Non era un fiore era un'ortica. Compagnia Alpini Paracadutisti 1964
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Anteprima del libro
Non era un fiore era un'ortica. Compagnia Alpini Paracadutisti 1964 - Orazio Sguazzero
un'ortica
14G0813_ALPINI PARA_sguaz 25/09/14 10:38 Pagina 1
Non era un fiore era un’ortica
Compagnia Alpini Paracadutisti
1964
di Orazio Sguazzero
14G0813_ALPINI PARA_sguaz 26/09/14 08:50 Pagina 2
Un sentito ringraziamento
alla mia compagna Ernestina
che da anni mi sopporta
e che durante
la sofferta
stesura di questo libro,
durata quasi un anno, mi ha seguito
con affetto e interessamento.
In copertina: agosto 1964,
Grazie e buona lettura.
scalata sul Monte Cristallo.
Nota redazionale
Tutte le immagini ed i testi presenti
sono da attribuirsi all’autore.
© Archivio fotografico: Orazio Sguazzero Nessuna parte di questo libro
può essere riprodotta o trasmessa
in qualsiasi forma o con qualsiasi
mezzo elettronico, meccanico
o altro senza l’autorizzazione
scritta dei proprietari dei diritti
e dell’autore.
© 2014 Orazio Sguazzero
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dedico questo libro
a tutti i Paracadutisti
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Compagnia Alpini Paracadutisti
I Signori,
Capitano Ciarletta Franco
Tenente Bossù Druso
Maresciallo Bologna Igino
Tenente Cigala Fulgosi Quinto
Sergente Maggiore Silvi Fernando
Metello
Sergente Maggiore Pallara Franco
Tenente Comel Francesco
Sergente Branca Nicola
Tenente Cresta Renato
Sergente Scarapellini Vittorio
Maresciallo Berga Dario
Sergente Borani Stefano
Maresciallo Borghese Carlo
Sergente Bissoli Renato
Maresciallo Cepparullo Giovanni
Sergente Quarena
Maresciallo Porciani Antonio
I Najoni
Alpino parac. Adami Bruno
Alpino parac. Bosco Vincenzo
Alpino parac. Adriano Luigi
Alpino parac. Bottega Mario
Alpino parac. Allegrini Pier
Alpino parac. Brussino Michele
Alessandro
Alpino parac. Camperi Carlo
Alpino parac. Aquilone Renato
Alpino parac. Capoferri Umberto
Alpino parac. Arato Giovanni
Alpino parac. Carrara Giovanni
Alpino parac. Balbi Pierfranco
Alpino parac. Cavallotti Luigi
Alpino parac. Balducci Giuseppe
Alpino parac. Ceralli Gaudenzio
Alpino parac. Ballardini Giulio
Alpino parac. Chiodaroli Vittorio
Alpino parac. Barana Alberto
Alpino parac. Da Pieve Bruno
Alpino parac. Barbetta Rodolfo
Alpino parac. Dalla Porta Lino
Alpino parac. Barbieri Tito
Alpino parac. Della Valle Giuseppe
Alpino parac. Bardelli Carlo
Alpino parac. Dal Zotto Marilucio
Alpino parac. Baroni Costantino
Alpino parac. Davit. Gian Franco
Alpino parac. Belliardo Roberto
Alpino parac. De Bortoli Mariano
Alpino parac. Bertoldo G. Franco
Alpino parac. De Monte Giuseppe
Alpino parac. Bertolini Ulisse
Alpino parac. Del Vecchio Felice
Alpino parac. Bettoni Roberto
Alpino parac. Dell’Agnese Mario
Alpino parac. Bo Franco
Alpino parac. Di Bert Giuseppe
Alpino parac. Bonanomi G. Battista
Alpino parac. Di Sisto Settimio
Alpino parac. Bonvicini Andrea
Alpino parac. Digoncelli Domenico
4
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Alpino parac. Dotti Mario
Alpino parac. Pizzati Casaccia
Alpino parac. Durando Roberto
Lorenzo
Alpino parac. Elia Teresio
Alpino parac. Plaino Giovanni
Alpino parac. Erba Elvezio
