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Le straordinarie vite di Angela
Le straordinarie vite di Angela
Le straordinarie vite di Angela
E-book143 pagine2 ore

Le straordinarie vite di Angela

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Info su questo ebook

Non puoi smettere di correre quando il pasto del giorno sei tu: Angel S., costretto a fuggire dall'apocalisse con ciò che rimane della sua famiglia, non può immaginare che la lotta per la sopravvivenza lo porterà a scoprire la verità sconvolgente dietro l'epidemia, una verità oltre ogni immaginazione... Non hai tregua quando tutti si aspettano di essere salvati da te: Angela Radcliffe è l'Eletta che deve proteggere il loro mondo, dove magia e tecnologia convivono, minacciato dall'incarnazione del Male. Pur dopo molte battaglie vinte, l'eroina dovrà capire se sarà in grado di affrontare il nemico più grande... Non sogni più quando hai un macigno sul cuore: il fardello che ogni giorno Angela Giannini porta è terribile, finché, dopo un incidente, entra in coma. Tentato suicidio o fatalità? È il dilemma in cui precipitano i genitori, mentre la figlia è sospesa in un limbo. Ma chi è Angela? È il sopravvissuto in fuga dall'apocalisse, l'eroina che deve salvare il mondo, o la sognatrice che combatte tra la vita e la morte? I suoi genitori dovranno risolvere il mistero che lega queste storie, prima che per lei sia troppo tardi.
LinguaItaliano
Data di uscita11 lug 2016
ISBN9788892607866
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    Anteprima del libro

    Le straordinarie vite di Angela - Claudio S. Gnoffo

    633/1941.

    Prefazione.

    Quando ero bambino,

    ero tormentato da incubi sugli zombie, quei morti viventi che inseguono i vivi per divorarli. Gli stessi che Angela, nella prima delle sue tre vite, si ritrova ad affrontare. Mi fu spiegato da una terapeuta che erano un simbolo, una metafora: ogni persona che sogniamo è una parte di noi, ci rappresenta. E quei mostri erano le mie ansie che mi inseguivano, i miei timori che esigevano la mia attenzione. Parti di me stesso, che prendevano la forma di incubi angosciosi e paure deformi pur di riuscire a parlarmi.

    Ogni personaggio che è parto della nostra fantasia, che sia in un sogno o in una trama ben congegnata, è un’espressione della nostra interiorità, che vuole dialogare prima con noi stessi e poi con gli altri. Quei mostri che in apparenza volevano divorarmi, erano mie parti che volevano dialogare con me, a tutti i costi.

    Mi lasciai raggiungere, e da allora non li sognai più.

    Fu così che compresi il potere delle storie come simbolo di noi stessi e di ciò che ci portiamo dentro, il loro potere di analizzare la realtà per restituircela, più chiara e luminosa di prima.

    Decisi che avrei trascorso la vita a narrare storie, per dialogare con me stesso e aiutare gli altri a farlo, svelando una bellissima verità: tutti quanti siamo storia che è nesso di altre storie e frutto di altre trame. Quanto volte ci sentiamo soli, frammenti senza appartenenza? Come fossimo storie fini a sé stesse, senza senso: non sappiamo da dove veniamo e dove andiamo. Invece le nostre storie si collegano a quelle dei nostri genitori, fratelli, amici, di chi è stato prima di noi e di chi dopo verrà.

    I tre protagonisti del romanzo mostrano come una sola storia, la vita di Angela, sia crocevia di mille altre storie le quali, insieme, svelano un unico, immenso, magnifico arazzo.

    A pensarci, è come se noi, tutti quanti assieme, fossimo un’unica rete da pesca: ognuno di noi è un nodo, che ha origine dal tratto di filo che lo precede, col proprio nodo, e conduce al tratto di filo seguente, col nodo che viene dopo. E insieme, tutti noi nodi coi fili che ci collegano, creiamo maglie di rapporti e situazioni, maglie che catturano contesti, fatti, esperienze, significati.

    Maglie che fanno proprie, insomma, tutte quelle manifestazioni della vita che ci rendono storie.

    Tutto ci appartiene e tutto ci parla, per raccontarci di noi.

    Perché ciascuno di noi è storia di storie, trama di trame, da raccontare e raccontarsi.

    Possa tu godere, caro lettore, della storia che leggerai.

    Possa Angela parlarti dentro.

    C. S. Gnoffo

    LE STRAORDINARIE VITE DI ANGELA

    Parte Prima di Tre.

    World of Wall-down.

    1.

    Il mio nome è Angel S.

