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Revenge of the Ghost (La vendetta del fantasma)
Revenge of the Ghost (La vendetta del fantasma)
Revenge of the Ghost (La vendetta del fantasma)
E-book185 pagine2 ore

Revenge of the Ghost (La vendetta del fantasma)

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Info su questo ebook

Una storia raccontata in una trilogia di libri, che sembrava finita, torna a rivivere nell’animo di chi nel peggiore dei modi l’ha vissuta. Venire a conoscenza dopo tanti anni e solo nel giorno della sua morte, che il proprio genitore è quella persona che hai per tanto tempo ammirato, ti avvilisce e ti getta nello sconforto. Il disprezzo verso chi è stato la causa della sua dipartita, non riesci a contenere, così spesso sfocia nel desiderio di vendetta.

La fatica di tornare a ricomporre quel branco di lupi che per anni è stato ai comandi di un alfa umano è davvero difficile. Saranno ancora loro a determinare certe situazioni incresciose, che si verranno a creare con il passare dei giorni. Saper riconoscere nei nuovi alfa l’amore che per tanti anni li ha uniti al loro capobranco, far ritrovare e provare lo stesso amore a due sorelle che mai si erano conosciute, lo si deve a loro. I giorni di paura e di tensione torneranno a fare breccia in certi animi scombussolandone l’esistenza. Desideri e finti amori si mescoleranno a quelli veri, ognuno con le proprie finalità: di vita e di morte.

Si cercherà nella speranza quello che difficilmente accade. Quel forse, di un domani migliore, che sarà lo scudo del proprio io per cercare di vivere e di dimenticare ogni sopruso e violenza subita.
LinguaItaliano
Data di uscita15 apr 2020
ISBN9788831668231
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    Revenge of the Ghost (La vendetta del fantasma) - Virginio Giovagnoli

    IL MIO PENSIERO DI APERTURA.

    Gior­ni…me­si…an­ni di tor­men­ti.

    Por­ta­ti dal pe­re­gri­nar del tem­po da mal­va­gie gen­ti.

    Due col­pi di pi­sto­la al pet­to.

    Que­sto è il lor vo­ler per il ri­spet­to.

    Vi­ci­no e lon­ta­no da­gli af­fet­ti, ina­spet­ta­ta è la mor­te.

    Di mol­te vi­te cam­bie­rà la sor­te.

    Si spar­gon le ce­ne­ri sul­la pia­na dei de­si­de­ri.

    La sua om­bra aleg­gia in tan­ti pen­sie­ri.

    Si pen­sa la ven­det­ta che par­te dal cuo­re.

    Si vuol ta­ci­tar un tre­men­do do­lo­re.

    Fi­glie di di­ver­si amo­ri si uni­scon nel tor­men­to.

    Por­te­ran scom­pi­glio co­me il tur­bi­nar del ven­to.

    Si of­fre l’amor de­si­de­ran­do la mor­te.

    So­pru­si e mi­nac­ce re­che­ran ma­la­sor­te.

    Si cer­ca e si tro­van bran­chi di al­lea­ti.

    Per bo­schi e per val­li giun­gon mi­nac­cio­si i lo­ro ulu­la­ti.

    La fan­ta­sia del po­po­lo nei pae­si si dif­fon­de.

    Ti­mo­re e pau­ra de­gli uo­mi­ni ogni men­te con­fon­de.

    Si ar­ro­vel­lan nell’in­tel­let­to un’in­fi­ni­tà di pen­sie­ri.

    Si ar­chi­tet­tan stra­te­gie per nuo­vi vo­le­ri.

    In­tri­ghi e in­gan­ni per al­te­rar le men­ti.

    Scor­re­rà san­gue di mal­va­gie gen­ti.

    Di pa­ro­le non scrit­te, ma sol di giu­ra­men­ti.

    Si at­te­nue­ran do­lo­ri e spa­ri­ran tor­men­ti.

    Tut­to si fa e si di­sfa nel­la vi­ta.

    Al­to il mio pen­sier si er­ge: di un vi­ver che non è mai fi­ni­ta.

