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Il tempo dei Malìer. Ludmilla
Il tempo dei Malìer. Ludmilla
Il tempo dei Malìer. Ludmilla
E-book315 pagine4 ore

Il tempo dei Malìer. Ludmilla

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Info su questo ebook

La tranquilla vita degli ispettori Maria Diletti e Andrea Pancaldi viene sconvolta quando i resti di Cecilia, una compagna di scuola di Maria morta tragicamente 36 anni prima, riaffiorano intatti da una frana. La ferita mortale sul collo della ragazza, che all'epoca fu archiviata come incidente, si rivela in realtà un morso umano. Inizia così per Maria e Andrea una discesa negli abissi, alla ricerca della verità dietro la morte di Cecilia. Una verità che li porterà a scoprire l'esistenza di creature malefiche dai poteri sovrannaturali, i Malìer, che si credono estinti da secoli.

Fra delitti efferati, cadaveri misteriosamente trafugati, indizi che portano in Romania e loschi personaggi che tentano di insabbiare le prove, Maria e Andrea si ritrovano invischiati in una rete di orrori indicibili. Riusciranno a venire a capo dell'intricato mistero e a fermare i Malìer, prima che sia troppo tardi?

Un thriller paranormale che vi terrà con il fiato sospeso, fra colpi di scena e rivelazioni sconvolgenti. Lasciatevi trascinare nell'abisso de "Il tempo dei Malìer", se avete il coraggio di scoprire la verità. Cosa avrà mai a che fare la piccola Cecilia con gli antichi e malvagi Malìer? E perché qualcuno vuole insabbiare le indagini di Maria e Andrea?
LinguaItaliano
Data di uscita21 ago 2023
ISBN9791221486582
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    Anteprima del libro

    Il tempo dei Malìer. Ludmilla - Graziella Simeone Adwan

    1

    La zona collinare era chiusa al traffico. Un pannello luminoso segnalava la frana e la direzione alternativa da seguire.

    Mostrai il cartellino all’agente del posto di blocco.

    «Prego, ispettore Diletti», disse sorridente. Ricambiai il saluto portando la mano destra alla fronte e ripartii.

    Era buio pesto e stava piovendo a dirotto. Avrei potuto essere nel mio letto a dormire o a guardarmi una serie televisiva, ma la pandemia costringeva in quarantena molte persone, compreso Andrea Pancaldi, il mio viceispettore.

    Giunsi al cancello del cimitero, imprecando, mi accorsi di essere senza ombrello. Uscii correndo fuori dall’auto trovai riparo sotto al porticato.

    Un uomo mi stava venendo incontro con un ombrello.

    «Marino, perché tu qui?» lo guardai perplessa.

    «Perché quella faccia?» domandò, con un sopracciglio alzato.

    «Pensavo si trattasse solo di una frana, non mi hanno parlato di vittime.»

    «Piuttosto tu, cosa ci fai qui? La polizia di Stato è così ricca da mandare un ispettore per una frana?»

    «Dove vivi, su Marte? Da te il Covid non esiste?»

    «Cavolo, siete dimezzati… anche voi.»

    «Anche peggio…», affermai seccata. «Quindi, dimmi: perché sei qui?»

    «La frana si è portata dietro alcune bare, due di queste si sono aperte, e qualcuno dovrà pur portare i resti di chi riposava in pace alla medicina legale. Come vedi, anche su Marte è arrivato il Covid», sarcastico.

    Ci dirigemmo, entrambi sotto lo stesso ombrello, verso la zona delimitata dal nastro segnaletico.

    «Via da lì!» urlò un vigile del fuoco. «Ah, è lei, ispettore, per fortuna è qui. Intanto spostiamoci, con questa pioggia potrebbe ancora franare.»

    Ci spostammo sotto l’ingresso di una delle gallerie dei loculi.

    «La frana si è schiantata sopra a un’abitazione, al momento impossibile da raggiungere.»

