Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La donna in bianco
La donna in bianco
La donna in bianco
E-book912 pagine14 ore

La donna in bianco

Valutazione: 5 su 5 stelle

5/5

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Quale terribile segreto nasconde la misteriosa figura femminile che si aggira di notte per le buie strade di Londra? Questo è solo il primo di una serie di intrighi, apparizioni e sparizioni, delitti e scambi di identità che compongono la trama di La donna in bianco, tessuta con magistrale sapienza da Wilkie Collins. Nel 1860 Charles Dickens pubblicò il romanzo a puntate sulla sua rivista «All the Year Round» suscitando uno straordinario interesse nel pubblico, che seguì per un intero anno le vicende della sventurata Anne Catherick e quelle degli altri personaggi, descritti con impareggiabile abilità psicologica, come l’impavida Marian Halcombe, il coraggioso Walter Hartright e l’affascinante quanto ambiguo conte Fosco.
È passato oltre un secolo e mezzo e le cose non sono cambiate: anche il lettore moderno più smaliziato non può che rimanere piacevolmente intrappolato negli ingranaggi di questa straordinaria macchina narrativa, che ha segnato per sempre la tradizione del mistery facendo guadagnare al suo autore l’appellativo di “padre del poliziesco moderno”. Non c’è lunghezza che tenga: con un libro del genere si arriva sempre al fondo con rimpianto. La donna in bianco è anche un musical di grande successo realizzato da Andrew Lloyd Webber.

«Collins è il padre del giallo moderno».
Agatha Christie

LinguaItaliano
Data di uscita16 ott 2010
ISBN9788864113319
La donna in bianco
Autore

Wilkie Collins

Wilkie William Collins (Londra, 8 gennaio 1824 – Londra, 23 settembre 1889) è stato uno scrittore inglese, amico e collaboratore di Charles Dickens. La sua produzione letteraria, e in particolare quella fantastica, è di assoluto rilievo, ma non vi è dubbio che a tutt'oggi sia maggiormente conosciuto dal grande pubblico per i romanzi gialli La donna in bianco, La Pietra di Luna, La legge e la signora e La follia dei Monkton. G.K. Chesterton ebbe una volta modo di scrivere relativamente a Dickens e Collins: "Erano due uomini che nessuno può superare nello scrivere storie di fantasmi".

Correlato a La donna in bianco

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La donna in bianco

Valutazione: 5 su 5 stelle
5/5

1 valutazione1 recensione

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

  • Valutazione: 5 su 5 stelle
    5/5
    Romanzo avvincente, ricco di colpi di scena. Un giusto mix di suspense, indagine ecromanticismo.

Anteprima del libro

La donna in bianco - Wilkie Collins

Prefazione alla seconda edizione

La donna in bianco è stato accolto con tale benevolenza da una vastissima cerchia di lettori che questo volume non avrebbe neppure bisogno di un commento introduttivo da parte mia. Tutto ciò che ho da dire può essere riassunto in poche parole.

Mi sono sforzato, con un’attenta correzione e revisione, di fare tutto il possibile affinché la mia storia continuasse a meritare l’approvazione del pubblico. Alcuni errori tecnici che mi erano sfuggiti mentre scrivevo il libro sono stati corretti in questa edizione. Nessuna di queste piccole imperfezioni interferiva minimamente con la narrazione – ma era bene comunque eliminarle appena se ne fosse presentata l’occasione, per rispetto dei miei lettori: e in questa edizione, perciò, esse sono scomparse del tutto.

Poiché, in certi ambienti piuttosto capziosi, sono stati espressi dei dubbi sulla correttezza dell’esposizione di alcune questioni legali che si presentano incidentalmente nel corso della storia, mi sia consentito dire che non mi sono risparmiato alcuno sforzo – in questa circostanza, come in tutte le altre – per scongiurare il rischio di ingannare involontariamente i miei lettori. Un avvocato di provata esperienza nel suo campo ha guidato i miei passi con grande gentilezza e attenzione ogniqualvolta lo sviluppo della storia mi portava a dovermi confrontare con i labirinti della legge. Ho sempre sottoposto ogni mio dubbio all’attenzione di questo signore, prima di avventurarmi a solcare il foglio con la penna; e tutti i passaggi che si riferivano a questioni legali sono stati corretti in bozze da lui stesso prima che la storia fosse pubblicata. Posso aggiungere, sulla base di autorevoli pareri giuridici, che queste precauzioni non sono state prese invano. Fin dalla pubblicazione del libro, la legge che in esso compare è stata discussa da più di un tribunale competente, e la sua correttezza è stata pienamente riconosciuta.

Ancora una parola, prima di concludere, a testimonianza del pesante debito di gratitudine che ho nei confronti del pubblico.

Non c’è alcuna affettazione da parte mia nell’affermare che il successo di questo libro mi è stato particolarmente gradito, perché ha significato il riconoscimento di un principio letterario che mi ha guidato da quando mi sono rivolto per la prima volta ai miei lettori in qualità di romanziere.

Da buon reazionario, sono sempre stato dell’idea che lo scopo principale della narrativa dovrebbe essere quello di raccontare una storia; e non ho mai creduto che un romanziere che avesse adempiuto a questa prima condizione della sua arte potesse correre il pericolo, proprio in conseguenza di ciò, di trascurare la descrizione di un personaggio, per una ragione molto evidente: l’effetto prodotto dalla narrazione di determinati eventi dipende essenzialmente non già dagli eventi stessi, ma dall’interesse umano che direttamente li investe. È possibile che in un romanzo si riesca a descrivere bene dei personaggi senza raccontare una storia; ma non è possibile raccontar bene una storia senza descrivere dei personaggi: poiché la loro esistenza, la loro natura di realtà riconoscibili, è la sola condizione necessaria perché una storia possa essere davvero raccontata. L’unica narrativa che può sperare di far breccia nell’attenzione dei lettori è quella narrativa che parla loro di uomini e di donne – per la ragione perfettamente evidente che essi stessi, i lettori, sono uomini e donne.

L’accoglienza riservata alla Donna in bianco ha praticamente confermato queste mie opinioni, assicurandomi che potrò continuare a mantenerle anche in futuro. Ecco qui un romanzo che ha incontrato un’accoglienza molto calorosa proprio perché è una storia: ed ecco qui una storia il cui interesse – come ho saputo dalla testimonianza, fornitami spontaneamente, dei lettori stessi – non è mai separato dall’interesse per i personaggi. Laura, Miss Halcombe e Anne Catherick, il conte Fosco, Mr Fairlie, e Walter Hartright mi hanno fatto conquistare nuovi amici ogniqualvolta si sono fatti conoscere. Spero che il momento in cui ritroverò quegli amici, e potrò tentare, per mezzo di nuovi personaggi, di destare il loro interesse per un’altra storia, non sia molto lontano.

Harley Street, Londra,

febbraio 1861

Prefazione all’edizione francese

Molti anni fa mi ritrovai nella tribuna pubblica della Corte di giustizia per assistere a un processo penale che si stava svolgendo a Londra.

Nell’assistere al procedimento, che di per sé non ebbe molta importanza e non mi ha fornito né i personaggi né gli eventi che troverete nelle pagine che seguono, fui colpito dalla drammaticità con cui la Corte esaminò e ricostruì il caso, dopo aver ascoltato ogni testimonianza. Mi resi conto di essere sempre più interessato nel vedere ogni testimone alzarsi in piedi e rilasciare la propria dichiarazione, mentre tutti gli anelli si univano a formare una catena di prove inconfutabili; vidi che la cosa aveva lo stesso effetto sulle persone intorno a me, e che l’interesse cresceva man mano che la catena si allungava, si tendeva e si avvicinava a ciò che, in tutta quella storia, era il punto saliente.

Sicuramente, pensai, si potrebbe raccontare una serie di avvenimenti in questo modo; si potrebbe essere convincenti nei confronti del lettore, usando gli stessi mezzi impiegati qui, trasmettendo la stessa partecipazione che ho visto nascere con il succedersi delle testimonianze, così diverse nella forma, eppure così assolutamente simili in quei contenuti che conducono alla medesima conclusione. Più ci pensavo, più mi sembrava che sperimentare un tale metodo si sarebbe rivelato un successo. Così, al termine dell’udienza, rientrai a casa, determinato a cimentarmi.