    Ricordo ancora bene il momento in cui sulla bocca di tutti veleggiò la parola zombie. Tutti conoscevamo questi personaggi horror buoni per la massa, quasi tutti sapevamo più o meno con precisione di che si trattasse. Alcuni di noi erano pure imbevuti, da anni, di film di Romero e di The Walking Dead.

    Ma nulla di ciò che fumetto, cinema e letteratura ci avevano consegnato poteva prepararci a questo. Nonostante quanto ci avesse insegnato il dono profetico della cultura pop, molti non vollero crederci lo stesso, finché non fu troppo tardi.

    Ero alla fermata del bus quando ebbi il primo impatto con quelli che poi, a ragione, riconoscemmo come zombie.

    L’autobus si schiantò a velocità immane contro due auto in doppia fila e si trascinò un motorino, con ancora guidatore sopra.

    Non mi accorsi del dettaglio della gamba destra del ragazzo in motorino che saltava per aria, o della testa della vecchina che rotolava sotto le ruote del grande mezzo pubblico: questi furono particolari che poi ricostruirono gli storici di cronaca.

    No, quello che ricordo con assoluta precisione, nella spietata limpidezza di un attimo che s’incide nella memoria, è la tremenda espressione dell’autista. Orrore, orrore e disperazione, mentre il passeggero alla sua destra gli divorava la faccia dopo avergli staccato a morsi la mano. E così gli altri passeggeri che venivano mangiati, uno dopo l’altro, dal vicino di posto.

    Fu solo un attimo frattanto che il mezzo mi sfrecciava a gran velocità innanzi agli occhi invece di fermarsi davanti alla pensilina, ma colsi tutto alla perfezione.

    Come poi ricostruirono sempre questi storici di cronaca, in quel bus tutto partì da un vecchio che aveva avuto un infarto fulminante ed era morto ucciso dal suo stesso cuore.

    Pochi secondi, e si era risvegliato senza neanche dare il tempo agli altri passeggeri di capire che fosse morto.

    Pochi minuti, ed era cominciata l’Apocalisse, su un semplice autobus di linea in un giorno qualunque.

    L’autobus di linea sul quale avrei dovuto esserci io.

    2.

    Bastarono ventiquattrore per capire che la pandemia era scoppiata in quasi tutto il globo. New York, Londra, Parigi, Madrid, Praga, Mosca. L’Onu e la NATO avevano blindato intere città ponendole in quarantena, per evitare che il contagio si diffondesse in maniera incontrollata.

    Emergency sciorinava dati drammatici come bollettini di guerra.

    E una notte eterna sembrò calare sul mondo.

    Io, i miei genitori, mia sorella maggiore e mio fratello piccolo, come migliaia di altre famiglie, ci chiudemmo in casa. Sembrava bastasse questo, e stare al secondo piano pareva una certezza.

    Avremmo dovuto capire che non c’erano più certezze.

    Mia madre fu attaccata mentre si asciugava i capelli, in bagno.

    Avevamo limitato il più possibile l’uso di acqua corrente e luce, tutto era stato razionato per essere a disposizione di tutti, dato che la guerra tra zombie ed esercito aveva trasformato il Paese in un campo di battaglia a cielo aperto. Noi che stavamo nella periferia di una città marginale, credevamo di essere al riparo da tutto questo. Mia madre, per il motivo suddetto, non si faceva doccia da dieci giorni. L’avevamo incoraggiata noi a lavarsi, perché sentiva il bisogno di prendersi cura di sé, del proprio corpo. L’ultimo ricordo che ho di lei è un urlo lancinante, io e mio padre che corriamo in bagno, lei che mi tende la mano mentre uno zombie le sta masticando il collo, protendendosi dentro la doccia dalla finestra aperta per lasciar uscire il vapore. Il morto vivente puzzava come un pesce marcio di tre giorni eppure la sua forza era incredibile, e non mollava la presa dei denti gialli sul collo di mia madre, mentre lei urlando ci supplicava di aiutarla. Il sangue che schizzava dalla gola recisa affluiva copioso sui seni nudi fino alla foresta del suo basso ventre, nonché sulle mattonelle di ceramica e sul vetro del bagno.

    Lo zombie sembrava un verme gigantesco che, strisciato fuori dalle cavità tenebrose della terra, fosse emerso alla luce del sole per banchettare con le carni dei vivi. Ma come aveva fatto ad arrivare fin lì? Io e papà non avemmo molti secondi per capire ciò, dato che eravamo impegnati a staccare la testa dello zombie prima a colpi di fon e poi, quando accorsero mia sorella e mio fratello, con un cacciavite. Mentre io cercavo di tirar via mia madre, loro colpivano a più non posso il cadavere vivente.