    «Intende che dobbiamo stare con le mani in mano, mentre magari c’è qualche persona da salvare?»

    «Non possiamo fare altro. L’elicottero, al buio e in queste condizioni meteorologiche, non si alza, e fintantoché non smette di piovere il terreno è friabile e scivoloso. Non riusciremmo a raggiungere nemmeno le bare», gridò correndo via.

    Guardai Marino Piano sconsolata e presi il telefono.

    «Capo, mi dispiace per l’ora, qui c’è un gran casino, ma nulla, almeno all’apparenza, che riguardi la omicidi.»

    «Allora tu cosa ci fai lì?» chiese acido.

    «Me lo chiedo anch’io, ma mi è toccata la reperibilità di Vari. Ricordi, il Covid, il personale sempre risicato, il…»

    «Ho capito, ho capito… direi che, se non c’è nulla per noi, torna pure a dormire. Mi farai rapporto domani mattina. Buonanotte.»

    «Dottore, venga!» sbraitò qualcuno.

    Ormai ero sveglia, e niente e nessuno mi avrebbe fatto addormentare. Decisi di seguire Marino.

    Marino Piano fu il primo amore della mia vita. Eravamo due adolescenti quando iniziammo a frequentarci. Una storia che durò per tutti gli anni del liceo per poi spezzarsi quando, crescendo, ci rendemmo conto, o meglio mi resi conto che dovevo scegliere fra gli studi e la carriera o la vita da brava casalinga infelice. Scelsi la prima opzione.

    Il caso volle, dopo più di dieci anni, che ci ritrovammo sullo stesso caso di omicidio; la solita lite iniziata a male parole per sfociare in una coltellata ben data. Ai tempi ero un’agente con funzioni operative e di pronto intervento, Marino un assistente dell’istituto di medicina legale. Quando mi riconobbe, gli si stampò in faccia il dolore che gli inflissi anni prima, ma ormai il tempo aveva provveduto a rimarginare le ferite. Non fu difficile instaurare un nuovo rapporto di amicizia e stima.

    «Ehi, ispettore, ti sei incantata?», mi prese per un braccio Marino.

    Le lampade alogene accese sulla zona franata misero in evidenza un corpo vicino a una delle due bare.

    «Sono Dario Bonelli, il custode del cimitero», si presentò l’uomo avvicinandosi.

    «Sono l’ispettore Maria Diletti.»

    «Ho stampato la cronologia delle tumulazioni avvenute nell’anno, ma nessuna così fresca da giustificare quel corpo integro che si intravede là sotto.»

    «La ringrazio», gridai. La pioggia forte sovrastava ogni altro rumore. Mi guardai attorno alla ricerca di Marino che era sparito dalla vista.

    «Dov’è il dottor Piano?» chiesi a un agente.

    «L’ho visto entrare nell’ufficio cimiteriale.»

    «E dove si trova?»

    «Segua questo sentiero, sempre dritto. Vede là in fondo quella costruzione? Sono gli uffici.»

    «Grazie!»

    «Ispettore, prenda.»

    Mi porse un telo parapioggia ancora ripiegato.

    «Che Dio la benedica!»

    Con passo deciso mi diressi verso gli uffici, ma a metà strada vidi

    Marino uscire.

    «Cosa ci fai così bardato?»

    «Mi hanno garantito un corridoio in sicurezza per raggiungere il cadavere.»

    «Dammi una tuta che scendo con te.»

    «Non se ne parla proprio», rispose secco, proseguendo dritto verso i vigili del fuoco che lo attendevano con l’imbragatura da discesa.

    Mi avvicinai il più possibile per forzare il confine delimitato, ma mi fu impedito. Mi accontentai di un angolo da cui godevo di una visuale quasi perfetta di Marino già al lavoro.

    La pioggia cessò e la fioca luce del giorno iniziò a intravedersi fra le nuvole che diradavano.

