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La figlia del mercante di seta
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La figlia del mercante di seta
E-book465 pagine4 ore

La figlia del mercante di seta

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Info su questo ebook

Numero 1 in Inghilterra e in Italia

Dall'autrice del bestseller Il profumo delle foglie di tè

«Il mio cuore ha battuto insieme a quello di Nicole fino all’ultima pagina.»
Lucinda Riley

1952, Indocina francese. Dalla morte della madre, Nicole, diciottenne franco-vietnamita, è vissuta all’ombra della bella sorella maggiore, Sylvie. Quando Sylvie prende le redini degli affari di famiglia, che ruotano intorno al commercio della seta, a Nicole non resta che accontentarsi della gestione di un vecchio negozio, nel quartiere vietnamita di Hanoi. La zona, tuttavia, pullula di militanti ribelli pronti a tutto per porre fine alla dominazione francese, persino a tradire i loro cari. In questo clima sempre più teso Nicole scopre la corruzione su cui si regge il sistema coloniale e si rende conto con sgomento che anche la sua famiglia è coinvolta… Nel frattempo, la ragazza conosce Trân, un ribelle vietnamita, e, nonostante sia innamorata di Mark, un affascinante imprenditore americano che incarna alla perfezione l’uomo dei suoi sogni, le sembra finalmente di intravedere una via di fuga da una vita che non ha scelto e da una cultura a cui non sente di appartenere. In un Paese dilaniato dai contrasti, è difficile per Nicole fare la scelta giusta, capire di chi fidarsi… 
La figlia del mercante di seta è un romanzo affascinante sulla rivalità tra sorelle, sull’amore che sfida la sorte, sui segreti da tenere nascosti, a cui fa da sfondo un Vietnam incantevole nell’età del colonialismo. 

Dall'autrice di Il profumo delle foglie di tè
Numero 1 in Inghilterra e in Italia
Tradotto in 19 Paesi

«Sentivo l’umidità e il dolce profumo degli alberi di frangipane… La scrittura di Dinah è incredibilmente piena di suspense e non rifugge dal descrivere la dura realtà della guerra. Il mio cuore ha battuto insieme a quello di Nicole fino all’ultima pagina.»
Lucinda Riley

«Riesce a comunicare al lettore ogni profumo, ogni sapore e ogni suono delle affollate strade di Hanoi. Nicole è un’eroina vulnerabile, eppure incredibilmente forte. Vi troverete a chiedervi che cosa avreste fatto nei suoi panni.»
Daily Express

«Seducente e romantico, capace di rendere l’autentica atmosfera del luogo e periodo, la Jefferies ha fatto centro.»
Sunday Mirror

«Una storia avvincente, un’ambientazione esotica, la rivalità tra sorelle, il romanticismo. Non riuscivo a smettere di leggerlo.»
Julia Gregson
Dinah Jefferies
È nata a Malacca, in Malesia, e si è trasferita in Inghilterra all’età di otto anni. Ha insegnato Studi teatrali e Inglese. Ha iniziato a scrivere nei cinque anni che ha trascorso in un piccolo villaggio sulle montagne andaluse. Ha esordito con il romanzo La separazione, pubblicato da Penguin in Inghilterra e in Italia dalla Newton Compton. Il profumo delle foglie di tè alla sua uscita ha raggiunto il primo posto dei più venduti in Inghilterra e vi è rimasto per diversi mesi.
LinguaItaliano
Data di uscita7 dic 2016
ISBN9788822703224
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    Anteprima del libro

    La figlia del mercante di seta - Dinah Jefferies

    EN1428-la-figlia-del-mercante-di-seta-dinah-jefferies.jpg

    Indice

    Prologo

    parte prima. fili di seta

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    parte seconda. la luna nell’acqua

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    parte terza. nebbie e nubi

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    parte quarta. odore di pesce

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Epilogo

    Nota dell’autrice

    Ringraziamenti

    Bibliografia

    Cronologia

    1428

    Titolo originale: The Silk Merchant’s Daughter

    Original English language edition first published by Penguin Books Ltd, London

    Text copyright © Dinah Jefferies 2016

    The author has asserted her moral rights

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Valentina Francese

    Prima edizione ebook: febbraio 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0322-4