Alpino parac. Pollazzon Giovanni
Alpino parac. Fabbro Vito
Alpino parac. Pontiggia Marziano
Alpino parac. Faletto Alberto
Alpino parac. Prazzoli Enrico
Alpino parac. Faronato Onorio
Alpino parac. Priod Marco
Alpino parac. Ferrario Francesco
Alpino parac. Prolongo Lucio
Alpino parac. Filippi Paolo
Alpino parac. Ragazzini Silvano
Alpino parac. Franchini Adriano
Alpino parac. Ravanelli Nello
Alpino parac. Gelmi Amadio
Alpino parac. Realini Fiorenzo
Alpino parac. Ghiotti Luigi
Alpino parac. Ribotta Pasquale
Alpino parac. Gianmoena Narcisio
Alpino parac. Rizzotti Ottavio
Alpino parac. Giolitto Francesco
Alpino parac. Roncen Mario
Alpino parac. Grigis Leone
Alpino parac. Santin Pietro
Alpino parac. Grigis Luigi
Alpino parac. Saracini Giovanni
Alpino parac. Guerini Matteo
Alpino parac. Savino Francesco
Alpino parac. Lucca Nereo
Alpino parac. Savoldelli Aristide
Alpino parac. Lunghi Aurelio
Alpino parac. Scotti Maurizio
Alpino parac. Malavolti Umberto
Alpino parac. Seghezzi Tarcisio
Alpino parac. Magnani Marco
Alpino parac. Sguazzero Orazio
Alpino parac. Maritano Renato
Alpino parac. Sguazzin Gianni
Alpino parac. Martino Daniele
Alpino parac. Sordi Enzo
Alpino parac. Maso Giuliano
Alpino parac. Suffredini Franco
Alpino parac. Mauro Vittorio
Alpino parac. Tassan Gianpiero
Alpino parac. Milani Martino
Alpino parac. Tavella Pietro
Alpino parac. Molineri Franco
Alpino parac. Turino Francesco
Alpino parac. Moretti Pier Giorgio
Alpino parac. Uliana Aldo
Alpino parac. Moro Umberto
Alpino parac. Urgnani Ettore
Alpino parac. Motta Pietro
Alpino parac. Valsecchi Gerolamo
Alpino parac. Nespoli Angelo
Alpino parac. Vinatzer Hans
Alpino parac. Nicoli Bruno
Alpino parac. Volpato Edo
Alpino parac. Negroni Maurizio
Alpino parac. Zanotti Gianni
Alpino parac. Omissoni Florio
Alpino parac. Zecchini Francesco
Alpino parac. Pagotto Michele
Alpino parac. Zerla Edoardo
Alpino parac. Paris Bruno
Alpino parac. Paris Silvano
Alpino parac. Pasin Mario
Alpino parac. Penazzi Giorgio
Alpino parac. Pistore Edoardo
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Prefazione
Questa è la brevissima storia della Seconda Squadra, Secondo Plotone della Compagnia Alpini Paracadutisti.
Dall’inizio a Pisa nel Novembre 1963, come Plotone Paracadutisti della Brigata Orobica, alla formazione della Compagnia, sino al Congedo nel febbraio del 1965.
Avevo promesso ai miei commilitoni di rispondere ad un Capitano che, Comandante, sia di Najoni, sia di Volontari, affermò tranquillamente che gli Alpini Paracadutisti di Leva, erano al confronto dei Volontari, solo dei dilettanti allo sbaraglio
. Indubbiamente un affermazione pesante.
Promessa mantenuta.
Spero che il Capitano possa leggere questo scritto e possibilmente ricredersi. In ogni caso noi sghignazzeremo.
Sì, leggendo questa nostra storia semplice e vera, ricordando quegli anni, noi sghignazzeremo.
Anzi qualcuno canterà anche non era un fiore era un ortica
.
Non avrei potuto essere così preciso nelle date e negli avvenimenti se non avessi avuto a disposizione il Diario dell’Alpino Paracadutista Bardelli Carlo di Arona.
Sì, il barba bianca
scrisse, non solo alla Piera, ma anche, giorno per giorno, sinteticamente, tutto ciò che accadeva nella Compagnia.