    «Ispettore,» urlò Marino Piano «temo sia diventato un tuo caso.»

    2

    Mi infilai la tuta in polipropilene e mi feci calare vicino a Marino.

    «È il cadavere di una bambina. Guarda il collo, sembra sia stata attaccata da un cane.»

    «Santo cielo! Come ci è arrivata qui una bambina?»

    «Questo sarà compito tuo. Da parte mia, appena il questore ci darà il via, la porterò in istituto.»

    «Ispettore, è forse impazzita?» gridò una voce.

    «Parlavi del diavolo…», ironizzai con Marino. «Questore Spatafora, è sicuro, può scendere anche lei.»

    «Salga e velocemente!» urlò.

    Obbedii. Spatafora nervoso ci avrebbe reso le cose difficili.

    «Il nostro ispettore sprezzante del pericolo. Cosa mi dice?»

    «Il cadavere è di una bambina di circa dieci anni, con una chiara ferita da morso di cane, che ne ha provocato, apparentemente, la morte. Il dottor Piano sarà più preciso dopo l’autopsia.»

    «Cosa aspettate!» urlò di nuovo. «Portate via il cadavere!»

    Mi mise in mano il foglio firmato con il nullaosta per la rimozione del corpo e se ne andò.

    Rimasi pensierosa, con il foglio in mano. Spatafora, con la sua arroganza e superiorità, riusciva sempre a rovinarmi l’umore, ma i miei pensieri andavano ben oltre quel cadavere, che nulla aveva a che vedere con la scena della frana. Dove ci avrebbe condotti?

    Il suono del telefono mi scosse dai pensieri. Era il mio vice.

    «Amore, come stai?»

    «Tampone negativo, rientro in servizio.»

    «Arrivi giusto per una bella gatta da pelare. Ci vediamo in ufficio.

    Bentornato.»

    Il viceispettore Andrea Pancaldi era l’uomo della mia vita da circa vent’anni. Non avevamo mai parlato di convivenza o matrimonio, ambedue non ne eravamo portati, ma l’amore, l’amicizia e la stima che provavamo l’uno per l’altra ci tenevano uniti in un rapporto bellissimo.

    «Perché, anziché andare in ufficio, non passi ad accertarti che il tampone sia negativo? Ti aspetto» mi stuzzicò.

    Avvisai il commissario Celeste che sarei passata da casa a cambiarmi e mi diressi da Andrea.

    3

    «Ciao Pancaldi, bentornato» ripetevano i colleghi.

    «Diletti e Pancaldi, la mia squadra del cuore. Come stai, viceispettore?» ci accolse il commissario.

    Adelmo Celeste, oltre a essere il mio diretto superiore, era anche un caro amico di vecchia data. Le nostre famiglie si frequentavano dagli anni delle scuole superiori, quegli amici rari, sposati fra di loro e rimasti tali in vecchiaia. Non nego che ambedue le famiglie sperarono, più volte, di vedere i figli insieme, ma noi eravamo solo buoni amici, anzi fratelli, e con un fratello non puoi avere rapporti diversi da quelli familiari.

    «Notizie da Piano?» chiesi.

    «Ancora nessuna, ma tu, che sei stata sul luogo, che idea ti sei fatta?»

    «Penso che il corpo della bambina sia stato nascosto in quella bara, e che il destino si sia messo in mezzo per farcelo ritrovare. Segnalazioni di bambini scomparsi?»

    «Nessuna, o comunque non negli ultimi due mesi. Grazie a Dio.»

    «Sarà pure grazie a Dio, ma questo sarà il fatto dell’anno», commentai seria.

    «Oh, lo diventerà eccome. Mara Mezzani è già all’opera.»

    Mara Mezzani, una giornalista che non era mai riuscita a lavorare per importanti testate, si era creata un suo blog, molto seguito dalla scia dei complottisti, aumentata durante la pandemia. Avrebbe potuto crearci non pochi problemi di fronte a un caso simile.

