare ancora più forza alla frase aveva preso la forbicina che usava per la manicure e con la punta aveva inciso i contorni di quelle lettere. Aveva osservato il sangue colorare la sua pelle bianca e scivolare sul pavimento come gocce di una piccola cascata.

    Le mani riposizionarono il volante in linea retta e l’auto proseguì la corsa.

    Il suo respiro si fece ancora più corto, la testa cominciò a girarle e il battito del cuore aumentò. Erano sensazioni che ormai conosceva bene, sue fedeli compagne da sempre, amiche nemiche, confidenti e nemesi di tutta una vita, tanto che a volte era convinta che se anche un giorno sarebbero definitivamente sparite, le sarebbero mancate, una sindrome di Stoccolma contro quelle paure che le avevano rovinato l’esistenza.

    Mise la mano nella tasca del giaccone e tastò l’inalatore di Ventolin, l’afferrò e fece per portarselo alla bocca, ma si bloccò all’improvviso. Aprì il finestrino, un vento freddo investì il suo viso con cattiveria. Strinse quel concentrato di cortisone e con un gesto deciso lo scagliò il più lontano possibile, facendolo rotolare dalla collina.

    Non usciva mai senza Ventolin, a casa ne aveva una scorta nel cassetto dei medicinali e per sicurezza ne aveva uno in ogni borsa. Lo usava solo nei casi d’emergenza, quando l’attacco di panico le serrava i polmoni e sembrava che l’aria dovesse passare da un buco grande quanto la cruna di un ago. Bastava inalare due spruzzate di quel salvavita e subito si sentiva meglio. Per la prima volta da molti anni era senza Ventolin. Non si era mai sentita così felice come in quel momento, una vera e propria ondata di estasi la travolse.

    Libera dal passato, pensò cercando di farsi forza e di riprendere il controllo di sé. Almeno per stanotte sarò libera dal passato, si ripeté colorando di volontà lo stesso concetto, e infine, esausta, si disse: tornerò indietro solo quando tutto sarà finito, l’unico modo per tornare indietro prima del tempo sarà dentro una bara.

    Cercò di stare sulla propria parte di carreggiata, ma non fu facile, si sentiva la testa leggera come una nuvola e il senso dell’equilibrio cominciava a venirle meno. Accese il lettore cd della radio mettendo la traccia numero tre. Le note degli Evanescence risuonavano a tutto volume, le parole gridate da Amy Lee le penetrarono la mente.

    Oscurando e mescolando la verità e le bugie, così non so cosa è vero e cosa no, confondendo sempre i miei pensieri, così non posso avere fiducia ancora in me stessa, io sto morendo ancora.

    Quelle parole, quella musica, la caricarono della forza necessaria per proseguire. Premette l’acceleratore tanto da far toccare alla sua vecchia Jeep Renegade le 110 miglia orarie. Abbassò il finestrino e urlò a squarciagola, premendo energicamente sul clacson, festeggiando il niente che per lei era tutto.

    Guidava da un paio d’ore, alternando fasi di gioia estrema a momenti di paura, come quando non vedeva i fari di altre macchine o le luci delle finestre nelle case. Aveva allungato il percorso ma almeno non aveva affrontato l’autostrada, era davvero troppo per lei e in fondo qualche concessione alle sue paure doveva pur farla. Non poteva affrontarle tutte a mani nude. Se si fosse sentita male in autostrada non si sarebbe potuta fermare visto che era circondata da guardrail, mentre in queste stradine di campagna poteva accostarsi in qualsiasi momento, aspettare di riprendersi e poi ripartire.

    Quando vide l’insegna al neon del Sunset Inn lampeggiare in lontananza un pensiero le passò per la testa: fermati! Riposati! Prima di partire si era ripromessa di guidare per tutta la notte, ma era molto stanca e si sentiva le palpebre pesanti. Decise di dare ascolto alla prudenza, inserì la freccia e parcheggiò.

    Le stanze del motel erano dislocate su due piani e si affacciavano su una grande piscina con delle sedie sdraio che si adagiavano quasi sull’acqua.

    Rebecca camminava a passi titubanti. Aprì la porta a vetro e si guardò intorno, ma all’ingresso non vide anima viva. Notò un divano dalla federa marrone sgualcita con dei buchi di sigarette sparsi alla rinfusa e subito fu presa dalla voglia di andare via.

    «C’è qualcuno?» chiamò con voce dubbiosa.

    Aspettò per qualche secondo una risposta che non arrivò, poi si adagiò sul bancone scheggiato della reception e con il palmo della mano suonò per tre volte un campanello arrugginito.

    Da una porta di legno uscì un uomo alto con una barba rada e un’espressione infastidita.

    «Buonasera» lo salutò la ragazza cercando di mostrarsi il più gentile possibile «mi servirebbe una camera.»

    L’uomo non ricambiò il saluto, strizzò gli occhi scuri e con voce piatta esclamò: «Una notte sono trenta dollari, una settimana centodieci.»

    «Una notte, grazie.»

    «Mi dia il documento così procedo alla registrazione.»

    Rebecca gli lanciò ancora un sorriso mentre gli porgeva la carta d’identità, ma come replica ebbe soltanto una smorfia disgustata della sua bocca larga.

    Mentre l’uomo scriveva le sciorinò senza guardarla una solfa imparata a memoria. «Gli orari della piscina sono dalle otto a mezzogiorno, la colazione è servita alle ore…»

    Rebecca smise di ascoltarlo e si concentrò sul suo viso: era butteroso, aveva dei buchi sulle guance dovute a un acne curato male o non curato affatto. Ebbe un moto di disgusto che riuscì a stento a trattenere.

    «Ha capito?» le urlò l’uomo, spazientito.