Ma quando venne il momento di dare forma a quell’idea, capii che la faccenda non era così semplice come avevo creduto. Essa presentava alcune grandi difficoltà letterarie che la mia esperienza di romanziere non mi aveva ancora permesso di risolvere. Decisi di aspettare fino a quando non fossi diventato più abile nella mia arte e il tempo e la fortuna non mi avessero offerto un’altra opportunità.

Ecco come quell’opportunità mi si presentò.

Nel 1859 Charles Dickens fondò il settimanale che battezzò «All the Year Round», che inaugurò con un suo romanzo, La storia di due città. Quando la pubblicazione di quest’opera (a puntate settimanali) fu completata, fui invitato a scrivere il romanzo che l’avrebbe immediatamente seguita sulle colonne nel nuovo periodico.

Dopo aver accettato la responsabilità di rivolgermi a un pubblico tra i più numerosi che l’Inghilterra potesse offrire, dopo che il più grande scrittore del nostro paese aveva appena incantato tutti con il suo talento, provai un’ansia comprensibile nel chiedermi se mai fossi degno della stima riposta nei miei confronti. E, in quel momento cruciale, mi tornò in mente l’idea che avevo accantonato qualche anno prima. Decisi, questa volta, di realizzarla. Ebbi le migliori condizioni: fui libero di decidere la lunghezza dell’opera, non ci fu nessuna restrizione sulla scelta dell’argomento. Mi garantirono la completa indipendenza nella forma, senza la minima interferenza. Fu sotto questi favorevoli auspici che, per la seconda volta, cominciai il lavoro che avevo in precedenza tentato di fare invano. In altre parole, mi riproposi di far raccontare la storia agli stessi personaggi del romanzo (come i testimoni che avevo ascoltato in tribunale), ovvero di far parlare ognuno di loro, a turno, e porli nelle diverse situazioni che il corso degli avvenimenti aveva stabilito per loro, in modo tale che potessero proseguire la narrazione e, uno dopo l’altro, condurla alla sua conclusione.

Se il risultato di questo lavoro, così modificato dalle circostanze, mi avesse permesso di raggiungere niente più che una certa originalità nell’esposizione, non mi sarei sognato di parlarne in questa sede. Per un risultato così insignificante, anche la minima attenzione sarebbe eccessiva. Ma mentre il mio lavoro procedeva, scoprii che l’autentica materia del romanzo, così come la sua forma letteraria, rispondeva in modo perfetto ai nuovi obiettivi che mi ero entusiasticamente posto. Realizzare quel progetto mi obbligò a procedere, nello stesso tempo e senza interruzioni, nella storia; mi costrinse ad avere un’idea assolutamente chiara dei personaggi prima di arrischiarmi a porli nella situazione che avevo assegnato loro in precedenza; e quando entravano in scena, questa gli offriva una nuova opportunità di raccontarsi mediante le proprie testimonianze, che si presupponeva essi fornissero come in una specie di interrogatorio e che, allo stesso tempo, costituivano parte della naturale evoluzione della storia. Questi erano i veri vantaggi dell’esperimento che stavo provando in questo romanzo; qualcosa che mi spingeva alla più rigorosa severità della disciplina letteraria. Io e il mio libro non potevamo che trarne benefici.

Ora che ho brevemente indicato le circostanze in cui La donna in bianco giunse a vedere la luce, ritengo che sarebbe cosa inutile trattenere il lettore con notazioni preliminari sullo scopo drammatico che ispirò la mia scrittura, o sui problemi della natura umana che, nell’iniziale idea del romanzo, o nella loro evoluzione, ho proposto di risolvere. Da entrambi questi punti di vista, il libro di per sé, nonostante i suoi errori e le sue lacune, è sufficientemente comprensibile da non aver bisogno di commenti. Le poche parole che mi rimangono da dire riguardano esclusivamente il modo in cui il romanzo fu accolto, sia in Inghilterra che in America.

Prima che la pubblicazione periodica della Donna in bianco (contemporaneamente a Londra e a New York) si protraesse per molte settimane, l’originalità del progetto a cui stavo lavorando divenne chiara e catturò l’attenzione del pubblico. Dopo ogni uscita del giornale, mi giungevano, da ogni dove, testimonianze scritte della curiosità e dell’interesse che i lettori volevano dimostrarmi: dall’Inghilterra, dal Canada, persino dalle colonie isolate, che sarebbero diventate dei villaggi, ai limiti estremi della civiltà americana, e in particolar modo nelle grandi città di quel paese appena nato, la Repubblica degli Stati Uniti.

I personaggi ebbero la fortuna di suscitare, nella grande maggioranza dei lettori, lo stesso interesse che avrebbero prodotto persone in carne e ossa. Le due protagoniste, ad esempio, Laura e Miss Halcombe, riscossero una tale simpatia che, quando a un certo punto della storia l’una o l’altra sembravano in qualche modo minacciate, ricevetti numerose lettere che, molto seriamente, mi pregavano di «salvare le loro vite»!

Miss Halcombe, in particolare, era così amata che alcuni mi obbligarono – in più di un’occasione – a rivelare se questo personaggio fosse stato preso dalla realtà oppure no; in caso positivo, volevano sapere se il modello vivente al quale mi ero ispirato avrebbe acconsentito ad ascoltare gli appelli di tanti uomini soli che, totalmente convinti di trovare in lei la donna perfetta, si proponevano di chiederla in sposa!

Per un altro gruppo di lettori, Il Segreto che in questa storia è collegato alla vita di Sir Percival Glyde divenne, alla fine, oggetto di una curiosità così esasperata, che diede il via a diverse scommesse di cui io fui nominato giudice. Ma nessuno di questi giocatori d’azzardo – e, comunque, nessuno dei miei lettori – è riuscito, per quanto ne so, a indovinare il segreto prima che la narrazione giungesse dove mi ero volutamente interrotto per permettere ai più curiosi di avvicinarsi alla soluzione.

Per quanto riguarda il conte Fosco, una dozzina di gentiluomini senza alcuna colpa, che avevano la sfortuna di essere eccessivamente grassi, furono immediatamente accusati di avermi fornito gli elementi necessari alla descrizione del personaggio; e, nelle rare occasioni in cui la mia voce tentò di coprire il rumore di tali ipotesi, dovetti dichiarare «che ogni romanziere che si limiti a un unico modello non potrebbe sperare di ritrarre vividamente il personaggio che ha creato». Dovetti spiegare «che centinaia di individui avevano posato a turno per il conte Fosco, così come per gli altri personaggi del libro, e nessuno di loro l’avrebbe mai sospettato»; nessuno volle credere a ciò che dissi sull’argomento. «Gli uomini malvagi magri», mi disse uno, sono senza dubbio molto comuni; ma un «uomo malvagio grasso» era, se si considerava l’intera storia, un’eccezione talmente evidente rispetto ai ruoli definiti del romanzo che io non avrei assolutamente potuto incontrare, nella vita reale, più di un esempio di questo carattere umano. Ero libero, certo, di negare il fatto; ma il conte era stato riconosciuto, vivo e in buona salute, da testimoni affidabili, sia a Londra che a Parigi, ed era pertanto inutile continuare a discutere.

Supponendo che egli esista veramente, lo prego di accettare le mie scuse, con la più assoluta garanzia che, se ho creato una somiglianza, è del tutto casuale.

Ci fu un momento in cui si diffuse la diceria che mi fossi perso nel labirinto del mio romanzo, che non sapessi come farlo finire e che avessi offerto un lauto compenso a chiunque mi avesse fornito assistenza. Il completamento della storia (sul giornale) mise a tacere per sempre questi divertenti pettegolezzi. La sua seconda pubblicazione, in libro, raccolse, tanto in Inghilterra quanto in America, un nuovo e più vasto pubblico. E poi un’edizione seguì l’altra. Una traduzione tedesca, stampata a Lipsia, fu accolta entusiasticamente dai lettori del Reno. E adesso, grazie alla preziosa assistenza del mio amico M. Forgues, La donna in bianco sta per riapparire in una nuova forma. Si farà sentire a Parigi, con il prestigioso appoggio di Sua Eccellenza il duca di Aumale, così generosamente espresso in un luogo davvero appropriato*.