    INTRODUZIONE

    Una sto­ria rac­con­ta­ta in una tri­lo­gia di li­bri, che sem­bra­va fi­ni­ta, tor­na a ri­vi­ve­re nell’ani­mo di chi nel peg­gio­re dei mo­di l’ha vis­su­ta. Quan­do non si ot­tie­ne giu­sti­zia, è fa­ci­le di­re de­vi per­do­na­re, ma se tu sei l’og­get­to di un'in­fi­ni­tà di ne­fan­dez­ze, riu­scir­ci è tutt’al­tra co­sa. Il suo ri­cor­do tra­va­li­che­rà ogni scrit­to e chi l'ha ama­to, lo ri­por­te­rà in vi­ta nel­la real­tà del­la pro­pria fan­ta­sia.

    Ve­ni­re a co­no­scen­za do­po tan­ti an­ni, so­lo nel gior­no del­la sua mor­te, che il tuo ge­ni­to­re è quel­la per­so­na che hai per tan­to tem­po am­mi­ra­to, ti av­vi­li­sce e ti get­ta nel­lo scon­for­to. Il di­sprez­zo ver­so chi è sta­to la cau­sa del­la sua di­par­ti­ta non rie­sci a con­te­ne­re, co­sì spes­so sfo­cia nel de­si­de­rio di ven­det­ta.

    Giu­di­ca­re il com­por­ta­men­to o quel­lo che ac­ca­de agli al­tri è fa­ci­le e me­schi­no, più dif­fi­ci­le è giu­di­ca­re se stes­si nel­le me­de­si­me si­tua­zio­ni.

    Fi­nal­men­te, do­po tan­ti an­ni, si pos­so­no co­no­sce­re tut­ti fra lo­ro, in si­tua­zio­ni del tut­to ano­ma­le. Fra­tel­li e so­rel­le di un uni­co pa­dre e di tre ma­dri. Sem­pre pron­ti a ten­der­si una ma­no l’un l’al­tro, nei gior­ni bui di una ri­na­ta sof­fe­ren­za. Que­sta è la ve­ra sod­di­sfa­zio­ne che può ren­de­re la vi­ta pie­na, vi­vi­bi­le e ri­dar­le un sen­so.

        La fa­ti­ca di tor­na­re a ri­com­por­re quel bran­co di lu­pi che per an­ni è sta­to ai co­man­di di un al­fa uma­no è dav­ve­ro dif­fi­ci­le. Sa­ran­no an­co­ra lo­ro a de­ter­mi­na­re cer­te si­tua­zio­ni in­cre­scio­se che si ver­ran­no a crea­re con il pas­sa­re dei gior­ni. Sa­per ri­co­no­sce­re nei nuo­vi al­fa l’amo­re che per tan­ti an­ni li ha uni­ti al lo­ro ca­po­bran­co, far ri­tro­va­re e pro­va­re lo stes­so amo­re a due so­rel­le che non sa­pe­va­no di es­ser­lo, si de­ve a lo­ro. Quan­to avrem­mo da im­pa­ra­re dal­le be­stie e da­gli ani­ma­li do­me­sti­ci che vi­vo­no e che spes­so per no­stra in­cu­ria, so­prav­vi­vo­no in­sie­me con noi.

        I gior­ni di pau­ra e di ten­sio­ne tor­ne­ran­no a fa­re brec­cia in cer­ti ani­mi scom­bus­so­lan­do l’es­se­re stes­so. De­si­de­ri e fin­ti amo­ri si me­sco­le­ran­no a quel­li ve­ri, ognu­no con le pro­prie fi­na­li­tà di vi­ta e di mor­te.

        Si cer­che­rà nel­la spe­ran­za quel­lo che dif­fi­cil­men­te ac­ca­de. Quel for­se, di un do­ma­ni mi­glio­re, sa­rà lo scu­do del pro­prio io, per cer­ca­re di vi­ve­re e di­men­ti­ca­re ogni vio­len­za e so­pru­so su­bi­to in tan­ti an­ni, lun­go i mar­cia­pie­di del­la vi­ta.

    OGNI RI­FE­RI­MEN­TO A NO­MI PER­SO­NAG­GI O FAT­TI REAL­MEN­TE AC­CA­DU­TI É PU­RA­MEN­TE CA­SUA­LE O DI FAN­TA­SIA.