    Il telefono sulla scrivania suonò, distogliendoci dal pensiero sulla

    Mezzani.

    «È il dottor Piano», bisbigliò Celeste, facendoci cenno di restare seduti. «Carissimo, cosa ci dice?»

    «C’è tanto da dire, sarebbe meglio veniste qui di persona.»

    «Arriviamo.» Celeste posò la cornetta sbuffando.

    Ci avviammo all’auto di servizio, con un giovane agente alla guida che ci stava aspettando.

    L’istituto di medicina legale della città di Torino si trovava in un’ala completamente rinnovata dell’ospedale Molinette, denominata Ala 13. Al quarto piano c’erano le sale autoptiche, quattro per la precisione, e le sale frigorifere, ma la zona 4, dedicata ai cadaveri non identificati, si trovava a un piano interrato e non faceva parte dell’ala messa a nuovo.

    L’ascensore si aprì su un corridoio poco illuminato, Marino Piano ci stava aspettando.

    «Dove ci troviamo?» chiese con voce lamentosa Celeste.

    «Ci troviamo nelle vecchie stanze di contenimento dell’ex reparto psichiatrico. Ora adibite a girone infernale. Abbiamo portato qui il cadavere della bambina per due ragioni: primo, perché al momento è sconosciuto; secondo, per evitare che i giornalisti inventino storie tutte loro.»

    «Cos’ha da dirci dottore?» tagliò corto Celeste.

    «Niente che potrà piacervi, ma entrate.»

    Ci introdusse direttamente nella sala autoptica. Il cadavere coperto troneggiava sul tavolo settorio.

    Marino scostò il lenzuolo. La vista di quella povera bambina, con quella lacerazione così profonda al collo, mi fece venire un conato. Portai una mano davanti alla bocca.

    «Tutto bene, Maria?» chiese Marino, guardandomi preoccupato.

    «Tutto a posto, grazie.»

    Non era certo mia intenzione mettermi a vomitare, ma il viso di quella ragazzina mi metteva a disagio. Avevo la sensazione di conoscerla.

    Una musichetta proveniente dal computer sulla scrivania distolse

    Marino dal proseguire le spiegazioni.

    «Scusate», disse avviandosi alla scrivania, «proprio quello che aspettavo. Il cadavere è stato riconosciuto dalle impronte digitali che ho mandato al Codex.» Lesse per qualche secondo e riprese a parlare: «Non vi piacerà quanto sto per dirvi.»

    «Non è tenendoci sulle spine che ci addolcirà la pillola. Parli!» lo incitò Celeste.

    «Sedetevi, è meglio.»

    Ci accomodammo sulle sedie attorno alla scrivania, pendenti dalle labbra di Marino che aveva deciso per tale teatrino.

    «Cecilia Donadio, nata a Torino il 15 marzo 1975, deceduta a Torino il 23 giugno 1986.»

    Non ressi all’emozione e mi accasciai sulla sedia.

    Mi svegliarono gli schiaffi di Marino e le voci di Celeste e Andrea che ripetevano il mio nome.

    «Bentornata fra noi, cosa succede?» mi chiese insospettito Celeste. Cercai di rimettere insieme le idee prima di iniziare a raccontare.

    «Cecilia Donadio. La conoscevo benissimo. Frequentavamo la stessa scuola, morì durante il rogo di piazza Vittorio, la discoteca Due di picche, vi ricordate?»

    «Sono passati trentasei anni, come può, quello, essere un cadavere così vecchio?» chiese Celeste, con voce roca.

    «Questo è il meno», commentò Marino sedendosi. «Il meglio ve lo racconto adesso, ma prima vado a prendervi un caffè. Maria è troppo pallida, deve buttar giù qualcosa di corroborante.»

    «La seguo», propose Celeste alzandosi dalla sedia.