Questa, a grandi linee, la storia del romanzo. L’ho raccontata senza alcuna riserva, schiettamente, al di là del riconoscimento della generosa accoglienza già avuta dal mio libro, e anche perché, naturalmente, voglio dimostrare ai lettori francesi che non mi presento a loro impudentemente come l’autore straniero di un libro straniero, senza una qualche preliminare testimonianza sul libro e sull’autore. Ho scritto questa breve prefazione in tutta onestà; e ora, che è quasi al suo termine, non potrò non farmi vedere ansioso nel seguire l’impressione che La donna in bianco susciterà nei concittadini di Honoré de Balzac, Victor Hugo, George Sand, Melchior-Frédéric Soulié, Eugène Sue e Alexandre Dumas. Se hanno creduto che questa storia possa, minimamente, pagare il debito che ho, sia come lettore che come scrittore, con i romanzieri francesi, ciò farà salire le lacrime ai miei occhi molto velocemente, anche se questa non è la più piccola delle speranze che ho per il mio libro.

Harley Street, Londra,

giugno 1861

* L’autore allude al discorso tenuto dal duca di Aumale in occasione della cena annuale del Literary Fund a Londra nel maggio del 1861. Riportandolo direttamente al lettore francese, in una nota che noi sostituiamo con questa, Wilkie Collins dimenticò che la stampa francese – con il dovuto rispetto per il ministro senza Portafoglio –, non ebbe la libertà di riprodurre il discorso in questione che apparve solo sul «Belgian Independent».

LA DONNA IN BIANCO

Premessa

Questa è la storia di quel che la pazienza di una donna può sopportare, e che la determinazione di un uomo può ottenere.

Se si potesse far assegnamento sulla macchina della legge per scandagliare ogni caso sospetto, e per condurre a termine ogni inchiesta, con l’unico, lubrificante ausilio del denaro, gli avvenimenti narrati in queste pagine avrebbero potuto reclamare la loro parte di pubblica attenzione in una corte di giustizia.

Ma la legge è ancora, in certi casi inevitabili, la schiava promessa del borsello più capace; e così la nostra storia dovrà essere raccontata, per la prima volta, in questa sede. E come il giudice potrebbe averla ascoltata, così il Lettore l’ascolterà adesso. Nessun fatto degno di importanza, dall’inizio fino alla rivelazione finale, verrà riportato sulla base di semplici dicerie. Quando l’autore di queste poche righe di introduzione (che risponde al nome di Walter Hartright) si troverà a essere coinvolto più di ogni altro negli avvenimenti in questione, sarà egli stesso a narrarli in prima persona. In presenza di fatti a lui estranei, invece, rinuncerà al ruolo di narratore; e il suo compito verrà portato avanti, dal punto in cui egli l’ha lasciato, da altri testimoni, che potranno riferire in merito alle circostanze sulla base della loro esperienza personale, con la stessa chiarezza e determinazione di chi li ha preceduti.

Questa storia, perciò, verrà scritta a più mani, come la storia di un crimine contro la legge viene raccontata in tribunale da più testimoni – sempre allo scopo, in entrambi i casi, di presentare la verità nella sua forma più diretta e intelligibile; e di tracciare il corso completo di una serie di eventi, facendo in modo che le persone che sono state coinvolte più direttamente ne riferiscano una dopo l’altra, parola per parola, le fasi successive.

La Corte chiama quindi a deporre per primo Walter Hartright, di anni ventotto, insegnante di disegno.

PARTE I

L’inizio della storia secondo

la testimonianza di Walter Hartright

(di Clement’s Inn, insegnante di disegno)

1

Era l’ultimo giorno di luglio. La lunga estate calda volgeva al termine, e noi, stremati pellegrini del selciato di Londra, cominciavamo a pensare all’ombra delle nuvole sui campi di grano, e alle brezze d’autunno in riva al mare.

Quanto a me, quel che restava dell’estate mi lasciava senza forze, senza allegria e, a dire il vero, anche senza soldi. Nel corso di quell’anno non avevo amministrato i miei guadagni con la solita attenzione; e la mia prodigalità ora mi condannava a un autunno da trascorrere all’insegna del risparmio, dividendomi tra il villino di mia madre a Hampstead e il mio modesto appartamento in città.

La sera, ricordo, era immobile e nuvolosa; l’aria di Londra era pesante più che mai, e il ronzio del traffico, che proveniva in lontananza dalla strada, pareva invece più debole del solito; quel po’ di vita che batteva timido dentro di me e il grande cuore della città che mi pulsava intorno sembravano affondare all’unisono, sempre più languidi, insieme al sole che calava all’orizzonte. Mi sollevai dal libro su cui, dimentico della lettura, stavo sognando, e lasciai il mio appartamento per andare incontro all’aria fredda della notte, nei sobborghi. Quella era infatti una delle due sere a settimana che avevo l’abitudine di trascorrere assieme a mia madre e mia sorella. Così mi diressi verso nord, in direzione di Hampstead.

Alcuni avvenimenti, cui non ho ancora accennato, rendono a questo punto necessaria una precisazione da parte mia: a quel tempo mio padre era già morto da alcuni anni; e mia sorella Sarah e io eravamo gli unici sopravvissuti di una famiglia di cinque figli. Anche mio padre, come me, era stato insegnante di disegno. Aveva faticato molto, ed era riuscito a ottenere grandi soddisfazioni professionali; e il suo affetto, la sua ansia di provvedere al futuro di quanti dipendevano dal suo lavoro l’avevano indotto, fin dai primi anni di matrimonio, a investire in un’assicurazione sulla vita una parte dei suoi guadagni assai più consistente di quella che in genere un padre di famiglia ritiene necessario risparmiare a tale scopo. Grazie alla sua ammirevole prudenza e abnegazione mia madre e mia sorella, dopo la sua morte, poterono contare solo sui loro risparmi, senza dover chiedere aiuto a nessuno. Io ereditai la sua clientela, e potei dirmi davvero grato per le prospettive che mi si aprivano davanti alla mia giovane età.

Il placido crepuscolo tremava ancora sulle creste più alte della brughiera, e sotto di me Londra pareva sprofondata in un golfo di tenebre nell’ombra di quella notte nuvolosa, quando arrivai davanti al cancello del villino di mia madre. Non avevo ancora suonato il campanello che la porta di casa si spalancò con violenza; al posto del cameriere comparve il mio caro amico italiano, il professor Pesca, che si precipitò gioiosamente a ricevermi, con la sua garrula parodia di un tipico benvenuto all’inglese.

Per rendere giustizia al suo ruolo in questa vicenda e, mi sia concesso aggiungere, anche al mio, il professore merita l’onore di una presentazione formale. Un caso del destino aveva voluto che fosse proprio lui il punto di partenza della strana vicenda familiare che queste pagine hanno lo scopo di rivelare.

Avevo incontrato per la prima volta il mio amico italiano in casa di una famiglia piuttosto in vista, dove egli insegnava la sua lingua e io il disegno. Tutto ciò che sapevo allora sulla sua storia personale era che un tempo aveva goduto di un certo prestigio presso l’Università di Padova; che aveva lasciato l’Italia per motivi politici (la natura dei quali egli si asteneva con chiunque dal rivelare); e che da molti anni s’era rispettabilmente sistemato a Londra come insegnante di lingue.

Pur non essendo un vero e proprio nano – giacché era perfettamente proporzionato dalla testa ai piedi – Pesca era, credo, il più piccolo essere umano che io abbia mai incontrato fuori da una fiera. Già di per sé appariscente, a causa del suo aspetto fisico, egli si distingueva ulteriormente tra i ranghi e le file del genere umano per via dell’innocua eccentricità del suo carattere. Una sola idea sembrava dominare la sua vita: sentiva di dover dimostrare la sua gratitudine al paese che gli aveva offerto asilo e mezzi di sussistenza facendo tutto il possibile per trasformarsi in un perfetto gentiluomo inglese. Non contento di pagare il suo tributo alla nazione portando sempre sottobraccio un ombrello e indossando invariabilmente ghette e cappello bianco, il professore ambiva a diventare inglese anche nelle abitudini e negli svaghi, oltre che nell’aspetto fisico. Considerandoci del tutto eccezionali, come nazione, in virtù della nostra passione per l’esercizio fisico, quest’omettino dal cuore tanto ingenuo, ogni volta che ne aveva l’occasione, si votava con entusiasmo a tutti i nostri sport e passatempi inglesi: fermamente convinto di poter adottare l’intera varietà dei nostri svaghi nazionali con un semplice sforzo di volontà, proprio come aveva adottato le nostre ghette nazionali e il nostro nazional cappello bianco.