    Vedete, rompere il cranio a un morto per spappolargli il cervello non è facile come si vede nei film. La sua bocca intanto non mollava la presa, come le fauci di un pitbull sull’osso, e, mentre mia madre mi conficcava le unghie nella carne affinché riuscissi a tirarla via, potei vedere l’aura della vita scivolare via dai suoi occhi disperati.

    Negli occhi iniettati di sangue dalle pupille grigio-perla dello zombie, invece, vidi solo fame.

    Quando papà, col cacciavite, lo trafisse dentro l’occhio destro, la creatura scivolò fuori dalla finestra del bagno, e decise di trascinarsi mamma in un abbraccio stretto, facendola scorrere dalla finestra come un sacco pieno di vetri rotti. Noi ce la vedemmo sgusciare via dalle mani alla velocità del lampo: mi parve di udire le vertebre di mamma scricchiolare, ma non potrei giurarci.

    Accadde tutto in un attimo, mio padre si sporse fuori per afferrarla, ma non ci riuscì. Però fu una fortuna, se di fortuna, pensando a mia madre morente, si può parlare: papà vide e capì tutto, e l’orrore gli strozzò le parole in gola. Mentre mamma e il suo assassino si schiantavano al suolo, decine di zombie, zombie ovunque, si arrampicavano come lucertole e ragni su per le pareti dei palazzi. Ecco come aveva fatto quello ad arrivare a una finestra del secondo piano di un palazzo molto alto: potevano arrampicarsi, con un’agilità incredibile.

    Prendemmo tutto quanto poteva servirci e fuggimmo. Lungo le scale, scendendo di corsa verso il garage, incrociammo altri morti viventi: come dicevo, erano agili, e anche veloci.

    Mia sorella fu morsa alla mano destra. Il suo aggressore aveva il lato sinistro del volto spappolato, e nello squarcio, dal bulbo oculare fino alla mascella e dentro l’orecchio, v’era un alveare di api ronzanti che avevano colonizzato la sua testa, oltre a vermi dentro l’orecchio destro all’altro lato del volto. Mio padre mi passò un’accetta con cui ruppi la testa allo zombie, una piccola accetta che aveva afferrato tra i vecchi attrezzi. Le api volarono via impazzite come l’equipaggio da una nave che affonda.

    Io neanche sapevo di averla mai avuta in casa, un’accetta.

    Avemmo fortuna: non morse mia sorella là dove, poi, non avremmo potuto amputare. Anche il mio fratellino affrontò uno zombie e fu più abile, o forse solo più fortunato: gli infilò entrambi i pollici negli occhi marcescenti, urlando, e glieli ficcò così forte da imprimergli una spinta letale fino al cervello. Nel suo urlo, riconobbi tutto il dolore e la rabbia per la morte di nostra madre. Il sangue nero del mostro gli schizzò addosso, ma gli andò bene: se il sangue non veniva ingerito o inalato né entrava nelle ferite o dentro i bulbi oculari, non recava danno.

    Sapevamo che il sangue e il morso degli zombie, in sé e per sé, non trasformavano in uno di loro: si limitavano a uccidere, chi in pochi minuti chi in poche ore, come un veleno potentissimo ma dall’effetto molto soggettivo.

    La trasformazione in zombie dopo la morte era già insita in noi, poiché un virus aereo s’era diffuso mesi prima in tutto il mondo.

    Chiunque fosse deceduto, anche di morte serena e naturale, si sarebbe trasformato. Era il nostro destino, ed era inevitabile.

    Mentre fuggivamo tra le urla dei condomini smembrati dalle bocche dei morti viventi, era questa la parola impressa a fuoco nella mia mente: inevitabile.

    3.

    Il nostro vicino di casa, il Dottor Friedrich Von Veinski, era scampato come noi alla strage. Lui e la Sig.ra Barth s’unirono alla nostra fuga. Ci fermammo. Il Dottore con la sua cintura dei pantaloni strinse forte l’avambraccio a mia sorella, strinse fortissimo per interrompere la circolazione ed evitare un’emorragia, dopodiché, con una sua ascia ben pulita, le amputò la mano infetta con un solo colpo netto. Non ricordo che fine fece la mano, ma subito le fasciò la ferita come meglio poté coi lembi della propria maglia, mentre riprendevamo a correre a perdifiato.

    Era già il tramonto, e su tutto calavano le ombre della sera.

    Raggiungemmo l’auto con Von Veinski e la Barth, e mettemmo in moto mentre gente veniva a implorarci aiuto battendo le mani sui finestrini; non

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