    La ragazza fece un cenno di assenso con la testa.

    «Bene, questa è la sua stanza.»

    Lei allungò la mano per prendere la chiave, ma l’uomo la lasciò cadere sul bancone. Le vennero in mente tutte le volte che la cassiera al supermercato sotto casa le faceva questo gesto quando doveva darle il resto. Non le aveva mai dato le monete sul palmo della mano, nonostante lei gliela porgesse sempre. Era una donna bassa e pesantemente truccata, i capelli ricci e scuri, intenta sempre a masticare rumorosamente un chewing-gum. L’immagine della cassiera accostata a quella di quest’uomo le provocò un accesso di riso.

    Si scusò ma lui non l’aveva nemmeno notato, era già di spalle che stava tornando nella sua stanza gabbiola.

    Rebecca allungò il busto e lo seguì con lo sguardo. Lo vide mentre si sedeva pesantemente su una poltrona di lana, mentre mangiava delle patatine fritte e guardava una puntata di quello che sembrava un reality show. Tese l’orecchio per capire quale fosse ma l’uomo, senza alzarsi, con un gesto rabbioso della mano chiuse la porta.

    A passi lenti e stanchi Rebecca si diresse verso la stanza numero 4, al primo piano. Mentre passava dalle altre camere notò che tutte le tendine delle finestre erano chiuse, ma che nonostante l’ora tarda le luci erano ancora accese.

    Inserì la chiave nella toppa, ma dovette spingere con forza per riuscire ad aprire. Fu accolta da una moquette verdognola che inghiottiva il pavimento e da una carta da parati giallognola che dava all’ambiente un’atmosfera cupa.

    Accese la tv e fece un po’ di zapping, passando da una televendita di materassi a un film western, da una replica di un quiz a un film in bianco e nero del Mago di Oz con Judy Garland. Era già a metà, Dorothy e i suoi amici stavano per affrontare la strega. Rebecca alzò il volume e lo vide fino alla fine, commuovendosi quando la ragazzina riuscì a tornare a casa.

    Fece un bagno per cercare di conciliare il sonno, ma dal rubinetto non usciva acqua calda. Per un attimo pensò di andare a lamentarsi, tuttavia cambiò subito idea e senza neanche lavarsi si coricò esausta, addormentandosi subito.

    La mattina dopo fu svegliata da alcune urla provenienti dalla stanza di sopra. Si preoccupò, ma dopo aver capito che si trattava di grida di piacere si tranquillizzò.

    Si sentiva bene, le capitava spesso al mattino. Era un giorno nuovo, un nuovo inizio, forse oggi non avrebbe avuto paura di vivere. Ci sperava sempre, ogni mattina; non importava che fallisse tutte le volte, lei ogni mattina pensava fosse il giorno giusto per cambiare, che le capitasse qualcosa, qualche nodo gordiano, un punto di svolta che indirizzasse la sua vita verso la normalità.

    Si rimise alla guida senza accendere l’autoradio, voleva ascoltare solo i rumori che venivano da fuori. Si fermò solo due volte, la prima per ricaricare il serbatoio e per fare colazione in una tavola calda e la seconda per pranzare in un ristorante. Aveva ordinato del pesce spada e una fetta di torta al cioccolato. Spendeva i soldi con facilità: era il suo giorno, il suo viaggio e voleva trattarsi con tutte le attenzioni possibili.

    I grattacieli di Houston s’intravedevano in lontananza. La prima impressione che ebbe entrando nella città texana fu quella di vastità. Se fosse stata notte sarebbe sicuramente svenuta dal panico, ma la luce del giorno la aiutò a percorrere le strade senza andare in crisi.

    Prima di partire aveva pensato di fare una capatina anche allo Space center o al Museo delle farfalle, ma mentre percorreva Webster Street capì che era meglio non tergiversare e andare subito dritti all’obiettivo, così si diresse verso il quartiere Downtown.

    Dopo circa un’ora arrivò al Toyota Center, l’impianto dove solitamente gioca la squadra Nba degli Houston Rockets. L’immagine di James Harden con in mano un pallone da pallacanestro campeggiava su un grande poster.

    Quella sera però non ci sarebbe stata nessuna partita di pallacanestro, quella sera si sarebbero esibiti gli artisti della compagnia teatrale degli Shakesperian’s Sons e lei aveva prenotato il biglietto in prima fila circa dodici mesi prima.

    Attese in macchina l’apertura dei cancelli e fu la prima a entrare. Poco alla volta, come un effetto time-lapse, tutti i seggiolini si riempirono. Alla sua destra si sedette una signora anziana col volto pieno di trucco messo alla rinfusa, alla sua sinistra un uomo di mezz’età dal vestito elegante e dalle movenze raffinate.

    Le luci si spensero, lo spettacolo iniziò.

    Il viaggio di Jack

    I colori dell’alba invasero il centro di Downtown, percorsero Louisiana Street e infine entrarono nella camera numero 14 del ventisettesimo piano dell’Hyatt Regency, uno degli hotel più moderni di Houston.

    Jack si stropicciò le palpebre, si alzò dal letto e si avvicinò alla grande vetrata. La città si parava davanti ai suoi occhi come un gigante addormentato. Il sole si specchiava nelle finestre dei grattacieli, dei palazzi, dei negozi, rimbalzando in migliaia di riflessi dorati che attraversavano Houston come un antifurto a raggi laser.

    Il sole si specchiava anche nei suoi capelli castani e nei suoi occhi marroni, rendendo il suo viso volitivo ancora più luminoso. Un grande orecchino a forma di stella bucava il lobo, il corpo era una tela dipinta da molti tatuaggi, ognuno con un suo significato, ognuno con una sua importanza.

    Dovette mettersi una mano sopra la fronte per ripararsi

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