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Dinah Jefferies

    La figlia del mercante di seta

    Newton Compton editori

    Prologo

    Sommersa, cade al rallentatore, mentre i lunghi capelli le vorticano attorno alla testa. Incantata dalla luce dorata che filtra nell’acqua, con un calcio leggero si spinge verso l’alto, seguendo le bollicine del suo respiro come una scia verso la superficie. Le schegge di sole si disperdono in gocce scintillanti e lontane sull’acqua. Tira indietro la testa, cerca l’aria, respira, vede il volto di sua sorella. I secondi passano. Abbagliata, mettendo pian piano a fuoco il mondo, alza la mano per attirare l’attenzione, apre la bocca in un grido. Ma il fiume la inghiotte di nuovo e ruggisce mentre lei sprofonda, rimbombando con tonfi martellanti. Tum.Tum. Vorrebbe gridare per chiedere aiuto ma non riesce a emettere alcun suono. Deve respirare, tuttavia sa che non può. Prova a nuotare ma qualcosa le toglie le forze. Sopra di lei l’iridescenza svanisce. Inizia ad affondare. Giù, nelle profondità, il fiume scuro è freddo, e ogni traccia di luce si fa troppo debole, sta accadendo troppo in fretta. Cerca di rigirarsi, di salire su per la scala acquosa, ma il fiume è più forte e i suoi piedi scivolano nel vuoto. La mente le si inonda di immagini di casa, le gambe si fanno terribilmente pesanti e mentre il fiume le succhia via le ultime energie, le sembra di galleggiare nelle sue profondità. Ma non sta galleggiando, sta annegando.

    Parte prima

    Fili di seta

    Da maggio all’inizio di luglio 1952

    1

    Hanoi, Vietnam

    Nicole annusò l’aria inebriante che profumava di gardenia selvatica, le foglie verde brillante e i fiori bianchi e odorosi della pianta coprivano l’area parzialmente ombreggiata del giardino. Diede un’occhiata in basso dalla finestra della sua camera da letto e individuò suo padre che controllava che fuori tutto fosse perfetto. Era sempre un bell’uomo, i capelli ben tagliati e ancora scuri, con appena una spruzzata d’argento, lo facevano sembrare particolarmente distinto e, sebbene fosse irritante il fatto che stesse usando il giorno della festa del suo diciottesimo compleanno per mostrare a tutti il giardino, doveva ammettere che l’aveva sistemato in modo davvero grazioso. Gli incensi bruciavano tra le portefinestre della loro villa color miele, e i laghetti riflettevano i colori luminosi delle stringhe delle lanterne di carta che pendevano dai rami dei due enormi alberi di frangipani.

    Nicole diede un’ultima occhiata allo specchio per decidersi. Avrebbe dunque fermato una sola fucsia sui lunghi capelli neri, di lato, per abbinarla al vestito con il colletto cinese che aveva fatto realizzare per quel giorno? Il corpetto aderiva al suo busto sottile come una seconda pelle e, non appena si muoveva, la gonna roteava e cadeva quasi fino al pavimento. Ascoltò Edith Piaf cantare Hymne à l’amour alla radio, guardò fuori dalla finestra e, lasciando perdere il fiore, vide che sua sorella Sylvie stava camminando a fianco del padre; tenevano le teste vicine, come facevano tanto spesso. Per un momento Nicole si sentì tagliata fuori e provò un lampo d’invidia. Avrebbe dovuto esserci abituata ma sua sorella era bellissima, anche prima di spazzolarsi i capelli e di lavarsi i denti; onde ramate, zigomi cesellati, un nasino alla francese perfetto. Alta, slanciata, Sylvie aveva ereditato il fisico dal padre, che era francese, mentre Nicole assomigliava alla madre vietnamita, morta da tempo, ed era fin troppo consapevole della sua pelle ambrata. Si strinse nelle spalle, lasciò che quel momento passasse e uscì dalla camera da letto; non aveva alcuna intenzione di farsi rovinare la sua giornata.

    Mentre camminava per l’ampia stanza dal soffitto alto e si dirigeva verso il giardino, due ventilatori con splendenti lame d’ottone rinfrescavano l’aria. La stanza, come il resto della loro casa, era elegante e piena di meravigliosi pezzi d’antiquariato. Da quell’angolo, attraverso la porta aperta, vide una coppia di compagne di scuola, Helena e Francine, che giocherellavano con i capelli l’una dell’altra in un angolo del giardino. Andò loro incontro per essere abbracciata e baciata. Mentre chiacchieravano dei fidanzati e degli esami superati, il giardino si andava riempiendo; Nicole alla fine dovette fare le sue scuse, aveva visto che gli ospiti francesi erano arrivati e stavano già fumando e bevendo, mentre alcuni ricchi vietnamiti avevano ormai iniziato a passeggiare nei loro abiti di seta. Notò un uomo alto, con le spalle larghe, vestito di lino chiaro che si avvicinava a sua sorella, e qualcosa in lui fece sì che Nicole si fermasse a guardare per un momento o due. Poi si lisciò i capelli, li tirò indietro sulle spalle e proseguì.

    Sylvie toccò il braccio dell’uomo e gli sorrise. «Lascia che ti presenti a mia sorella Nicole».

    Lui le tese la mano. «Sono Mark Jenson. Ho sentito molto parlare di te».

    Lei gli prese la mano e lo guardò in volto, ma il blu intenso dei suoi occhi la turbò e dovette distogliere lo sguardo.

    «Mark è di New York. Ci siamo conosciuti quando ero lì», disse Sylvie. «Viaggia in tutto il mondo».

    «Oggi è il tuo compleanno, vero?», chiese lui, e sorrise a Nicole. Nicole deglutì e fece fatica a rispondere, ma per fortuna Sylvie si intromise. «Devo parlare con una persona». Fece un cenno a una donna tarchiata dall’altra parte del giardino, poi si rivolse a Mark e ridacchiò toccandogli la mano. «Non ci metterò molto. Nicole si occuperà di te».