Spero che i nostri Signori
tutti, siano comprensivi per i commenti salaci.
Altrimenti anche loro...
Noi li ricordiamo, debbo dire, con affetto e stima. Sempre.
Anche... sì anche Ciarli.
Mai Strack.
Alpino Paracadutista
Orazio Sguazzero
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Alto Lario
Dove la metti la vita dura?>
il giardiniere
sentì l’odore>
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dura... dura! Osti, guarda... guarda. Vedi quell’uomo là?>
Era nella Compagnia, nel 64 con il Ciarli.>
Si, c’era un uomo, quel giorno, sulla cima del Pizzo.
In piedi, appoggiato ad un lungo bastone...
Lui ed un cane.
Era la fine di Agosto.
Nella notte, il vento del Nord aveva spazzato il cielo, reso le cime scintillanti e lasciato un aria fine, fresca, pulita.
Non una nube. Il lago vibrava come le foglie di un sorbo.
Intorno, montagne.
Era salito da Bodengo, su nel bosco di faggi ed abeti rossi.
Un sentiero ripido, nell’ombra.
Uno zaino, dei vecchi scarponi, un berretto dell’Esercito Svizzero, un lungo bastone di nocciolo ed un cane.
Un cane nero.
Si fermò al limitare del bosco.
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Nella penombra, osservò i pascoli dell’Alpe del Dosso con attenzione, entrò nel sole e traversò veloce sino alla fontana. Una fontana grande, di granito. L’acqua brontolava, giovane e freschissima.
L’uomo riempì la borraccia.
Zaino in spalla, lasciò l’Alpe calpestando un tappeto di mirtilli.
Rientrò nel bosco ed iniziò a risalire il costone. Il cane nero lo seguiva.
Raggiunse la pietraia ad Est del monte Cucco e proseguì, alto sulla bellissima Alpe di Campo.
Un improvviso volo di coturnici lo fece sobbalzare.
Tirò diritto verso l’attacco del canalone, incrociò i bolli rossi ed iniziò a risalire il ripidissimo imbuto del Cannone del Ledù.
L’uomo aveva rallentato. Il cane guizzò in avanti. Ogni tanto si fermava e voltando solo la testa, lo guardava salire lentamente.
Ombra e silenzio.
Finalmente raggiunsero la Bocchetta del Cannone, attraversarono la stretta fessura ed entrarono in un nuovo mondo. Un mondo di luce abba-gliante.
Il laghetto del Ledù, il bivacco rosso, il lago di Como, le Alpi. Un Paradiso.
L’uomo, il cane sempre in testa, iniziò l’ultimo strappo. Andava su diritto per il pendio.
Cinquanta minuti dopo, erano entrambi sulla cima del Pizzo di Rabbi.
Il cane nero seduto, attento. L’uomo appoggiato al suo lungo bastone.
Pizzo di Rabbi
Quattro ore, anzi quattro ore e mezza, un eternità. Si, ma ormai andavo per i 72 e 1400 m. di dislivello erano sempre tanti, forse troppi.
Del resto, per cercare di risolvere il mio problema, sentivo di dover salire sulla cima di un monte e non una cima qualsiasi, una cima giusta e la cima del Pizzo di Rabbi era una di queste.
Giusta, lo sentivo.
Ero già salito anni prima, la conoscevo e sarebbe andata benissimo per il mio scopo.
Perlomeno lo speravo.
Quattro ore, d’altra parte il cuore era quello che era ormai.
In ogni caso meglio, sicuramente meglio, schiattare su di un sentiero di montagna che aspettare la fine in un lettino d’Ospedale, con il corpo pieno di buchi, di cannette e con il pappagallo.
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Ogni giorno sempre più rincoglionito, con la dignità ormai su per il culo e sperando solo di lasciare presto il letto libero.
Destino.
Si dice che si vive quando si deve vivere e si muore quando si deve morire.
Questione di filo ed il mio di filo era stato lungo, si con qualche nodo, ma, tutto sommato ero sempre stato bene, insomma non avevo mai avuto un cazzo.