    L’au­to­re

    Vir­gi­nio Gio­va­gno­li

    I primi dolorosi ricordi

    Mi chia­mo Spe­ran­za. So­no na­ta nell’apri­le del 1989 da una re­la­zio­ne ex­tra­co­niu­ga­le di mio pa­dre, ve­nu­to­si a tro­va­re in un mo­men­to par­ti­co­la­re e dif­fi­ci­le del­la sua vi­ta. In que­gli an­ni era la­ti­tan­te al­la mac­chia es­sen­do sta­to ac­cu­sa­to di un ef­fe­ra­to de­lit­to, mai com­mes­so. Un gior­no gi­ro­va­gan­do nei bo­schi in cer­ca di un na­scon­di­glio si­cu­ro, in­con­trò in una ca­sci­na del co­mu­ne di Mer­ca­tel­lo sul Me­tau­ro mia ma­dre di no­me Eva. In quel pe­rio­do, an­che lei sta­va at­tra­ver­san­do un mo­men­to piut­to­sto brut­to. In­fat­ti, suo ma­ri­to l’ave­va la­scia­ta, per­ché l’in­col­pa­va di non aver­gli da­to dei fi­gli. In se­gui­to si sco­pri­rà che di­pen­de­va esclu­si­va­men­te da lui. La mia vi­ta è sta­ta scom­bus­so­la­ta in con­ti­nua­zio­ne per col­pa di sog­get­ti ma­fio­si. Og­gi è dav­ve­ro una gior­na­ta dav­ve­ro tri­ste per me, per mia ma­dre e il mio fra­tel­li­no. Un kil­ler ha uc­ci­so mio pa­dre. Que­sto è tut­to ciò che ri­cor­do, che co­me un fla­sh con­ti­nua a pro­por­si nel­la mia men­te.

    So­no le tre­di­ci del quat­tor­di­ci set­tem­bre 2014. In un pic­co­lo ri­sto­ran­te, po­co lon­ta­no dal­la cit­tà di Gal­li­po­li, re­gna il caos. Mol­te per­so­ne so­no ac­cor­se ver­so i ba­gni, do­po aver sen­ti­to due spa­ri, men­tre l’ese­cu­to­re ma­te­ria­le si di­le­gua in tut­ta tran­quil­li­tà.

        «Fran­ce­sco, che co­sa è ac­ca­du­to?», do­man­da uno dei due ca­me­rie­ri pre­sen­ti in sa­la.

        «Cre­do ab­bia­no spa­ra­to a quel si­gno­re che è en­tra­to die­ci mi­nu­ti fa. Non so­no riu­sci­to a sa­pe­re chi sia, ma pen­so sia mor­to».

        «Com’è pos­si­bi­le? Si sa chi è sta­to e per­ché?».

        «No! È suc­ces­so tut­to co­sì in fret­ta. Quel­lo che ha spa­ra­to l’ho ap­pe­na in­tra­vi­sto quan­do usci­va dal ba­gno, ma non sa­prei dir­ti chi era, for­se nean­che ri­co­no­scer­lo. Da que­ste par­ti non l’ho mai vi­sto, ma or­mai sa­rà piut­to­sto lon­ta­no».

        «Po­ve­rac­cio! Era ve­nu­to per sta­re un po’ in pa­ce e pran­za­re in­sie­me ai suoi fa­mi­glia­ri, in­ve­ce. Sen­ti le ur­la. Sa­ran­no si­cu­ra­men­te la mo­glie e i fi­gli. Spe­ro che pren­da­no quel vi­gliac­co che l’ha am­maz­za­to».