    Mark sorrise educatamente. Per un attimo l’aria sembrò troppo sottile perché Nicole potesse respirare. Spostò il peso da una gamba all’altra, imbarazzata, poi lo guardò cercando di non sbattere troppo le palpebre. I suoi occhi erano del colore degli zaffiri, e sembravano ancora più chiari e luminosi in contrasto con la sua pelle abbronzata.

    «Dunque», disse lei alla fine.

    Lui non parlava, continuava a fissarla. Improvvisamente si toccò il mento, c’era forse qualcosa che non andava nella sua faccia?

    «Non mi aspettavo che fossi così carina», disse lui.

    «Oh», rispose lei, confusa. «Sono sicura di non esserlo». Ma cosa si era aspettato, e perché si era aspettato qualcosa?

    «Sylvie mi ha parlato di te quando eravamo negli Stati Uniti». I suoi pensieri lentamente si districarono. Sicuramente Sylvie aveva parlato di lei. È una cosa naturale parlare della propria famiglia, specie quando si è lontani da casa.

    Lei sorrise. «Allora sai che sono la pecora nera».

    Mark si scostò una ciocca di capelli che continuava a cadergli davanti all’occhio destro. «Mi vengono in mente un fuoco e una tenda».

    Alla sua dolce presa in giro, la mano di Nicole salì alla bocca. «Oh, Dio, no! Non te ne avrà parlato?».

    Lui rise.

    «Avevo solo tredici anni ed è stato un incidente. Ma non è giusto, hai già sentito tante storie su di me e io non so ancora niente di te».

    Un’emozione impetuosa la attraversò. Come se l’avesse provata anche lui, allungò la mano, ma lei realizzò che era solo per indicare la strada. «Prendiamo un po’ di champagne e poi mi fai vedere un po’ i dintorni, vuoi? Ti dirò tutto quello che vuoi sapere».

    Camminando, un po’ di quella tensione interiore che stava provando da quando gli era stato presentato si stava allentando, anche se, così su due piedi, si sentiva molto piccola accanto a lui, e avrebbe voluto avere indosso scarpe con tacchi più alti.

    Un cameriere in livrea bianca si avvicinò con un vassoio. Mark accettò due bicchieri e li porse entrambi a Nicole. «Ti dà fastidio se fumo?».

    Lei fece segno di no. «Non sembra proprio che tu sia di New York».

    Tirò fuori un pacchetto di Chesterfield, ne accese una e poi porse la mano per prendere il bicchiere. Le loro dita si sfiorarono e Nicole sentì una scossa correre sulla parte inferiore del suo braccio nudo.

    «Non lo sono. Mio padre ha un piccolo caseificio nel Maine. Sono cresciuto lì».

    «Perché te ne sei andato?».

    Rimase immobile. «Sete d’avventura, suppongo. Dopo la morte di mia madre mio padre ha fatto del suo meglio, ma non è stato più lo stesso». Il tono della sua voce era cambiato e lei vi riconobbe una tristezza mal celata.

    «Anche mia madre è morta», ammise.

    Lui annuì. «Sylvie me l’ha detto».

    Ci fu un momento di silenzio.

    Sospirò di nuovo e sorrise come in balìa dei ricordi. «Ho fatto tutte le cose che si fanno di solito in campagna – pescare, cacciare – ma la mia passione erano le motociclette. Quelle da corsa. Più la pista era pericolosa e più mi piaceva».

    «Non ti sei fatto male?».

    Rise. «Spessissimo! Ma nulla di troppo serio. Al massimo una caviglia rotta e un paio di costole incrinate».

    Era abbastanza vicina a lui per sentire il profumo speziato della sua pelle. Qualcosa in quell’uomo la rendeva felice, ma si allontanò leggermente e guardò il cielo stellato, ascoltando il suono delle cicale e degli uccelli notturni tra gli alberi. Mark fece un passo e lei notò che la sua altezza gli conferiva quell’andatura sciolta che avevano gli americani nei film; una camminata disinvolta che ispirava semplicemente sicurezza e fiducia.

    «La gente dice che maggio è l’ultimo mese di primavera a Hanoi, ma stasera fa così caldo che sembra già estate. Preferisci entrare dentro casa?», chiese lei.

    «In una notte come questa?».

    Nicole si sentiva euforica e rise. Nella sua chioma castana c’era un ricciolo che ora sembrava dipinto d’oro. Qualcuno aveva acceso le torce e le luci delle fiamme guizzavano sul suo viso e sui suoi capelli.

    «Dove alloggi?»

    «Al Métropole, su Boulevard Henri Rivière».