L’avevo visto rischiare botte e lividi buttandosi alla cieca in una caccia alla volpe o in un campo di cricket; e poco dopo lo vidi rischiare la vita, sempre alla cieca, in mezzo al mare al largo di Brighton.

C’eravamo incontrati lì per caso e stavamo facendo il bagno insieme. Se fossimo stati alle prese con qualche esercizio tipico della mia nazione avrei dovuto, naturalmente, tenerlo d’occhio con grande attenzione; ma poiché in genere, nell’acqua, gli stranieri sono in grado di badare a se stessi né più né meno di noi inglesi, non mi passò neppure per la testa che l’arte del nuoto potesse costituire semplicemente una variante in più sulla lista dei virili esercizi che il professore riteneva di poter apprendere all’impronta. Appena ci fummo entrambi allontanati dalla riva, vedendo che il mio amico non era più accanto a me, mi fermai, e mi guardai intorno per cercarlo. Con mio grande orrore e stupore, non vidi altro, tra la spiaggia e me, che due minuscole braccine bianche che lottavano per un istante sulla superficie dell’acqua, per poi sparire subito nel nulla. Quando mi tuffai sott’acqua per salvarlo, il poveretto giaceva buono buono sul fondo, raggomitolato in un avvallamento del greto, e mi parve di gran lunga più piccolo del solito. In quei pochi minuti che trascorsero mentre lo riportavo a riva, l’aria lo fece rinvenire, ed egli riuscì a salire i gradini del trampolino con il mio aiuto. Mentre a poco a poco recuperava le forze, lentamente tornò a farsi strada in lui lo splendido miraggio del nuoto. Non appena smise di battere i denti, e fu in grado di parlare, sorrise debolmente, e disse che doveva essersi trattato di un crampo.

Quando si fu ripreso del tutto mi raggiunse sulla spiaggia, e la sua calda indole mediterranea spazzò via in un momento ogni britannico contegno. Mi travolse con le più selvagge manifestazioni d’affetto – esclamò entusiasta, con quel suo modo di fare esagerato, tipicamente italiano, che da quel momento la sua vita era a mia disposizione – e dichiarò che non sarebbe mai più stato felice finché non avesse trovato il modo di provarmi la sua gratitudine, rendendomi qualche servigio che non avrei più dimenticato fino alla fine dei miei giorni.

Feci del mio meglio per arginare quel fiume di lacrime e proteste, insistendo nel voler considerare tutta quell’avventura soltanto come un buon argomento per qualche risata tra amici; e alla fine riuscii, come avevo immaginato, a ridimensionare l’eccessiva gratitudine di Pesca nei miei confronti. Mai avrei potuto pensare allora – e anche dopo, quando la nostra piacevole vacanza volse al termine – che quell’opportunità di sdebitarsi, tanto ardentemente auspicata dal mio amico, si sarebbe presentata di lì a poco: che egli l’avrebbe afferrata all’istante; e che così facendo avrebbe convogliato l’intera corrente della mia esistenza verso un corso assolutamente nuovo, rendendomi quasi irriconoscibile a me stesso.

Eppure così fu. Se non mi fossi tuffato a salvare il professor Pesca quando giaceva sott’acqua nel suo letto di ghiaia, con ogni probabilità non sarei mai stato coinvolto nella storia che queste pagine stanno per raccontare – e forse non avrei neppure sentito nominare quella donna che ha popolato ogni mio pensiero, che si è impossessata di tutte le mie energie e che ormai è diventata l’unica guida, e l’unico scopo, della mia esistenza.

2

L’aspetto e i modi di Pesca, quella sera che ci ritrovammo uno di fronte all’altro davanti al cancello del villino di mia madre, bastarono di gran lunga a farmi capire che qualcosa di straordinario era accaduto. Era del tutto inutile, comunque, che gli chiedessi subito una spiegazione. Potei soltanto immaginare, mentre mi trascinava in casa tenendomi per tutt’e due le mani, che (ben conoscendo le mie abitudini) egli fosse venuto al villino per essere sicuro di incontrarmi quella sera stessa, e che aveva qualche straordinaria novità da raccontarmi.

Ci catapultammo entrambi nel soggiorno in modo piuttosto irruento e indecoroso. Mia madre, seduta accanto alla finestra aperta, si faceva aria con un ventaglio e rideva di gusto. Aveva un vero e proprio debole per Pesca, ed era sempre pronta a perdonargli anche le stravaganze più eccessive. Povera cara! Da quando si era resa conto che il piccolo professore era così profondamente grato e devoto a suo figlio, gli aveva aperto completamente il suo cuore, e aveva accettato senza riserve le sue bizzarre maniere da forestiero, come qualcosa di assolutamente normale, senza neppure tentare di comprenderne il significato.

Mia sorella Sarah, malgrado la sua giovane età, era invece, strano a dirsi, meno tollerante nei confronti di Pesca. Riconosceva, certo, la sua straordinaria bontà d’animo; ma non riusciva ad accettarlo incondizionatamente, come invece aveva fatto mia madre, per amor mio. La sua insulare concezione del decoro era sempre pronta a insorgere contro la costituzionale noncuranza di Pesca nei confronti delle apparenze: ed ella, in maniera più o meno manifesta, rimaneva ogni volta sconcertata dalla confidenza che nostra madre dimostrava nei confronti di quel piccolo ed eccentrico straniero. Ho avuto modo di notare, e non solo nel caso di mia sorella, ma anche di altri, che i giovani della nostra generazione non sono affatto sanguigni e impulsivi come spesso accade invece tra i più vecchi. Assisto continuamente a scene di emozione ed eccitazione da parte di anziani di fronte a certe piacevoli prospettive che non riescono neppure per un istante a scuotere la tranquillità dei loro imperturbabili nipoti. E mi chiedo: non sarà che noi, ragazzi e ragazze di oggi, non siamo più spontanei come lo erano i nostri vecchi da giovani? Non sarà forse che l’educazione si è spinta troppo oltre? Non sarà che noi, oggigiorno, siamo anche fin troppo educati, e ci crediamo d’esser chissà chi?

Senza per questo voler dare una risposta definitiva a tali interrogativi, non posso fare a meno di registrare il fatto che ogni volta che ho visto mia madre e mia sorella passare un po’ di tempo insieme a Pesca, ho sempre avuto l’impressione che, tra le due, quella di gran lunga più giovane fosse mia madre. Nella circostanza in questione, per esempio, mentre l’anziana signora scoppiò a ridere di cuore vedendoci irrompere nel soggiorno come due ragazzini, Sarah, visibilmente turbata, si mise a raccogliere i frammenti della tazza da tè che il professore aveva fatto cadere giù dal tavolo quando si era precipitato alla porta per ricevermi.

«Non so cosa sarebbe potuto succedere, Walter», disse mia madre, «se avessi tardato ancora un po’. Pesca era impaziente da morire, e io morivo dalla curiosità. Il professore ha delle meravigliose notizie da darci, che a quanto dice ti riguardano in prima persona: ed è stato così spietato da non concederci la benché minima anticipazione prima che il suo amico Walter arrivasse».

«Molto, molto irritante: il servizio è andato a farsi benedire», mormorava Sarah tra sé, osservando con aria torva i resti della tazza andata in frantumi.

Mentre si succedevano questi commenti, Pesca, allegro e scoppiettante, senza badare affatto al danno irreparabile che le porcellane avevano subito per mano sua, aveva trascinato una grande poltrona verso il lato opposto della stanza, in modo da sistemarsi proprio di fronte a noi tre, come un pubblico oratore che si rivolge a una platea. Dopo aver voltato lo schienale della poltrona verso di noi, vi saltò sopra in ginocchio, e si rivolse con grande eccitazione al suo ristretto pubblico di tre uditori da quel pulpito improvvisato.

«Ora, miei buoni cari», esordì Pesca (che diceva sempre buoni cari mentre intendeva dire cari amici), «ascoltatemi. È arrivato il momento… Sto per dirvi le buone notizie… Finalmente posso parlare».

«Forza, forza!», disse mia madre, prestandosi al gioco.

«La prossima cosa che romperà, mamma», mormorò Sarah, «sarà lo schienale della nostra poltrona buona».

«Mi volto indietro a guardare il passato, e mi rivolgo al più nobile degli esseri umani», continuò Pesca, apostrofando con veemenza la mia modesta persona da tanto scranno. «Chi mi ha trovato morto in fondo al mare (a causa di un fatale crampo)? E chi mi ha riportato in superficie? E cosa dissi io, quando recuperai la vita e i vestiti?».