    L’ar­ri­vo di una vo­lan­te dei ca­ra­bi­nie­ri e di un mez­zo del pron­to soc­cor­so, pla­ca la con­ci­ta­zio­ne ve­nu­ta­si a crea­re. Com­piu­ti tut­ti i ri­lie­vi e le for­ma­li­tà dell’ora del de­ces­so, la sal­ma è su­bi­to tra­spor­ta­ta nell’obi­to­rio dell’ospe­da­le più vi­ci­no. Do­po l’au­top­sia, trat­tan­do­si di mor­te vio­len­ta, è re­sti­tui­ta ai fa­mi­glia­ri. So­no pas­sa­te più di set­tan­ta­due ore dal rea­to. Avu­ti i re­la­ti­vi per­mes­si dal co­mu­ne do­ve è av­ve­nu­to il mi­sfat­to, si pro­ce­de per la cre­ma­zio­ne. Ve­ner­dì ven­ti­sei set­tem­bre le ce­ne­ri so­no tra­sfe­ri­te nel co­mu­ne di re­si­den­za del de­fun­to. Il pae­se do­ve è na­to e do­ve ha vis­su­to la mag­gior par­te dei suoi an­ni. La mo­glie e fi­gli abi­ta­no an­co­ra lì. Ter­mi­na­ta la bre­ve fun­zio­ne re­li­gio­sa, scen­de il si­len­zio nel pic­co­lo ci­mi­te­ro di Bel­for­te all’Isau­ro, in pro­vin­cia di Pe­sa­ro e Ur­bi­no. Cin­que o sei per­so­ne stan­no par­lot­tan­do vi­ci­no al can­cel­lo d’en­tra­ta. As­sie­me a lo­ro c’è un ca­pi­ta­no dei ca­ra­bi­nie­ri.

        «Sen­ta Man­cu­so, io so­no Spe­ran­za, im­ma­gi­no che lei si ri­cor­di di me. Noi cin­que sia­mo tut­ti fi­gli del de­fun­to: quel­li avu­ti dal­la mo­glie e quel­li avu­ti dal­la sua com­pa­gna, che poi sa­reb­be mia ma­dre Eva. Non sap­pia­mo an­co­ra nul­la: né chi sia l’au­to­re del ge­sto cri­mi­na­le, né il man­dan­te o man­dan­ti e nean­che il per­ché. Lo im­ma­gi­nia­mo sol­tan­to. Lei può dar­ci una ma­no per ve­ni­re a ca­po di que­sto ef­fe­ra­to de­lit­to?».

        «Non mi pa­re che que­sto sia il mo­men­to e nem­me­no il luo­go adat­to. Se non sba­glio, do­ma­ni voi sie­te im­pe­gna­ti, co­sì mi è par­so di sen­ti­re dai di­scor­si che sta­va­te fa­cen­do. Mi di­spia­ce, pe­rò il gior­no se­guen­te che ca­de di do­me­ni­ca, sa­rò io a es­se­re oc­cu­pa­to. Lu­ne­dì po­trem­mo in­con­trar­ci. Pen­so che ab­bia­te la ne­ces­si­tà di fer­mar­vi qual­che gior­no. Co­mun­que de­ci­dia­te fa­te­me­lo sa­pe­re, co­sì pren­de­re­mo ac­cor­di».

        «Va be­nis­si­mo lu­ne­dì mat­ti­na. Pri­ma di ve­ni­re le te­le­fo­no per av­vi­sar­la. Per fa­vo­re non di­ca nul­la a mia ma­dre. Per il mo­men­to non ho nes­su­na in­ten­zio­ne d’in­for­mar­la di che co­sa in­ten­do fa­re, è già ab­ba­stan­za as­sen­te e an­go­scia­ta. In se­gui­to ve­drò».

    «Lo im­ma­gi­no e la ca­pi­sco, ma non si pre­oc­cu­pi si­gno­ri­na, ri­ma­nia­mo d’ac­cor­do co­sì?».

        «Va be­nis­si­mo gra­zie».

    Ter­mi­na­ta la bre­ve con­ver­sa­zio­ne, l’uf­fi­cia­le dei ca­ra­bi­nie­ri si al­lon­ta­na per an­da­re a sa­lu­ta­re le due don­ne, che stan­no chiac­chie­ran­do in di­spar­te. Do­po po­chi mi­nu­ti ci sa­lu­ta con una ma­no e se ne va per tor­na­re in te­nen­za, men­tre lo­ro due si av­vi­ci­na­no a noi. Han­no en­tram­be gli oc­chi ar­ros­sa­ti dal pian­to, ma fi­nal­men­te do­po tan­to mu­ti­smo si par­la­no, an­che se il to­no non può de­fi­nir­si né ami­che­vo­le, né con­fi­den­zia­le.