    Restai sola con Andrea, che subito mi prese tra le braccia.

    «Stai un po’ meglio?» mi chiese accarezzandomi una guancia.

    «No, non sto meglio, si è riaperta una ferita che pensavo chiusa da anni.»

    Rientrarono Marino e Celeste, quest’ultimo mi porse un bicchierino di caffè delle macchinette. Lo bevvi e ripresi un po’ di vigore.

    «Vengo subito al dunque», iniziò Marino. «Il cadavere così ben conservato non è poi una cosa strana. Dipende dalle condizioni meteorologiche e del terreno, dal fatto che abbia preso o meno aria, insomma ci sono fattori che mummificano un corpo anziché decomporlo. Non nego, comunque, che questa sia una mummificazione da Guinness dei primati. La questione, però, è che la ferita, o meglio il morso, che ha portato alla morte la bambina, non sia stato quello di un cane, bensì umano.»

    Restammo disorientati e increduli a fissare Marino Piano che ci proferisse ulteriori spiegazioni.

    «Umano, ma non solo. L’arcata dentale, che si nota perfettamente in un lato della ferita, corrisponde a quella di un bambino o bambina − questo ce lo dirà il DNA − di circa la stessa età della morta. Dieci anni, forse undici.»

    «Dottor Piano, a cosa siamo davanti?» domandò Celeste.

    «Saperlo…», rispose Marino sconsolato.

    Un click! mi segnalò l’arrivo di un messaggio telefonico. Lessi.

    «Mi confermano che la salma di Cecilia era sepolta lì, e che al tempo chiusero il caso come un incidente. Precisamente, il medico legale stabilì che la ferita al collo era stata provocata dal distacco di un lampadario a luce stroboscopica: i vetri tranciarono la carotide destra, provocando la morte per dissanguamento. Fu la sola a morire non per le conseguenze dell’incendio. Altre ragazzine − vi ho inviato via mail il certificato di morte stilato all’epoca − perirono bruciate, altre soffocate dal fumo. Tredici in tutto.»

    «Dobbiamo sperare di trovare ancora in vita qualcuno di quelli che si dedicarono all’indagine. Chiedo a Spatafora», bofonchiò Celeste, alzando lo sguardo al soffitto e stringendo i pugni.

    Salutammo Marino Piano e ritornammo all’auto di servizio.

    Nel silenzio, lungo il tragitto che ci avrebbe riportati in commissariato, mi immersi nei miei pensieri.

    4

    Sono nata e vissuta a Torino, una città bellissima quanto misteriosa. Situata nella metà esatta dell’emisfero boreale, sul 45° parallelo, fra i fiumi Po e Dora, interpretati come il maschile e il femminile, Torino è un importante polo energetico.

    Le misteriose energie della città, i simboli esoterici e gli eventi nefasti mai risolti erano oggetto delle più animate discussioni fra i giovani amanti dell’occulto.

    La mia famiglia possedeva una piccola attività con discreti profitti, tanto da potermi iscrivere a una scuola privata religiosa. Una sicurezza per il futuro, a detta di mio padre; un futuro nella presenza di Dio, a detta di mia madre.

    Ricordo nitidamente il primo giorno di scuola. Il breve viaggio in auto, con i miei genitori che non facevano altro che decantarmi la fortuna che avevo a frequentare una scuola di quel livello. Silenziosa, guardavo fuori dal finestrino il paesaggio che cambiava, man mano che l’auto si inerpicava sulla strada collinare. A un certo punto mio padre girò su una stradina secondaria che si inseriva in un bosco. L’angoscia mi attanagliò. Tentai così un approccio grottesco, nella speranza di vedere l’auto fare marcia indietro, iniziai a piangere disperata, implorando di ritornare a casa.

    Terminato il bosco, ci trovammo davanti a un cancello che presumevo portasse al diavolo, anziché a scuola. Immaginai l’auto risucchiata, oltre il cancello infernale, da un vortice di vento che ci avrebbe lasciati in una dimensione diversa. Tentai di nuovo il teatrino del pianto.