Ora però questo sogno cominciava a darmi fastidio.
Un sogno!
Vero, il mio problema era uno stupido sogno.
Non ero preoccupato. No preoccupato no, almeno non più di tanto.
Solo che non capivo.
Non vedevo una soluzione. Forse il sogno voleva indicarmi qualcosa.
Insomma c’era tutta una letteratura sui sogni.
Spesso cercano di avvisarti, qualche volta portano anche fortuna.
Già, adesso ti spiegano anche il corso delle stelle, ma andiamo.
Com’era?
Il sogno: la via per comunicare con l’altro mondo.
Si, l’ altro mondo!
Qualcuno però, con i sogni aveva guarito la gente per secoli e con successo, visto quel teatrone a Epidauro.
Inoltre la piega che aveva preso questo mio sogno, suggeriva cautela. Si, sarebbe stato meglio andarci piano.
Per questo ero quassù.
Le cime dei monti, la foresta, la solitudine e il vento mi avrebbero aiutato a pensare, a meditare e forse avrei trovato una spiegazione.
Ne ero sicuro. Era sempre stato così.
Dovevo pensarci su, cercare di capire.
Un sogno... sembrava un sogno come tanti altri.
Ora invece era diventato un sogno strano, inquietante.
Dunque. Vediamo.
L’inizio non era male.
Avevo attraversato un rado bosco di betulle, umido, immerso nella nebbia.
Improvvisamente sbucai nel sole.
Nebbia e neve alle mie spalle.
Un sentiero tagliava un erto pendio, ricoperto di crochi gialli, ve ne erano un infinità. Lo seguiì.
Doveva essere di primavera.
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Così iniziava sempre quel sogno. All’inizio succedeva raramente, ma ormai il sogno aveva una frequenza settimanale.
Roba da matti.
Un sole giallo, giovane. In basso, solo nebbia. Non sapevo dove diavolo fossi finito.
Attorno solo monti sconosciuti. A Nord, lontano, giganti coperti di neve.
Guardai di nuovo. Nessun segno di vita, non un campanile, non una strada, non un filo di fumo.
Niente. Solo il sentiero che stavo seguendo. Dove andasse, non sapevo.
Ad ogni sogno, si aggiungevano particolari: il cielo azzurro, aceri mon-tani, fiori, pini mughi.
All’improvviso mi accorsi d’indossare una tuta mimetica e degli stivaletti di cuoio. Oh, cazzo!
Ero sorpreso. La mimetica era un indumento militare ed io detestavo chi, da civile, l’usava persino per tagliare l’erba.
Indecente. Continuavo sempre a salire. Il sentiero era più agevole, in alcuni punti sembrava lastricato, in altri, il terreno franato lasciava intrave-dere delle tracce di scarponi.
Meno male, qualcuno era passato prima di me.
Non ero solo.
Mi sentivo leggero, le gambe tenevano, sudavo pochissimo e andavo su come un dio.
Il sentiero incideva ripido la montagna. Vidi che lassù, in alto, scompariva dietro un ampia sella erbosa.
Continuai.
Fra poco sarei arrivato su alla colma e avrei potuto guardare dall’altra parte e forse scoprire dove diavolo fossi...
Era ora. Mancava poco ormai.
Mi fermai di colpo.
Cazzo, si sentivano delle risate, delle voci, un parlottare. C’era della gente dall’altra parte.
Finalmente.
Cercai di proseguire... ma fu inutile.
Ero fermo, non potevo muovere un passo.
Immobile. Non c’era verso, Cazzo!
Il sogno terminava sempre in questo modo. Fermo, immobile, non potevo muovere nemmeno un pollice.
A pochi metri le voci ed io fermo come un pirla.
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L’ultima volta, la fine era cambiata.
Il cielo divenne, all’improvviso, rosso. Tutto rosso. Rosso sangue.
Rossi i prati, i cespugli, le nuvole. Cazzo, tutto era rosso.
Al risveglio, mi preoccupai, non vedevo una spiegazione, un perché.
Monti, salite, rosso! Mah!
Cercavo una risposta.