        «Ve­de si­gno­ra, que­ste po­che ri­ghe so­no sta­te scrit­te da suo ma­ri­to. So­no pa­ro­le che tan­te vol­te mi ha det­to e ri­pe­tu­to nel cor­so de­gli an­ni. Il suo de­si­de­rio più gran­de è sta­to sem­pre quel­lo di spar­ge­re, al­me­no una pic­co­la par­te del­le sue ce­ne­ri, nel­la pia­na di Cam­po: la co­sì det­ta sa­la da bal­lo. Io pen­so che non ci sia nul­la di ma­le. Ri­cor­do che, quan­do gli fa­ce­vo no­ta­re che ci vo­le­va­no dei per­mes­si, mi ri­spon­de­va: Che co­sa vuoi che sia, ba­sta tra­fu­gar­ne un sem­pli­ce cuc­chia­io o due, le al­tre la­scia­te­le nell’ur­na vi­ci­no al­le spo­glie dei miei ge­ni­to­ri. Non vo­glio far­vi am­mat­ti­re an­che do­po mor­to. L’ho fat­to an­che trop­pe vol­te in vi­ta».

    Sa­ba­to ven­ti­set­te, sul­la pia­na una de­ci­na di mac­chi­ne so­no fer­me in mez­zo al pra­to. Lui­gi, il più pic­co­lo dei fra­tel­li, in di­spar­te, se­mi­na­sco­sto, sta pian­gen­do som­mes­sa­men­te. Im­prov­vi­si quan­to ina­spet­ta­ti, de­ci­ne di ulu­la­ti pro­ve­nien­ti dal bas­so, rie­cheg­gia­no tutt’in­tor­no. Sì, so­no pro­prio lo­ro: i lu­pi di mio pa­dre. Gli era­no dav­ve­ro af­fe­zio­na­ti. Han­no sem­pre cer­ca­to di pro­teg­ger­lo. Quan­do li ha la­scia­ti l’ul­ti­ma vol­ta, per ve­ni­re a pas­sa­re qual­che gior­no di ri­po­so da noi a Gal­li­po­li, era­no piut­to­sto tri­sti. Cre­do, an­zi so­no si­cu­ra, che pre­sa­gis­se­ro la sua di­par­ti­ta. No­to che il mio fra­tel­li­no ten­de l’orec­chio e aguz­za lo sguar­do, ma no­no­stan­te que­sto so­no si­cu­ra non rie­sca a ve­der­li. Or­mai è abi­tua­to a lo­ro e ne per­ce­pi­sce la pre­sen­za. An­ch’io mi ac­cor­go di quel­lo che sta ac­ca­den­do, ma fin­go di non ve­de­re e non sen­ti­re. An­co­ra so­no trop­po scos­sa e non vo­glio il­lu­der­mi, mi met­te­rei di nuo­vo a pian­ge­re, in­ve­ce de­vo far­mi for­za. Mia ma­dre è scon­vol­ta e mio fra­tel­lo non fa che spar­ge­re la­cri­me dal gior­no del­la sua scom­par­sa. De­vo per for­za cer­ca­re in tut­ti i mo­di di dar lo­ro un po’ di co­rag­gio, no­no­stan­te me ne sia ri­ma­sto dav­ve­ro po­co. Co­sì ogni vol­ta che so­no so­la, an­che se cer­co di na­scon­der­la, qual­che la­cri­ma mi scap­pa via.

    Si sta fa­cen­do not­te. So­no qua­si le di­cian­no­ve, quan­do i mez­zi ri­pren­do­no la via del ri­tor­no, la­scian­do­mi den­tro un in­fi­ni­to sen­so di vuo­to. Do­po un fru­ga­le pa­sto in un ri­sto­ran­te del luo­go, mia ma­dre, mio fra­tel­lo ed io, rien­tria­mo nel­la ca­sci­na di Mer­ca­tel­lo sul Me­tau­ro. Ci pre­pa­ra­no per la not­te. Nes­su­no di noi ha vo­glia di par­la­re. In un si­len­zio mu­to e cu­po ci ri­ti­ria­mo nel­le no­stre ri­spet­ti­ve ca­me­ret­te, e sdra­ian­do­ci nei let­ti cer­chia­mo di dor­mi­re. Mia ma­dre in­quie­ta, si gi­ra e ri­gi­ra da una spon­da all’al­tra del let­to, co­sì do­po un’ora cir­ca, si al­za e si av­via ver­so la cu­ci­na. Im­ma­gi­no che co­sa vo­glia fa­re: pre­pa­rar­si una ca­mo­mil­la. Mio fra­tel­lo, fi­nal­men­te si è tran­quil­liz­za­to e rie­sce ad ad­dor­men­tar­si. Io all’ap­pa­ren­za sem­bra che dor­ma, ma sto par­lan­do nel son­no. For­se gli in­cu­bi del­la tra­gi­ca mor­te di mio pa­dre mi han­no trau­ma­tiz­za­ta. D’im­prov­vi­so una lu­ce, men­tre un’om­bra si av­vi­ci­na fa­cen­do­mi sus­sul­ta­re.  «Pa­pà! Im­pos­si­bi­le! Che co­sa ci fai qui? C’è qual­che co­sa che di­stur­ba il tuo ri­po­so?».