    Mi ritrovai, tenuta saldamente per mano dai miei genitori, davanti all’ingresso dell’istituto.

    Alcune bambine facevano il girotondo attorno a una donna dallo sguardo dolce e la voce gentile: la signorina Adelina Della Carnia, la maestra. Ci raggiunse e si presentò.

    Spronata dalla stessa insegnante, raggiunsi le bambine che stavano ancora cantando in cerchio, due di loro lasciarono la stretta di mano e mi accolsero nel gioco.

    «Io sono Ada», si presentò la bambina alla mia destra. Rimasi a bocca aperta a fissarla, non avevo mai visto una bambina così alta.

    «Io sono Ludmilla», cantilenò la bambina alla mia sinistra.

    «Io sono Maria», risposi, seguendo l’andamento del cerchio.

    Con la coda dell’occhio vidi i miei che se ne andavano, ma io non avevo più paura di nulla.

    La maestra Adelina ci accompagnò in classe, dove ci esortò a scegliere un posto a nostro piacimento.

    «Maria!» Mi girai verso il suono della voce. La bambina con quel nome strano mi invitava a sedermi vicino a lei. «Possiamo diventare compagne di banco, se ti va.»

    Quel momento scandì la nostra amicizia. Diventammo inseparabili. Ludmilla mi considerò fin da subito la sua migliore amica, l’unica, a detta sua, con cui poteva confidarsi e dormire tranquilla fra due cuscini.

    La sua famiglia era assai ristretta, composta da lei e il nonno. Nonno Robert, era solita chiamarlo. I suoi genitori non li conobbi mai, diceva fossero due archeologi in giro per il mondo alla scoperta di tesori antichi.

    La vita di Ludmilla era costellata da una serie di regole, a me incomprensibili: niente mensa per ragioni di salute, seguiva una dieta composta da pochi cibi perché allergica; niente uscite serali; niente contatti con animali; era esentata dall’ora di religione e dall’andare a messa. Stato di grazia il suo.

    Ero affascinata dalle sue caratteristiche, anche se a volte sapeva essere perfida. Il suo carattere altalenante causò parecchie liti nel periodo della nostra amicizia. Sapeva passare dalla dama ottocentesca allo scaricatore di porto del ventesimo secolo, soprattutto se veniva pressata su cose che lei riteneva inutili considerare, per esempio fare entrare nel nostro cerchio della fiducia altre amiche.

    A scuola Ludmilla era tra le migliori della classe, battuta solo dalla bambina altissima, Ada; a quest’ultima erano riservati elogi più elevati perché frequentava l’ora di religione e andava a messa.

    In quanto al rapporto con il resto della classe, Ludmilla possedeva il record negativo. La chiamavano strega e le altre bambine avevano paura di lei. Qualcuna affermava di averla vista uccidere piccoli animali nel cortile della scuola, altre dicevano che con il suo sguardo ti ammaliava. In tutto questo io ero l’ago della bilancia fra il quieto vivere del resto della classe e fra noi due. Ovviamente l’ago girava sempre a suo favore.

    Passarono i cinque anni delle elementari e arrivò la fine dell’anno scolastico 1986, che avrebbe scandito il passaggio alle scuole medie. Il consiglio scolastico, formato da insegnanti e genitori, decise di organizzare una grande festa presso una delle discoteche della città, il Due di picche. L’invito era per venerdì 27 giugno nel pomeriggio. I biglietti d’invito arrivarono a tutte, tranne che a Ludmilla. Ricordo che suo nonno si presentò a casa mia, spiegando l’accaduto e pregando i miei di non farne parola con nessuno: Ludmilla non avrebbe dovuto sapere che a lei non era arrivato l’invito. Poco dopo che il signor Robert, come ero solita chiamarlo, lasciò la mia casa, Ludmilla mi telefonò scusandosi, ma non avrebbe potuto partecipare alla festa perché i suoi genitori sarebbero tornati proprio in quel giorno. Sapevo essere una scusa, ma avevo giurato che mai avrei detto a lei la verità.