    In quel momento Sylvie riapparve e se lo portò via. Dopo che se ne fu andato, Nicole sentì la sua mancanza e, nonostante tutte le persone che le giravano intorno, il giardino le sembrò vuoto. Le venne in mente uno dei detti preferiti della loro cuoca Lisa: Cò cong mài sat cò ngày nèn kim – se lucidi un pezzo di ferro abbastanza a lungo puoi farlo diventare un ago. Sebbene Lisa fosse francese, conosceva bene la lingua vietnamita perché frequentava i mercati ed era molto orgogliosa di saper citare i proverbi locali. Forse era giunto il tempo di mettersi un po’ in mostra, pensò Nicole mentre iniziava la musica dal vivo. Era anche tempo di ballare tutta la notte.

    2

    La mattina successiva Nicole si fece strada fino al labirinto di camere al piano inferiore. Alla fine delle strette scale, percorse il lungo corridoio e aprì la porta della cucina. Si guardò attorno e vide i muri con le piastrelle a forma di mattoncini bianchi e una fila di scintillanti pentole di rame appese a una sbarra di ferro. Le nuove persiane verdi davano alla cucina un aspetto fresco, e quattro grandi archi nel muro, ancora odoranti di vernice, dividevano la stanza in vani. Lisa si era già messa comoda sulla sua poltrona, proprio accanto alle porte della veranda da dove poteva vegliare sul suo prezioso orto e sulla serra. Dal momento della nascita di Nicole, Lisa era stata l’unica costante della sua vita. Era proprio come ci si aspetterebbe da una cuoca: paffuta. Aveva solo una quarantina d’anni, i capelli grigi sempre legati in una crocchia e le mani arrossate dai piatti da lavare, e ora se ne stava con i piedi appoggiati a uno sgabello. Armeggiò nella tasca del grembiule per cercare la prima sigaretta della giornata; l’unica sua preoccupazione era che conigli, lucertole o uccelli, e frutti di longan arrivassero sani e salvi fino a luglio, pronti per essere conservati.

    «Caffè?».

    Nicole annuì, versò il liquido scuro in una grande tazza e poi si gettò su una sedia di fronte alla cuoca.

    «Ne ho proprio bisogno».

    «Postumi della sbornia?»

    «Credo».

    «La notte scorsa ti ho vista con un uomo che mi sembrava interessante».

    «Chi?». Nicole cercò di celare il proprio sorriso, ma sapeva bene che non c’era nulla che potesse nascondere a Lisa.

    «Immagino che ti piaccia?».

    Nicole rise. «Mi sono sentita speciale. Lo so che probabilmente sono solo una stupida, ma mi sono sentita come se avessi appena incontrato la persona che potrebbe cambiare per sempre tutta la mia vita».

    Lisa sorrise. «Sembrava molto bello. Sono felice per te, chérie. Hai ballato?»

    «Non con lui. Non è rimasto a lungo».

    Eppure Nicole non riusciva a comunicare in modo appropriato la sensazione di essere cambiata, come se il vecchio senso di inadeguatezza fosse scomparso. Il breve incontro con Mark era penetrato dentro di lei e non poteva fare a meno di pensare che fosse l’inizio di qualcosa di molto diverso.

    «Cosa fa nella vita?»

    «Non gliel’ho chiesto». Sorrise a Lisa e si alzò in piedi. «È americano».

    «È un amico di Sylvie?».

    Si udì un rumore proveniente dalla stanza della governante lungo il corridoio e Nicole fece una smorfia. «Allora anche Bettine è qui?».

    Lisa annuì. Anche se avevano lavorato insieme per anni, Bettine e Lisa non avrebbero potuto essere più diverse. Mentre Lisa era paffuta e rotonda, Bettine era rigida e sottile come un rastrello. L’accogliente camera da letto di Lisa, con il salottino annesso, proprio accanto alla cucina, era sempre fonte di conflitto tra le due donne; il regno della governante erano le camere da letto. Il retrocucina e la lavanderia erano dominio della cameriera, Pauline, e c’era una stanza dove la domestica a ore preparava i pasti, ma veniva chiamata solo quando Lisa aveva bisogno di una mano in più.

    Nicole aprì le porte della veranda, respirò l’aria sottile di maggio, odorosa di terra umida, ascoltò il cigolio di un risciò che passava dietro casa. Avvolse la vestaglia di seta attorno al corpo, diede un’occhiata ai primi cachi gialli che erano caduti sull’erba – proprio dove Sylvie sosteneva che fossero stati sepolti i cadaveri – e vide Yvette, la figlia del fornaio, saltare fuori dal risciò, i nastri delle sue trecce scure che svolazzavano nella brezza. L’odore di brioche appena sfornate si diffuse nell’aria. Nicole fece un cenno alla bambina e, una volta entrata in cucina, avvicinò due sedie al tavolo di pino decapato. Lisa aveva già sistemato i piattini per i due panini al cioccolato di Nicole e la fetta di pane bianco morbido, spalmata di burro e miele, per Yvette.

    Anche se aveva solo dieci anni, Yvette si occupava solitamente della pasticceria del sabato: crostate di crema inglese, pane fresco da gustare con marmellata e conserve, brioches, croissants e panini al cioccolato per la prima colazione. Sua madre era vietnamita ed era morta per mano dei giapponesi durante la guerra, ma Yves era un padre devoto, che aveva provato a fare sia da madre che da padre a questa figlioletta, e Nicole le era molto affezionata. Nicole si raggomitolò sulle gambe per tenere d’occhio il cucciolo di Yvette, Trophy, che stava già curiosando in giro e in un attimo balzò su una sedia.