«Molto più di quel che era necessario», mi affrettai a sdrammatizzare; perché anche il minimo incoraggiamento a proseguire in quella direzione era destinato inevitabilmente a sciogliere in un fiume di lacrime le emozioni del professore.

«Dissi», insistette Pesca, «che la mia vita sarebbe appartenuta al mio migliore amico, Walter, fino alla fine dei miei giorni – e infatti è sua soltanto. Dissi che non sarei più stato felice finché non avessi trovato il modo di fare qualcosa di buono per Walter – e non sono mai più stato in pace con me stesso fino a questo giorno di grazia. Ora», gridò entusiasta l’ometto con tutta la sua voce, «una cascata intera di felicità zampilla da ogni poro della mia pelle, come se sudassi gioia; perché, lo giuro sulla mia fede, sulla mia anima, e sul mio onore, questo qualcosa finalmente è stato fatto, e tutto ciò che possiamo dire adesso è: bene-benone!».

È necessario a questo punto spiegare che Pesca si piccava d’essere un perfetto gentiluomo inglese non solo nel modo di vestire, nelle maniere e negli svaghi, ma anche nel linguaggio. Avendo appreso alcuni dei nostri modi di dire più informali, li disseminava nella sua conversazione ogni volta che gli venivano in mente, e poiché, pur apprezzandone infinitamente il suono, ne ignorava totalmente il senso, finiva sempre col trasformarli in parole composite e interiezioni assolutamente personali, che poi ripeteva tutte assieme, come se costituissero un’unica, lunghissima sillaba.

«Tra le belle ville londinesi in cui insegno la lingua della mia terra natia», disse il professore, precipitandosi a offrire la sua tanto sospirata spiegazione senza ulteriori preamboli, «ce n’è una favolosamente bella, in quel gran posto che si chiama Portland. Sapete tutti dov’è? Sì, sì… ma certo-ma certissimo. E questa bella villa, miei buoni cari, ha dentro una bella famiglia. Una mamma, bionda e grassa; tre giovani signorine, bionde e grasse; due giovani signori, biondi e grassi; e un papà, il più biondo e il più grasso di tutti, che è un favoloso commerciante, con i soldi che gli escono dagli occhi – un tempo bello anche lui, ma adesso, visto che ha la testa pelata e il doppio mento, non più così bello, ormai. Ebbene, ascoltate! Io insegno il sublime Dante alle giovani signorine, e… ah! Dio Santo-Sant’Iddio!… Non c’è parola del vocabolario che possa descrivere come il sublime Dante confonda quelle tre deliziose testoline! Non importa – ogni cosa a suo tempo – e poi, comunque, più lezioni mi chiedono, tanto meglio per me. Ebbene, ascoltate! Immaginate nella vostra testa che io oggi stia facendo lezione alle giovani signorine, come al solito. Siamo tutti e quattro laggiù, nell’Inferno di Dante. Arrivate al settimo girone – ma questo non ha importanza: tutti i gironi sono uguali per le tre giovani signorine, bionde e grasse – arrivate al settimo girone, comunque, le mie allieve all’improvviso si bloccano; e io, per farle andare avanti, declamo, spiego, divento rosso d’entusiasmo, tutto invano, quand’ecco: uno scricchiolio di stivali nel corridoio ed entra nella stanza il paparino d’oro, il favoloso commerciante con la testa pelata e il doppio mento. Ah, miei buoni cari, sono più vicino al punto di quello che pensate, adesso. Avete pazientato fino a ora? O avete pensato invece: E che accidenti, accidenti! Pesca la fa proprio lunga, stasera?».

Noi ci dichiarammo profondamente interessati, e il professore continuò:

«In mano il paparino d’oro ha una lettera: e dopo essersi scusato per averci disturbato nelle nostre contrade infernali per via di più meschini affari di famiglia, si rivolge alle tre giovani signorine, e inizia, come fate sempre voi benedetti inglesi ogni volta che dovete dire qualcosa, con una grande O. O mie care, dice il favoloso commerciante, ho qui una lettera dal mio amico, Mister… (in questo momento il nome mi sfugge; ma non importa: ci ritorneremo più avanti; sì, sì… bene-benone). Insomma, il papà dice: Ho ricevuto una lettera dal mio amico, il Mister: e vuole che io gli consigli un buon maestro di disegno che vada a dargli lezione nella sua villa di campagna. Dio Santo-Sant’Iddio! Quand’ho sentito il paparino d’oro dire questo, se fossi stato alto abbastanza per farcela, gli avrei gettato le braccia al collo per la gratitudine, e l’avrei stretto con tutta la mia forza! In realtà, ho fatto solo un salto sulla sedia. Volevo alzarmi, mi sembrava di stare sulle spine, e la mia anima bruciava dalla voglia di parlare; ma ho tenuto a freno la lingua, e ho lasciato continuare il paparino. Conoscete forse, dice il brav’uomo pieno di soldi, agitando la lettera del suo amico che teneva tra il pollice e l’indice d’oro zecchino, conoscete forse, mie care, un maestro di disegno che posso consigliargli?. Le tre giovani signorine si guardano tra di loro, e poi dicono (cominciando con l’indispensabile O grande): O caro papà, noi no! Ma c’è qui Mr Pesca…. Sentendo pronunciare il mio nome, io non mi trattengo più (se penso a voi, miei buoni cari, mi viene subito il sangue alla testa): balzo in piedi di scatto – come se un pungiglione, spuntato dal pavimento, mi avesse colpito da sotto la sedia – mi rivolgo al favoloso commerciante, e dico (come un vero inglese). Caro signore, ho io l’uomo che fa per voi! Il primo, il miglior maestro di disegno al mondo! Scrivete una lettera di raccomandazione stasera stessa, e speditelo dal vostro amico, armi e bagagli (altra espressione inglese, ah!), col primo treno di domani mattina!. Un momento, un momento, dice il papà, è un inglese, o è uno straniero?. Inglese dalla testa ai piedi!, rispondo. Ed è una persona rispettabile?, chiede il papà. Signore, dico io (ho dovuto prendermi più confidenza, perché la sua domanda mi aveva profondamente offeso), signore! Il fuoco immortale del genio brucia nel petto di questo inglese, e, se non bastasse, bruciava anche in quello di suo padre!. Non m’importa, dice quello straricco barbaro di un padre, non m’importa del suo genio, Mr Pesca. Non vogliamo geni in questo paese, a meno che non siano più che rispettabili, e in tal caso siamo invece lieti, più che lieti, di averne. Il vostro amico è in grado di produrre qualche prova scritta della sua rispettabilità? Che so io, lettere, certificati?. Io faccio un cenno di sufficienza con la mano. Lettere?, dico. Ah, Dio Santo-Sant’Iddio! Ma certo, ci mancherebbe! Mucchi di lettere, fascicoli interi di attestati, se è di questo che avete bisogno!. Una o due basteranno, dice quest’uomo di polso e di borsello. Fatemele mandare assieme al nome e all’indirizzo. E… ancora una cosa, Mr Pesca: prima di rivolgervi al vostro amico, farete meglio a prendere una nota. Una banco-nota!, dico io, indignato. Nessuna banconota, se non vi dispiace, finché il mio buon inglese non ne avrà guadagnata almeno una!. Banco-nota?, dice il papà, con grande sorpresa, e chi ha parlato di banco-nota? Io intendevo una nota delle condizioni, un memorandum di ciò che dovrà fare. Ora continuate con la vostra lezione, Mr Pesca: penserò io a fornirvi un estratto della lettera del mio amico.

Così giù a scrivere, con carta, penna e calamaio, quell’uomo tutto soldi e affari, mentre io, con le tre signorine al seguito, giù ancora nell’Inferno di Dante. Tempo dieci minuti e la nota è scritta, e gli stivali di papà scricchiolano via nel corridoio. Da quel momento, lo giuro sulla mia fede, sulla mia anima, e sul mio onore, non ci capisco più nulla! Il meraviglioso pensiero d’avere colto finalmente l’occasione, e di aver praticamente già reso il mio servigio all’amico più caro che ho al mondo, mi ronza nella testa e mi ubriaca. Come abbia fatto a tirar fuori dalle regioni dell’Inferno me stesso e le tre giovani signorine, come sia riuscito ad adempiere agli altri impegni che avevo, come sia potuta scivolarmi giù per la gola la modesta cena di stasera proprio non so dirlo, come se fossi stato tutto il tempo sulla luna. È già molto che adesso mi ritrovi qui, con la nota di quel favoloso commerciante nella mano, col cuore grande come la vita, caldo come il fuoco, e felice come un re! Ah! Ah! Ah! Bene-benone!». Al che il professore agitò un poco il memorandum sopra la sua testa, e chiuse il suo lungo e incostante resoconto con una garrula parodia italiana di un accesso d’entusiasmo all’inglese.