Si, le cime dei monti, gli oceani ed i deserti sono luoghi adatti per trovare risposte. Almeno si dice.
Io avevo a disposizione solo montagne.
Mi venne in mente il Pizzo.
In cima, avrei ripensato a tutto con attenzione.
Sicuro, le cime dei monti calmano gli animi, rilassano mente e corpo. Si, solo da vecchi però.
Il respiro era tornato normale.
Montai la Hilleberg. La tenda, robustissima, aveva un unico posto e pesava come una piuma.
Una tenda sulla cima di un Pizzo a 2451 m. non è il massimo, ma in caso di maltempo, avrei raggiunto il bivacco del Ledù, al sicuro.
Anche per questo avevo scelto il Pizzo di Rabbi.
Avevo mele, fichi secchi, mandorle, uova sode, cioccolato fondente, speck, segale e vino, si vino.
Erano anni che bevevo vino sulla cima.
Si tutti sappiamo che il vino …. ma a questo vizio o a questa virtù, mi iniziò il Ferruccio, sulla Jungfrau.
Si, il Ferruccio. Ma che cazzo c’entra il Ferro? Pensieri spontanei?
Bene. Allora avanti.
Sarà stato il 70 o il 71.
Prima non avevo mai bevuto vino in vetta.
Certo il Ferruccio, una roccia. Si diceva che non vuotasse mai lo zaino.
Lo riempiva continuamente.
Non lo vidi mai stanco, mai arrabbiato, nemmeno quella volta al Bivacco Taveggia, alla Sentinella della Vergine. Osti.
Quella notte avrebbe avuto ben ragione d’incazzarsi. Erano partiti in tre, quel Sabato mattina di fine inverno, in auto verso Chiareggio, in Val Malenco: il Ferro, il Tetta e il Barinda. Li avrei seguiti in moto nel pomeriggio.
Arrivai a Chiareggio verso sera, con zaino, racchette, sci e picozza con il manico di legno, ovviamente.
Continuai oltre il ponte, sempre in moto, su per il sentiero innevato 14
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verso la Porro. Dopo un centinaio di metri mi fermai.
La neve era troppo alta e anche le gomme artigliate della mia 250 A. M, trasformata dal Villani, affondavano miseramente.
Lasciai la moto nella neve, infilai gli sci con le pelli e iniziai la salita. Oltrepassato il Rifugio Porro, m’inoltrai sul ghiacciaio del Ventina. Merda era quasi buio.
Due ore dopo, stavo sempre seguendo le loro tracce. Sempre più buio.
Crepacci non ne vedevo.
Alla fine, per fortuna, vidi gli sci infilati nella neve, addossati alla parete di roccia. Fischiai e li raggiunsi.
Il Taveggia era poco più in alto, proprio sotto la spalla della Punta Ken-nedy.
Ci si stava giusto in quattro, sdraiati, uno di fianco all’altro.
Il fattaccio successe a notte fonda.
Il Ferruccio ruppe il silenzio.
Il Tettamanti continuò.
Ferruccio.
Tettamanti.
Barindelli.
Ferruccio.
Tettamanti.
Osti, altro che acqua! Gocce di vomito al profumo di ciliegia. Un casino? No, no, il Ferro non s’incazzò neanche un po’, nemmeno quella volta.
Tolse semplicemente il cappuccio della giacca a vento dal soffitto e lo mise fuori dalla porta.
Faceva un freddo cane.
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Il Ferruccio ed il Tetta, fino a quando furono in grado di farlo, ogni fine settimana, dico ogni fine settimana, andavano in montagna, la loro vita.
Dovrebbero avere un monumento per tutti i giovani che si portarono sempre dietro.
Un inverno, il Ferro scese con gli sci dalla Nord del Cassandra, noi a guardare. Incredibile.
Questo era il Ferruccio, il Ferruccio di Brunate. Lui ed il vino: il Clinto.
Si, cazzo, il vino!
Ora la Jungfrau sarà anche una montagna facile, ma è pur sempre un 4000 e, sulla cima, dove il Ferro ed io eravamo arrivati primi, diligentemente, proposi un tè caldo. Un tè caldo, con il miele.