    «Cane cattivo». Yvette mostrò il pugno ma era troppo tardi, perché il cucciolo aveva già rubato un cornetto e si era nascosto sotto il tavolo per gustarselo. Nicole si mise a ridere. «Davvero adorabile».

    «Avrei voluto essere abbastanza grande per venire alla tua festa. Ti hanno fatto ballare?»

    «Sul tardi, anche se la nottata era così bella che nessuno avrebbe voluto veramente entrare nella sala da ballo».

    Lisa guardò l’orologio. Yvette non avrebbe dovuto fare colazione con loro in casa, ma ormai era una piccola abitudine che si erano prese e di cui tutte e tre gioivano. «Meglio che tu vada», disse Lisa, e guardò in alto. Nicole era pronta a ribattere, ma Yvette balzò su dalla sedia, con Trophy che le abbaiava alle calcagna. «Piano, o svegli tutta la casa», disse Yvette prendendo in braccio il cucciolo, che la soffocò di leccatine. Si precipitò fuori dalla porta sul retro per passare attraverso la veranda, dove il profumo speziato dello zenzero di Lisa si profuse nell’aria. Non appena Yvette se ne fu andata, Nicole baciò Lisa sulla guancia. «Non posso credere che tu abbia diciott’anni, bambina mia», disse la cuoca, tirando su col naso, «sembra solo ieri…».

    Nicole sorrise. «Ora non fare la sdolcinata. Devo fare cose molto importanti».

    «Per esempio?»

    «Per esempio pianificare il resto della mia vita».

    «Qualcosa che ha a che vedere con quell’americano su cui hai posato gli occhi?»

    «Non so quando lo vedrò di nuovo». Nicole si fermò all’improvviso realizzando che non aveva la più pallida idea di quanto tempo Mark sarebbe rimasto a Hanoi. Ma sperava che la Parigi d’Oriente, come i francesi amavano chiamare la città dell’acqua, lo avrebbe incantato.

    A cena a tavola erano solo in tre. La più piccola delle due sale da pranzo di Villa Duval era di fronte a un gazebo di paglia dove grandi sedie di vimini e un tavolino da caffè di vetro erano stati sistemati accanto a uno stagno con le ninfee. Un pannello di lacca intagliata sull’angolo separava la piccola scrivania e il sofà dove Sylvie amava tanto fermarsi a scrivere. Nicole aveva sprecato quel poco di tempo in cui avrebbe dovuto riordinare prima di cena leggendo un libro, quindi si era pettinata i capelli con le mani e si era messa a osservare il soffitto.

    Dipinto di blu, con soffici nuvole bianche e cherubini che svolazzavano attorno al ventilatore centrale, di fatto non le era mai piaciuto.

    Dalla porta del giardino vicino, Nicole udì il verso dei pavoni.

    «Dannazione», disse suo padre, «bestiacce starnazzanti».

    «Sono bellissimi», disse Nicole. «Non credi?»

    «Ma perché devono stare in giardino? Mi faranno diventare matto».

    «Papà ha ragione», disse Sylvie. «Sono terribilmente fastidiosi».

    Dopodiché iniziarono a mangiare in silenzio. Nonostante il lento roteare del ventilatore, faceva troppo caldo. Le tende di seta pesante, trattenute con nappe d’oro, non erano state chiuse, e quelle di mussola leggera si muovevano appena in una parvenza d’aria. Un ulteriore verso del pavone non fece altro che rendere l’umore del padre ancora più cupo. Stavano per finire il dessert quando guardò Sylvie e Nicole e si decise a parlare. «Sono contento che siate tutte e due qui». Le sorelle si scambiarono uno sguardo. Ultimamente avevano percepito un certo disagio: messaggi recapitati con circospezione dai militari, il telefono che squillava, e il padre che sembrava sempre più teso. Nicole aveva notato il rapido aumento del numero di americani che passavano per casa, ed era giunta alla conclusione che dovevano essere della cia.

    Quando aveva chiesto spiegazioni a Sylvie, tuttavia, sua sorella era stata evasiva. Sembrava che non ne sapesse niente.

    Il padre si spostò un po’ sulla sedia. «Ora che hai diciott’anni, Nicole, voglio spiegarti i miei progetti. Avevo intenzione di parlarvene quando avreste entrambe avuto ventun anni, ma dato che mi sono impegnato politicamente con il governo, ora la situazione è cambiata».

    «In che senso?», chiese Sylvie.

    «Nel senso che non sarò più in grado di prendermi cura dell’attività commerciale».

    «Che tipo di impegno hai preso, papà? Che ruolo avrai?», chiese Nicole.

    «L’esatta natura del mio ruolo in realtà è confidenziale, ma con tutte le mie conoscenze e i miei contatti vietnamiti pensano che io sia l’uomo giusto per questo lavoro. È un grande onore essere scelto per lavorare per il bene della Francia».