    Attesi l’evento senza entusiasmo, odiavo le bambine della classe, ma nello stesso tempo, considerato il giuramento, non potevo dire loro ciò che pensavo.

    Il destino pensò per me, e il giorno della festa mi svegliai con la febbre. Passai la giornata nel letto, dormicchiando o guardando la televisione. Più volte, nel pomeriggio, sentii mia madre concitata al telefono. Non capivo cosa stesse succedendo ma nemmeno me ne importava, intontita com’ero dalla febbre.

    Il mattino seguente mia madre venne a svegliarmi con in mano il vassoio con la colazione e notai subito il suo viso rigato di lacrime.

    «Perché piangi, mamma? Io sto meglio.»

    «Grazie a Dio, tu stai meglio e sei qui, viva e vegeta. È successo qualcosa di terribile», terminò la frase fra i singhiozzi.

    Vidi entrare mia nonna dalla porta della camera.

    «Nonna!» esclamai. «Nonna, quando sei arrivata?» Fui così felice di vederla che dimenticai le lacrime di mia madre.

    «Bambina mia, sono arrivata questa mattina, ma ho preferito lasciarti dormire, così la febbre se ne andrà», rispose stringendomi in un caldo abbraccio.

    Il momento idilliaco venne interrotto quando le due donne si sedettero accanto a me nel letto.

    «C’è una cosa terribile che devi sapere», singhiozzò mia madre. «La festa di ieri…»

    Lasciai sgarbatamente la mano che mia madre mi teneva. «Non voglio saperne niente.»

    «Ascoltami», insistette mia madre, «c’è stato un incidente», ebbe la mia attenzione «tante tue compagne di scuola sono morte.»

    Mi raccontò dell’incendio e quanto poteva bastare a una bambina di dieci anni. Non piansi, ero così arrabbiata con tutte quelle bambine che, inconsciamente, ero quasi dispiaciuta che non fossero tutte morte. In parte avevano avuto ciò che si meritavano per aver offeso la mia migliore amica, peraltro graziata dalla sua assenza alla festa. I cattivi pensieri si trasformarono presto in senso di colpa per averli solo presi in considerazione, dando sfogo alla disperazione.

    I funerali si svolsero con rito collettivo nella cappella dell’istituto, alla presenza delle autorità cittadine e di migliaia di persone: familiari, conoscenti e curiosi. Mancava Ludmilla.

    L’avevo sentita i giorni prima dei funerali al telefono, sembrava tanto impegnata e disinteressata alle mie domande circa la sua presenza, tanto da evitare di rispondere. Provai a chiamarla anche il mattino dei funerali, ma fu inutile. Pensai fosse fuori con i suoi genitori. Mi telefonò lei, la sera stessa.

    «Ciao Maria, non possiamo più vederci, sto partendo con i miei genitori.»

    Ricevetti una doccia fredda.

    «Così, all’improvviso? Non mi avevi detto niente…» replicai.

    «Eri impegnata con le tue amiche. Ma adesso devo proprio salutarti. Addio.»

    Non mi diede il tempo di ricambiare il saluto. Attaccò. Terminò così l’amicizia con quella bambina speciale.

    Passai giorni malinconici e di rabbia, non capivo come Ludmilla avesse potuto essere così sgarbata. Le vacanze al mare fecero da medicina, la dimenticai.

    5

    «Siamo arrivati.» Qualcuno mi scosse dal torpore dei pensieri e dalla vergogna per alcuni di essi.

    Ritornai alla realtà e scesi dalla berlina di servizio per entrare in commissariato.

    «Ispettore Diletti, un uomo, che dice di

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