Mia madre si alzò in piedi appena Pesca ebbe terminato, rossa in volto e con gli occhi lucidi. Strinse con calore entrambe le mani dell’ometto.

«Mio buon Pesca, quanto siete caro!», disse. «Non ho mai dubitato della sincerità del vostro affetto per Walter… ma adesso ne sono certa più che mai!».

«Siamo davvero molto grate al professor Pesca per ciò che ha fatto per Walter», aggiunse Sarah. Fece per alzarsi, mentre parlava, come se volesse avvicinarsi a sua volta alla poltrona; ma, avendo notato che Pesca stava baciando con estatico trasporto le mani di mia madre, subito si fece seria e si rimise a sedere. «Se quell’ometto invadente tratta mia madre a quel modo, come potrà mai trattare me?». A volte la verità si dipinge sul volto; e questi pensieri erano scritti fin troppo chiaramente sul viso di Sarah, mentre riprendeva il suo posto.

Quanto a me, pur essendo sensibilmente grato a Pesca per quel gesto tanto gentile, la prospettiva di un futuro impiego, che adesso mi trovavo di fronte, non riusciva a entusiasmarmi come avrebbe dovuto. Quando il professore ebbe finito con la mano di mia madre, lo ringraziai affettuosamente per l’interessamento nei miei confronti e chiesi di poter esaminare la nota che il suo rispettabile protettore aveva stilato per assicurarsi della mia affidabilità.

Pesca mi porse il foglio, con un gesto ampio e solenne.

«Leggi!», disse maestosamente l’ometto. «Vedrai tu stesso, amico mio: ciò che il nostro paparino d’oro ha scritto suona già come una marcia trionfale».

La nota era chiara, diretta ed esaustiva, sotto ogni punto di vista. Mi rendeva noto:

1. Che l’esimio signor Frederick Fairlie, di Limmeridge House, Cumberland, intendeva assumere a servizio un maestro di disegno di assoluta competenza, per un periodo di quattro mesi;

2. Che i doveri che il maestro era chiamato ad assolvere erano di duplice natura. Egli si sarebbe occupato dell’istruzione di due giovani signore nell’arte della pittura ad acquerello; e, in secondo luogo, avrebbe dedicato il tempo libero a restaurare e riordinare una preziosa collezione di disegni, che da molto tempo giaceva in stato di totale abbandono;

3. Che il compenso offerto alla persona che avrebbe assunto l’incarico di assolvere a suddetti doveri era di quattro ghinee alla settimana; che egli avrebbe soggiornato a Limmeridge House; e che in quella sede sarebbe stato accolto con il rispetto e gli onori dovuti;

4. Infine, che nessuno avrebbe potuto ritenersi idoneo all’incarico se non fosse stato in grado di produrre le migliori referenze in merito alla propria rispettabilità e competenza. Tali referenze avrebbero dovuto essere sottoposte all’amico di Mr Fairlie a Londra, che era autorizzato a concludere tutti gli accordi necessari. Tali istruzioni erano accompagnate dal nome e dall’indirizzo del datore di lavoro di Pesca a Portland Place. E qui la nota, o memorandum, si concludeva.

La prospettiva offerta da questa proposta di impiego era senza dubbio interessante. L’impiego prometteva d’essere facile e piacevole a un tempo; mi veniva proposto in quel periodo dell’anno, l’autunno, in cui in genere sono meno occupato; e le condizioni, a giudicare dalla mia personale esperienza professionale, erano sorprendentemente generose. Ero perfettamente consapevole di questo; sapevo che avrei dovuto considerarmi molto fortunato se fossi riuscito ad assicurarmi l’impiego che mi veniva offerto; e tuttavia, appena ebbi letto il memorandum, avvertii subito dentro di me un’inesplicabile resistenza ad accettare. Non mi era mai capitato, in tutta la mia passata esperienza, di vedere il mio senso del dovere e le mie inclinazioni personali porsi così dolorosamente, e misteriosamente, in conflitto tra di loro.

«Oh, Walter, tuo padre non ha mai avuto un’opportunità come questa!», disse mia madre, quando, dopo averla letta, mi restituì la nota.

«Che fortuna poter conoscere delle persone così distinte», osservò Sarah, drizzandosi sulla sedia, «e su un piano di perfetta uguaglianza, per giunta!».

«Sì, sì; i termini della proposta, sotto ogni aspetto, sono piuttosto allettanti», replicai con impazienza. «Ma prima di mandare le mie referenze, vorrei prendermi un po’ di tempo per riflettere…».

«Riflettere?!», esclamò mia madre. «Ma che ti prende, Walter?».

«Riflettere?!», le fece eco mia sorella. «Davvero una richiesta ben strana, viste le circostanze!».

«Riflettere?!», aggiunse il professore. «Ma cosa c’è da riflettere? Rispondimi! Non eri tu che ti lagnavi del tuo stato di salute, non eri tu che dicevi di smaniare per un soffio d’aria di campagna? Ebbene: hai tra le mani un foglio che ti offre per quattro mesi di fila tanta di quell’aria di campagna da farti scoppiare i polmoni! È vero o non è vero? Ah! E ancora: hai bisogno di soldi. Ebbene: ti sembrano niente quattro ghinee alla settimana? Dio Santo-Sant’Iddio! Prova soltanto a darle a me, e i miei stivali si metteranno a scricchiolare come quelli del nostro paparino d’oro, schiacciati dal peso della ricchezza dell’uomo che li calza ai piedi! Quattro ghinee alla settimana e, come se non bastasse, la compagnia incantevole di due giovani signorine! E, per di più, un letto, una colazione, una cena, fiumi del vostro prelibato tè all’inglese, ghiotte merende e pinte di birra schiumeggiante… e tutto gratis! Insomma, Walter, mio caro buon amico – e che accidenti, accidenti! – per la prima volta nella mia vita non ho occhi grandi abbastanza per guardarti con stupore!».

Né l’evidente meraviglia di mia madre di fronte al mio comportamento, né la sollecitudine e l’entusiasmo con cui Pesca mi aveva enumerato tutti i vantaggi che il nuovo impiego mi garantiva riuscirono a scuotere minimamente la mia irrazionale repulsione nei confronti di Limmeridge House. Dopo aver sollevato le obiezioni più meschine nel tentativo di sottrarmi alla necessità di andare nel Cumberland, e dopo averle viste cadere inesorabilmente una dopo l’altra, tentai di innalzare un’ultima barriera chiedendo cosa ne sarebbe stato dei miei allievi a Londra se fossi andato da Mr Fairlie a insegnare come dipingere un paesaggio alle sue giovani signorine. Ovviamente la risposta fu che la maggior parte di loro avrebbe passato l’autunno fuori città, e che quei pochi che sarebbero rimasti a casa potevano essere tranquillamente affidati alla cura di quel mio collega a cui in passato, in circostanze analoghe, io stesso avevo fatto da supplente. Mia sorella mi ricordò che questo signore mi aveva offerto espressamente la sua disponibilità per la stagione in corso, nel caso in cui avessi deciso di lasciare la città: mia madre mi invitò con fermezza a non permettere che uno stupido capriccio mettesse a repentaglio i miei interessi e la mia salute: e Pesca mi scongiurò di non ferirlo a morte vanificando la sua prima vera occasione di ricambiare il favore all’amico che gli aveva salvato la vita.

L’evidente sincerità e l’affetto che ispiravano quelle rimostranze avrebbero commosso chiunque fosse dotato di un briciolo di cuore. Per quanto proprio non riuscissi a vincere la mia inspiegabile repulsione, non potei fare a meno di vergognarmene e di chiudere la discussione senza turbare nessuno: mi arresi e promisi di fare tutto quello che ci si aspettava da me.