    «Ma intendi dire qui a Hanoi?»

    «Principalmente». Si fermò un attimo. «Potrà sorprendervi, ma io credo che nell’interesse della società solo una di voi debba ricoprire il ruolo di dirigente. Dato che Sylvie è la più grande, ho deciso di lasciare a lei la gestione degli affari, con effetto immediato».

    Nicole guardò sua sorella, ma Sylvie abbassò gli occhi e prese a giocherellare con il tovagliolo.

    «Entro fine anno sarà tutto intestato a Sylvie, ma lascerò il piccolo negozio delle sete a te, Nicole».

    «Non capisco. Perché non possiamo dividere? Ho sempre pensato che Sylvie e io avremmo gestito gli affari insieme».

    Lui scosse la testa. «Sylvie è più grande e più saggia. Ha più esperienza, soprattutto dei mercati americani, è giusto che gestisca tutto lei. Se tu avessi studiato con impegno al liceo, come ha fatto tua sorella tanto diligentemente, avresti avuto le sue stesse opportunità. Certamente capirai».

    Nicole aggrottò la fronte. «Dunque Sylvie sarà il capo in Rue Paul Bert?».

    Il padre annuì.

    Nicole deglutì velocemente, immaginando l’imponente Maison Duval, con il suo meraviglioso soffitto a cupola, la scala in teak lucido e l’elegante balconata dei piani superiori. Era in Rue Paul Bert, soprannominata anche gli Champs Élysées, e Nicole la amava profondamente.

    «Che altro?», chiese.

    Fissò un punto sopra la sua testa e iniziò a contare sulla punta delle dita. «L’import-export dell’azienda, e l’emporio nel quartiere francese».

    Nicole sapeva che la maggior parte della seta che trattavano veniva da Hué, dove era attivo il ramo delle esportazioni in cui lei aveva riposto le sue speranze future. «Ma io speravo di diventare responsabile degli acquisti un giorno. Pensavo che mi avessi portato con te nei villaggi dove si produce la seta proprio per questo motivo, mentre Sylvie era in America».

    Lui mise una mano in tasca per cercare un sigaro che poi batté sul tavolo.

    «Vedi, mi dispiace che tu sia delusa, chérie, ma così è deciso. Puoi scegliere se terminare gli studi o accettare la mia offerta del vecchio negozio delle sete; oppure dovrò trovarti un buon marito vietnamita».

    Doveva essere uno scherzo, ma Nicole non riuscì a trattenere lacrime d’angoscia. «Io credevo che il vecchio negozio fosse stato abbandonato».

    Un altro verso stridulo li raggiunse dall’esterno. Le guance di suo padre si gonfiarono e le nocche delle mani divennero bianche mentre afferrava il bordo del tavolo. Nicole poteva sentire il suo odore – grasso per cuoio, brandy e sigari – mentre le sue narici si dilatavano.

    «Dannati uccellacci», disse.

    Nicole era distrutta. Era stato lo stesso per l’Europa. Sylvie era andata e lei no. Anche se, naturalmente, era successo subito dopo che lei aveva accidentalmente dato fuoco alla tenda durante la festa dei diciott’anni di Sylvie.

    Il padre si alzò in piedi. «Voi due restate pure e finite la cena. Lisa porterà il caffè da un momento all’altro. Io lo prenderò nel mio studio».

    Nicole cercò di trattenere le lacrime di fuoco che le bruciavano le palpebre.

    «Per quanto riguarda l’azienda, ricorda che Sylvie è più grande di te di cinque anni, ed è estremamente affidabile». Appena il padre raggiunse la porta, si guardò indietro. «Se continui a non presentarti agli esami e a sparire per giorni, cos’altro ti aspetti che faccia? L’intero corpo di polizia ti stava cercando. E tu e i tuoi amici idioti avevate deciso di prendere un bus per Saigon. Avresti dovuto immaginare quanto fossimo preoccupati. Poteva succederti di tutto».

    Lei chinò il capo. Le avrebbero mai permesso di dimenticarlo?

    «Lo so. Mi dispiace molto. Non ci pensavo».

    «Be’, ora è necessario che ci pensi e posso solo sperare che tu abbia imparato dai tuoi errori».

    «L’ho fatto, papà. Davvero».

    «Allora dimostralo, fa’ che quel negozio diventi una miniera d’oro. Poi vedremo che altro sei in grado di fare».

    3

    Il giorno successivo la temperatura doveva aver toccato i trentadue o trentatré gradi.