        «Lo so a che co­sa stai pen­san­do fi­glio­la, ma stai at­ten­ta, la stra­da che vuoi in­tra­pren­de­re è ir­ta e pe­ri­co­lo­sa. Se­gui il mio con­si­glio: pen­sa­ci be­ne pri­ma di fa­re quel­lo che non do­vre­sti. Cre­di dav­ve­ro che sia una co­sa sem­pli­ce? Non è co­sì, te lo pos­so as­si­cu­ra­re. So­lo per pren­de­re con­tat­to con lo­ro mi ci so­no vo­lu­ti mol­ti gior­ni. Per far­mi ac­cet­ta­re e di­ven­ta­re il lo­ro ca­po­bran­co pa­rec­chie set­ti­ma­ne. Lo sai che me ne in­ten­do e che af­fer­mo la ve­ri­tà».

        «Di che co­sa stai par­lan­do?».

        «Non fin­ge­re con me. Ho per­ce­pi­to il tuo de­si­de­rio di ven­det­ta».

        «Ma no! Sta­vo so­lo ri­flet­ten­do su co­me fa­re per ave­re giu­sti­zia. Lo sai me­glio di me che cer­te per­so­ne se la ca­va­no sem­pre. Si sen­to­no i pa­dro­ni del mon­do. Que­sto non so­lo è in­giu­sto, ma non lo sop­por­to nep­pu­re. Con tut­ti i so­pru­si che ab­bia­mo do­vu­to su­bi­re nel cor­so di que­sti an­ni, mi pa­re più che na­tu­ra­le: chi ha sba­glia­to de­ve pa­ga­re. Per pri­ma co­sa an­drò a par­la­re con il tuo ami­co Man­cu­so. So, per­ché me l'ha det­to lui, che è an­co­ra a di­ri­ge­re la te­nen­za di Ur­bi­no, ma in pro­cin­to di es­se­re tra­sfe­ri­to do­po la pro­mo­zio­ne a ca­pi­ta­no. Da co­me ho ca­pi­to, la­sce­rà l’in­ca­ri­co a fi­ne mag­gio, o i pri­mi di giu­gno. For­se po­trà aiu­tar­mi. A Gal­li­po­li, no­no­stan­te tut­te le buo­ne in­ten­zio­ni, non so­no ve­nu­ti a ca­po di nien­te. So­no pas­sa­ti tre­di­ci gior­ni dal­la tua mor­te. Non si sa an­co­ra nien­te. Tut­to è in al­to ma­re. Più tem­po pas­sa e me­no sa­ran­no le pos­si­bi­li­tà di sco­pri­re che sia sta­to a uc­ci­der­ti e chi lo ab­bia or­di­na­to».

    «Chi sia l’ese­cu­to­re ma­te­ria­le non so dir­te­lo, ma chi sia­no i man­dan­ti non ci so­no dub­bi: le fa­mi­glie dei Coc­cia e dei Ro­tun­do, tra­mi­te il ca­po­ma­fia Ro­tun­do, l’ami­co. Quel­lo che tua ma­dre de­can­ta­va e che più vol­te ha pro­va­to a por­tar­se­la a let­to, nei gior­ni più oscu­ri del­la sua vi­ta. Sa­reb­be sem­pre quel­lo che ave­va pre­so le sem­bian­ze dell’in­te­ger­ri­mo bri­ga­die­re Mo­ra­bi­to Gio­van­ni, oc­cu­pan­do­ne an­che il po­sto al­la te­nen­za di Ur­bi­no».

       

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