Passammo il resto della serata piuttosto allegramente, divertendoci a immaginare come sarebbe stata la mia vita nel Cumberland, assieme alle due giovani signorine. Pesca, ispirato dal nostro grog nazionale, che pareva dargli alla testa in modo assolutamente esplosivo appena cinque minuti dopo essergli sceso in gola, ribadì il suo diritto di essere considerato come un perfetto gentleman inglese tenendo una serie di discorsi in rapida successione, e brindando alla salute di mia madre, alla salute di mia sorella, alla mia, e a quella di Mr Fairlie e delle due giovani signorine tutti insieme, per poi accalorarsi pateticamente, subito dopo, in mille ringraziamenti. «Voglio che tu sappia un segreto, Walter», mi disse in tono assai confidenziale il mio piccolo amico, mentre tornavamo a piedi verso casa. «Il pensiero di tutti quei miei discorsi di prima mi fa arrossire. La mia anima è rosa dall’ambizione. Va a finire che uno di questi giorni entro nel vostro nobile consiglio. È il mio sogno, quello di diventare l’onorevole Pesca, membro del Parlamento!».

La mattina dopo inviai le mie referenze a Portland Place, al datore di lavoro del professore. Passarono tre giorni, e io già cominciavo a credere, rallegrandomene in segreto, che le mie credenziali non fossero state reputate all’altezza. Ma il quarto giorno giunse una lettera. Annunciava che Mr Fairlie aveva deciso di assumermi, e mi invitava a partire immediatamente per il Cumberland. Tutte le istruzioni necessarie per il viaggio venivano fornite con somma attenzione e chiarezza in un post scriptum.

Mi preparai, piuttosto malvolentieri, a lasciare Londra la mattina del giorno successivo. Verso sera Pesca passò a trovarmi, mentre andava a una cena, per salutarmi e augurarmi buon viaggio.

«Mi asciugherò le lacrime in tua assenza», disse allegramente il professore, «con questo glorioso pensiero: è la mia mano propizia che per prima ti ha dato la spinta verso la fortuna. Va’, amico mio! Quando il tuo sole splenderà nel Cumberland (proverbio inglese), nel nome del Cielo, approfittane. Sposa una delle due giovani signorine: diventa l’onorevole Hartright, membro del Parlamento, e quando sarai in cima alla scala, ricordati che il merito è di Pesca, quello giù in fondo!».

Mi sforzai di ridere, assieme al mio piccolo amico, di quel suo scherzoso congedo: ma proprio non ero dell’umore. Qualcosa, dentro di me, strideva in modo quasi doloroso con quel suo allegro discorso d’addio.

Quando se ne fu andato, non mi rimase altro che andare a Hampstead, al villino, a salutare mia madre e Sarah.

3

Il caldo era stato opprimente per tutto il giorno e ora la notte era pesante e afosa.

Mia madre e mia sorella mi dissero addio così tante volte, e così tante volte mi pregarono di rimanere ancora cinque minuti, che quando il cameriere chiuse il cancello alle mie spalle era già quasi mezzanotte. Mi incamminai lungo la via più breve per tornare a Londra: ma dopo pochi passi mi fermai, esitante.

La luna era rotonda e piena in mezzo al cielo scuro e senza stelle, e la terra spaccata dall’arsura aveva un’aria talmente selvaggia, in quella luce misteriosa, che sembrava distare miglia e miglia dalla grande città che giaceva nella valle. L’idea di immergermi subito nel caldo e nell’oscurità di Londra, senza cercare di opporre resistenza, mi fece orrore. L’idea di rinchiudermi nella mia stanza senz’aria, e la prospettiva di soffocare lentamente fino alla morte, in quello stato di profonda inquietudine in cui versavano il mio corpo e la mia mente, mi sembravano un’unica, identica cosa. Decisi di tornare a casa allungando la strada e respirando il più possibile aria fresca; di seguire i bianchi e tortuosi sentieri attraverso la brughiera desolata; e di entrare a Londra da Finchley Road, passando per i sobborghi più ariosi della città, per poi tornare indietro, col fresco del mattino, dal lato occidentale di Regent’s Park.

Mi avviai con molta calma lungo la strada serpeggiante che solcava la brughiera, godendomi la calma divina di quella scena, e ammirando la morbida alternanza delle luci e delle ombre che intorno a me si disegnavano l’una dopo l’altra sulla terra riarsa. Mentre così procedeva la prima parte (quella più piacevole) della mia passeggiata notturna, la mia mente, senza opporre alcuna resistenza, rimaneva totalmente aperta alle impressioni prodotte dal paesaggio, e ben pochi pensieri l’attraversavano: in verità, se cerco di ricordare le mie sensazioni in quel momento, ho come l’impressione di non aver pensato affatto.

Ma una volta lasciata la brughiera in favore della strada, dove c’era molto meno da vedere, le idee che quell’imminente cambiamento delle mie abitudini e delle mie occupazioni faceva nascere in me finirono poco a poco con l’assorbire tutta la mia attenzione. Quando giunsi alla fine della strada ero ormai completamente immerso nelle mie fantasticherie su Limmeridge House, su Mr Fairlie, e sulle due fanciulle del cui talento nell’arte dell’acquerello sarei ben presto divenuto responsabile.

Ero arrivato in quel punto del cammino dove quattro strade si incontrano – la strada per Hampstead, lungo la quale ero tornato indietro, la strada per Finchley, la strada per il West End, e la strada che portava a Londra. Mi ero avviato meccanicamente in quest’ultima direzione, e procedevo come un vagabondo per la strada solitaria – cercando di immaginare, se ben ricordo, quale fosse l’aspetto delle giovani signorine del Cumberland – quando, in un solo momento, ogni goccia di sangue mi si gelò nelle vene: una mano, con tocco delicato e improvviso, s’era posata sulla mia spalla.

Mi voltai di scatto, stringendo forte il manico del mio bastone.

E lì, al centro della strada luminosa – lì, come se fosse spuntata in quel momento dalla terra, o caduta giù dal cielo – vidi stagliarsi solitaria la figura di una donna, vestita di bianco dalla testa ai piedi, che mi scrutava con espressione grave, e con la mano indicava la nuvola scura sopra Londra, guardandomi dritto negli occhi.

Ero troppo sconvolto dalla violenza di quella straordinaria apparizione, piombatami davanti all’improvviso nel cuore della notte e in quel posto desolato, per chiederle cosa volesse da me. Fu quella donna misteriosa a parlare per prima.

«È questa la strada per Londra?», mi chiese.

La osservai attentamente, mentre mi rivolgeva quella strana domanda. Era quasi l’una di notte. Tutto ciò che riuscii a distinguere alla luce della luna fu un viso pallido, giovane, con gli zigomi e il mento scarni e affilati; due grandi occhi, gravi e attentissimi; labbra nervose, incerte; e dei capelli chiari, di una sfumatura tra il marrone e il biondo. Non c’era nulla di eccessivo, nulla di impudico nei suoi modi: era piuttosto calma e controllata, vagamente malinconica e forse un poco sospettosa, non sembrava esattamente una gran dama, ma neppure una donna miserabile. C’era nella sua voce, per quanto l’avessi sentita pronunciare solo poche parole, un che di stranamente rigido e meccanico, e parlava molto rapidamente. Portava con sé una valigetta: e il suo abbigliamento (cuffia, scialle e vestito erano tutti bianchi), per quel che fui in grado di notare, non era certo di fattura raffinata o costosa. La sua figura era snella e ben più alta della media; il portamento e i gesti totalmente scevri d’ogni stravaganza. Questo è tutto ciò che potei osservare, per via della luce molto scarsa e delle singolari circostanze in cui ci incontrammo. Che genere di donna fosse, e cosa l’avesse spinta a percorrere da sola quella strada, un’ora dopo la mezzanotte, non riuscii davvero a immaginarlo. Di una cosa soltanto ero certo: neppure il più rozzo degli uomini avrebbe potuto fraintendere il motivo della sua domanda, perfino a quell’ora così tarda e in quel posto così solitario.

«Mi avete sentito?», disse ancora velocemente, ma senza la minima traccia di irritazione o impazienza. «Vi ho chiesto se questa è la strada per Londra».

«Sì», le risposi io, «è questa: porta a Saint John’s Wood e a Regent’s Park. Dovete scusarmi se prima non vi ho risposto. Sono rimasto stupito dalla vostra improvvisa apparizione in mezzo alla strada: e ancora non riesco a raccapezzarmi del tutto».