    Non appena Nicole vide una lucertola con gli occhi sporgenti correre su per il muro e nascondersi dietro le foglie sottili di una felce, seppe che sarebbe stata una giornata terribilmente umida, anche se nella sala sembrava di stare in un giardino ombroso, con le piastrelle fresche del pavimento coperto da felci giganti e la luce che splendeva dalla cupola di vetro. Scese e prese le chiavi dal vassoio di madreperla, sistemandosi la gonna del vestito, che scivolava a pennello sul tacco giusto. Aveva bisogno di allontanarsi da casa e pensare alle parole del padre, così aveva deciso di andare in centro città. Appena uscita, si voltò indietro giusto in tempo per vedere Lisa che spalancava le ampie persiane verdi. La loro casa di tre piani era splendida, con l’intonaco color ocra ridipinto di fresco e le grondaie sporgenti dal tetto che gettavano ombra sulla veranda. L’esterno in stile francese celava un interno in stile indocinese, con pannelli rosso lacca decorati con foglie d’oro che ornavano tutte le porte del pianterreno.

    Nicole si diresse verso il centro città ma, dopo qualche svolta, le sembrò di udire un grido. Esitò, poi udì un altro grido e uno strillo proveniente da una viuzza che faceva angolo con la strada principale, si fermò e fece un passo indietro. Si guardò attorno ma non vide nulla. Forse sono bambini che giocano, pensò, e ricominciò a camminare. Le grida si fecero più alte e più allarmanti. Senza riflettere, girò in una via dove c’erano diverse case con le finestre in frantumi e l’asfalto coperto di calcinacci. Dopo la seconda guerra mondiale e la battaglia con i Vietminh, c’era ancora qualche strada che attendeva le riparazioni. Si tolse le scarpe e, per quanto il vestito glielo consentisse, saltò sopra le macerie fino alla curva dove gli alberi nascondevano alla vista il resto della via. Da lì poté vedere una mezza dozzina di ragazzi francesi molto eccitati. Quando si avvicinò, rimase inorridita: stavano spingendo una bambina di schiena contro un muro dietro a un albero. La bimba, intrappolata nel cerchio dei ragazzacci, senza via di fuga, sembrava molto più piccola dei suoi aguzzini, che avranno avuto tredici anni. Nicole prese le scarpe e corse più vicino.

    «Meticcia, meticcia!», cantava uno dei ragazzini. Gli altri lo seguivano, disprezzando la bambina, torcendo le facce in smorfie disgustose. «Sporca meticcia».

    «Tornatene da dove sei venuta».

    Nicole si tese, riconoscendo il volto della bimba rigato di lacrime, la gonna blu brillante che fluttuava – Yvette! Non si fermò a pensare, ma corse giù per la strada. I ragazzi la videro arrivare e indietreggiarono, anche se i due più grandi rimasero fermi dove stavano. Uno dei nastri azzurri che Yvette aveva tra i capelli si era sciolto e un ragazzino lo aveva strappato dalla treccia.

    «Lasciala andare», Nicole intimò con il tono più autorevole che poté, cercando di sembrare controllata. Era vagamente consapevole dei rumori della città attorno a lei: clacson, il cigolio dei risciò, voci; ma era molto più conscia del suo batticuore.

    «Anche questa è una meticcia. Non state a sentirla», disse il ragazzo più alto. Nicole sentiva odore di alcol e guardò a terra, dove bottiglie di vino e mozziconi di sigarette giacevano in mezzo alle foglie e al cemento.

    «Ma suo padre…», uno dei ragazzi più piccoli intervenne. Nicole corse verso il più alto, lo afferrò per il colletto e lo colpì con le scarpe.

    «Mio padre vi denuncerà!».

    Pieno di sé, lui si difese, ma uno dei tacchi lo colpì sulla tempia. Si fermò, e come fanno sempre i bulli, alla vista del sangue sulle dita iniziò a piagnucolare, toccandosi la testa.

    Nicole strinse gli occhi minacciosa. «Se la tocchi un’altra volta…».

    Il ragazzo le puntò il dito contro ma iniziò a indietreggiare.

    «Tutto qua? Scappate via come i codardi che siete. Prendervela con una bambina! Molto coraggiosi davvero».

    Un altro ragazzino si voltò come per tornare indietro; era uno di quelli più calmi che se ne stavano dietro, e lei non l’aveva nemmeno notato. Era magro e ben vestito e, ora che lo vedeva bene, aveva un’aria familiare. Quando colse il bagliore della lama di un coltello nella sua mano, guardò Yvette. «Corri, Yvette», gridò e indicò dietro di lei. «Qui dietro, corri a casa più veloce che puoi».

    Yvette esitò.

    «Vai. Ora!».

    Mentre la bambina correva via a gambe levate, Nicole si piantò a terra con le gambe divaricate e le spalle incassate. Il ragazzo ridacchiò prima di agitare il coltello in aria. Lei lo schivò ma riuscì ad afferrargli il braccio e a torcerglielo dietro la schiena.

    «Ohi! Mi fai male!», gridò lui.

    «Molla il coltello!».

    Quello si divincolò e lottando cercò di liberarsi, finché col coltello non le tagliò la guancia. La spinse a terra e lei si toccò il viso, sconvolta, tanto che si accorse appena della figura maschile che le passava accanto. Quando alzò lo sguardo, vide che l’uomo aveva afferrato il ragazzo per la gola. Fu ancora più sconvolta quando riuscì a vederlo chiaramente in viso e riconobbe Mark Jenson.

    «Lascia quel coltello, piccolo bastardo», gridò, mentre il ragazzo emetteva un rantolo soffocato, gli occhi spalancati per la paura.

    Nicole assistette alla scena con orrore. Per un attimo le sembrò che l’americano stesse per strozzarlo, e aprì la bocca per gridare, prima che le cose precipitassero ulteriormente, però poi Mark lasciò andare il ragazzino, spingendolo via. Lui barcollò indietro ma non cadde. Mentre l’uomo e il ragazzo si fissavano, Nicole sentì l’aria sulla sua pelle. Sembrava improvvisamente più fredda, proprio come quando il sole viene coperto per un po’ da una nuvola e il cielo continua a essere sorprendentemente ancora blu. Il ragazzo non aveva smesso di brandire il coltello davanti a lui e Nicole, con il sudore che le imperlava la fronte, era certa che in una frazione di secondo gli si sarebbe lanciato contro. Ma l’attimo si perse, stava passando troppo tempo. Il ragazzo dovette ripensarci, infatti, perché fece un passo indietro lasciando cadere a terra il coltello.

    Mark avanzò e mostrò il pugno. «E ora vattene!».

    Il ragazzo corse via.

    Per qualche istante tutto rimase sospeso, poi all’improvviso Nicole divenne conscia dei rumori della città, frastornanti.

    Mark si girò verso di lei. «Qui», disse avvolgendole un braccio attorno alla vita. Mentre lui la sollevava, sentiva il calore della sua mano calda attraverso il vestito di cotone leggero.

    «Stavo giusto sistemando la questione», affermò lei, ma a entrambi era chiaro quanto fosse turbata.

    Non aveva il coraggio di analizzare i propri sentimenti, il fatto di essere stata chiamata meticcia, un appellativo sgradevole dato ai bambini di sangue misto, la faceva morire di vergogna. Non era mai stato così prima che i Vietminh prendessero il potere, anche se quel periodo era durato poco. Ma adesso, per quel che importava ai francesi, essere di sangue misto e avere un aspetto vietnamita destava sospetti e voleva dire occhiate di sottecchi e sussurri a mezza bocca. Ovviamente questo non era mai accaduto a Sylvie, che sembrava francese a tutti gli effetti, ma per Nicole non era affatto la prima volta che la insultavano e che tutte le sue più profonde insicurezze venivano allo scoperto.

    Il vento si alzò quando Mark le asciugò il sangue dalla guancia con le dita, e poi se le pulì con un fazzoletto.

    «Grazie», gli disse. Quanta fatica sprecata per sembrare raffinata, pensò, mentre cercava di sistemare inutilmente lo chignon ribelle. Si lisciò il vestito e si fermò, perché all’improvviso si era ricordata chi fosse quel ragazzo: Daniel Giraud. Il padre era il capo della polizia, ed era amico di suo padre. La cosa non sarebbe finita bene.

    «Andiamo», disse Mark. «Mi sa che abbiamo bisogno di un drink, tutti e due».

    La aiutò a superare i crateri che si aprivano sulla strada e giunsero in Boulevard Henri Rivière, dove camminarono all’ombra degli alberi di tamarindo. Avvicinandosi all’hotel, Mark rallentò il passo. «Ti senti bene?»

    «Sono un po’ scossa».

    Si fermò e lo guardò con attenzione. Indossava una camicia a quadri dai colori tenui e pantaloni di lino, e si era rasato, proprio come ci si aspetta che faccia un americano. Stava bene in abiti casual come con il vestito elegante; anzi, forse stava ancora meglio, pensò. Guardò dall’altra parte della strada, dove c’era la residenza dell’alta commissione francese, sperando che suo padre non fosse lì, quindi attraversarono le grandi porte a vetro del Métropole ed entrarono nell’hotel.

    Mark si passò una mano tra i capelli e se li tirò indietro, poi indicò i tavolini da tè. «Vuoi del tè o qualcosa di più forte?».

    Lei sorrise e indicò le portefinestre sul retro. Mark guardò gli ampi portici che circondavano i giardini dell’albergo.

    «Tè, là fuori all’ombra», rispose. Dalla veranda avrebbero potuto ascoltare le prove della piccola orchestra che suonava vecchi pezzi di musica da ballo intervallati alle canzoni di Nat King Cole.

    Una volta fuori, Mark le avvicinò una sedia e lei sentì un profumo dolce e amaro, come di anice e limone, e percepì il suo respiro caldo sulla nuca. Si sedettero a un tavolo accanto a tre ufficiali dell’esercito francese, uno dei quali stava ridendo e agitando in segno di saluto un sigaro in direzione di Nicole, che inalò il fumo che ondeggiava verso di lei e gli sorrise.

    «Che ne pensi di Hanoi? Ti piace stare qui?», chiese a Mark.

    «È un posto fantastico per la seta».

    «È questo quello che fai? Ti occupi di seta?»

    «Già. Sono in missione a caccia di seta».

    «Noi qui ne abbiamo una qualità davvero

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