«Non penserete che abbia fatto qualcosa di male! Io non ho fatto proprio nulla di male. Ho avuto un incidente… È colpa della sfortuna se mi trovo qui da sola, a quest’ora di notte… Perché pensate che abbia fatto qualcosa di male?».

Disse ciò con un’onestà e un’agitazione del tutto fuori luogo, e indietreggiò di qualche passo. Feci del mio meglio per rassicurarla.

«Vi prego di credere che non lo penso affatto», dissi, «e che non desidero altro che aiutarvi, se posso. Sono solo rimasto stupito dalla vostra apparizione, perché fino a un istante prima di vedervi ero convinto che la strada fosse vuota».

Ella si voltò e indicò un punto in prossimità del bivio tra la strada per Londra e quella per Hampstead, dove c’era un varco nella siepe.

«Vi ho sentito arrivare», disse, «e mi sono nascosta lì per vedere che genere di uomo foste, prima di arrischiarmi a parlarvi. Sono rimasta ferma in preda al dubbio e alla paura, finché voi non siete passato; e poi sono stata costretta a seguirvi in silenzio e a toccarvi».

E perché seguirmi? Perché toccarmi? Non poteva semplicemente chiamarmi? La cosa mi parve quanto meno strana.

«Posso fidarmi di voi?», mi chiese. «Voi non pensate male di me perché ho avuto un incidente, vero?». Si fermò, molto confusa, passò la borsa da una mano all’altra e quindi sospirò amaramente.

La solitudine e l’aria indifesa di quella donna mi commossero. L’impulso naturale di aiutarla e di proteggerla ebbero la meglio sul buon senso, sulla prudenza, e sul tatto di cui un uomo più maturo, più saggio e più freddo si sarebbe servito per cavarsi d’impaccio in una circostanza così insolita.

«Potete star certa che le mie intenzioni sono del tutto innocue», dissi. «Se per voi è un problema spiegarmi le ragioni della vostra strana situazione, vi prego di dimenticare l’argomento. Non ho alcun diritto di chiedervi spiegazioni. Ditemi solo come posso aiutarvi: e se posso, lo farò».

«Siete molto gentile: e io sono stata molto, molto fortunata a incontrarvi». Quando disse queste parole, per la prima volta sentii una nota di tenerezza femminile farle tremare leggermente la voce: ma neppure una lacrima brillò in quei suoi grandi occhi attentissimi, che erano ancora fissi su di me. «Sono stata a Londra soltanto una volta, in passato», continuò, sempre più rapidamente, «e non conosco quella zona laggiù. C’è una carrozza, o una vettura di qualsiasi tipo, che mi ci possa portare? O è già troppo tardi? Non lo so. Se poteste indicarmi dove prendere una carrozza… e se solo mi prometteste di non interferire, e di lasciarmi andar via quando e come voglio… ho un’amica a Londra che sarebbe felice di ospitarmi… non vi chiedo altro… Me lo promettete?».

Si guardò intorno con ansia, scrutando in lungo e in largo la strada; passò di nuovo la borsa da una mano all’altra; ripeté le parole: «Me lo promettete?», e mi puntò addosso i suoi occhi imploranti, carichi di tanta paura che ne fui commosso.

Cosa potevo fare? Avevo di fronte uno sconosciuto totalmente alla mia mercé… e quello sconosciuto era una donna sola e abbandonata! Non c’era neppure una casa nelle vicinanze; nessun passante a cui chiedere informazioni; e nessuna ragione al mondo poteva darmi il diritto di esercitare alcun potere su di lei, anche ammettendo che avessi saputo come esercitarlo. Mi rimprovero amaramente di non averlo fatto, ora che l’ombra di tutto ciò che è accaduto dopo quell’incontro tinge di nero anche il foglio di carta che ho davanti. Eppure, mi chiedo ancora: cosa potevo fare?

Come prima cosa, cercai di guadagnare un po’ di tempo facendole altre domande.

«Siete sicura che la vostra amica di Londra vi potrà ricevere a quest’ora di notte?», le dissi.

«Sicurissima. Dite soltanto che mi lascerete andar via quando e come vorrò… e che non cercherete di interferire. Me lo promettete?».

Mentre ripeteva per la terza volta queste parole, mi si fece più vicina e d’improvviso, con un gesto dolce e furtivo, posò una mano – una mano delicata – sul mio petto; una mano gelida (quando la presi nella mia me ne accorsi) perfino in quella notte soffocante. Ricordate, vi prego, che ero giovane: e che la mano era quella di una donna.

«Me lo promettete?».

«Sì».

Una sola parola! Quella piccola, consueta parolina che è sulle labbra di tutti, in ogni ora del giorno. E adesso… Oh, Dio del cielo!… Adesso che la scrivo io tremo.

Ci volgemmo verso Londra, e camminammo insieme nella prima ora immobile del giorno – io e quella donna, il cui nome, la cui vera natura, la cui storia, il cui scopo nella vita, la cui stessa presenza al mio fianco, in quel momento, erano misteri insondabili per me. Tutto mi appariva come un sogno. Ero davvero Walter Hartright? Era quella la strada di sempre, placida e tranquilla, in cui la gente andava a passeggio di domenica? Avevo davvero lasciato, soltanto poco più di un’ora prima, l’atmosfera raccolta, decorosa, familiare del caro vecchio villino di mia madre? Ero molto frastornato, e un vago, inesplicabile senso di colpa mi impediva di rivolgere la parola alla mia interlocutrice: così, per qualche minuto, tacqui. Fu ancora una volta la sua voce a rompere il silenzio tra di noi.

«Ho una domanda da farvi», disse improvvisamente. «Conoscete molte persone a Londra?».

«Sì, moltissime».

«Molti uomini ricchi e titolati?». C’era un’inconfondibile nota di sospetto in quella strana domanda. Esitai un poco prima di rispondere.

«Alcuni», dissi, dopo un istante di silenzio.

«E molti», ella disse fermandosi di colpo, e guardandomi con aria indagatrice, «molti con il titolo di baronetto?».

Troppo stupito per rispondere, le domandai a mia volta:

«Perché me lo chiedete?».

«Perché spero, per il mio bene, che voi non conosciate un certo baronetto in particolare».

«Non volete dirmi il suo nome?».

«Non posso… non oso farlo… se soltanto pronuncio il suo nome mi sembra d’impazzire». Disse ciò ad alta voce e quasi con ferocia, alzò nell’aria il pugno stringendolo forte, e lo agitò rabbiosamente; poi, all’improvviso, tornò a controllarsi, e aggiunse, abbassando il tono fino a sussurrare: «Ditemi voi quelli che conoscete».

Poiché non mi costava nulla soddisfare la sua curiosità, le feci tre nomi. Due erano i genitori di alcune delle mie allieve; il terzo, che non era sposato, mi aveva invitato una volta in crociera sul suo panfilo, per fargli dei disegni.

«Ah! Non lo conoscete!», ella disse, con un sospiro di sollievo. «E voi? Siete un uomo ricco e titolato, voi?».

«Tutt’altro. Sono solo un maestro di disegno».

Mentre pronunciavo questa risposta – con un po’ di amarezza, forse – ella mi prese il braccio con l’impetuosità che caratterizzava ogni suo gesto.

«Non è un uomo ricco e titolato», ripeté a se stessa. «Grazie a Dio! Di lui mi posso fidare!».

Fino ad allora ero riuscito a trattenere la mia curiosità, per rispetto della mia accompagnatrice: ma a quel punto non potei più resistere.

«Devo pensare che abbiate ragioni molto serie di lamentarvi della condotta di qualche uomo ricco e titolato?», dissi. «Forse questo baronetto, il cui nome non volete confidarmi, vi ha fatto qualche grave torto? È lui la causa della vostra presenza qui a quest’ora di notte?».

«Non fatemi domande; non costringetemi a parlarne», rispose. «Non ne ho la forza, adesso. Con crudeltà sono stata usata, con crudeltà si è voluto farmi torto. Vi sarei infinitamente grata se voleste accelerare il passo, senza rivolgermi più la parola. Vorrei soltanto stare un po’ tranquilla, se ci riesco».

Ci rimettemmo in marcia di buon passo: e per mezz’ora almeno non pronunciammo neppure una parola. Di quando in quando, essendomi stato

Ti è piaciuta l'anteprima?
Pagina 1 di 1