Mi versò il vino in un gavettino dell’Esercito.
Cazzo, la sua Naja era finita da perlomeno 15 anni ed il Ferro usava ancora il gavettino. Si, perché, così il vino si ossigenava, si vedeva bene, c’era più gusto, diceva.
Ero sicuro che ci fosse anche una componente di nostalgia. Ferro era stato Sergente degli Alpini.
Fu così che fui introdotto al rito della bevuta sulla cima. Rito dal quale non mi sono mai separato. Forse per scaramanzia o forse anche per me c’entrava la nostalgia. Forse tutti gli Alpini soffrivano un po’ di nostalgia.
Allora, sulle cime, restavamo pochi minuti, il tempo di una bevuta, un giro d’orizzonte, due risate e giù, con o senza sci.
Ora, era tutta un altra storia.
Era diverso, molto diverso.
Si era restii a scendere, quasi consapevoli che forse, quella, sarebbe stata l’ultima volta.
Solo il vino era rimasto. Certo non il Clinto. Quello era introvabile ormai, già non solo quello.
Ora i pensieri correvano meno, spesso restavano lì, nella mente, distinti, profondi, quasi incorniciati.
Si pensa ora.
Quella volta in cima alla Jungfrau, arrivò anche l’ing. Novi.
Ricordo benissimo i suoi capelli neri. Aveva allora almeno 70 anni.
Io invece, alla sua età, ho i baffi bianchi e una magnifica pelata. Mah!
Certo, il fisico era stato sempre pronto, un fischio e via. Oggi, invece chiara, chiarissima, la decadenza, lenta ma inesorabile.
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Lo spirito teneva, anzi, spingeva ancora.
Bello dirlo. Spingeva, si, una spintarella ogni tanto, quel tanto che bastava per salire ancora sui monti.
Naturalmente era scomparso quel bell’impeto giovanile, quel profondo sentirsi padroni del mondo, quasi immortali.
Che bella sensazione era. Che goduria. Si, questo era lo spirito di quando eravamo giovani.
Nemmeno la sfiga avrebbe potuto fare qualcosa contro di noi.
Certo, così si pensava.
No, a noi mai! Queste cazzate capitano solo alle mezze seghe e agli imbranati, a noi no. Mai!
Questo era, a vent’anni, il pensiero che girava. Il credo.
Avanti d’istinto. Salite e discese senza soste, cadute mai, solo con gli sci.
Sempre di corsa, in ogni cosa. Che gasati.
Certo, verissimo, tutti di corsa, d’impeto, sempre avanti, all’assalto.
Merda che testa che avevamo.
Si, ma tutto ciò non mi aiutava a trovare una soluzione. Non mi aiutava per niente.
Oh, porca puttana, come ho fatto a non capirlo prima!
Ma certo: il Ferro, la neve, la salita, le montagne, la tuta mimetica, gli scarponi, il gavettino, la tenda, il vino, erano tutti indizi! Una serie di indizi. Indizi di cosa? Un momento. Mi grattava la nuca.
Dunque! Calma, calma, se no mi scappa il filo. Una grattatina.
L’Esercito! Ma no, non l’Esercito. No, l’Esercito no! Ma per favore!
Un momento... eppure tutto sembra coincidere, tutto s’incastra.
Gli indizi avevano una sola cosa in comune: l’Esercito, anzi gli Alpini.
Oh, Merda. Vediamo un po’. Si, nell’Esercito c’era stato tutto questo, dalla neve, al gavettino, alla tenda, certo.
Osti anche il vino.
L’Esercito, sicuro. Gli Alpini. La Naja.
La Naja, ma quando... quando era cominciato tutto l’ambaradan?
Cos’era? Il ‘64? No, no, il ‘63, certo il ‘63!
Si, si, ricordo benissimo. Salimmo gratis su quel treno, Tito ed io, un pomeriggio tardi. Un pomeriggio di Novembre.
Si era Novembre.
Gratis per forza. In tasca il biglietto, la cartolina ed un foglio pieno di timbri.
Sul foglio si leggeva benissimo: Centro Add. Paracadutisti. Pisa. Zona 17
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Reclutamento Alpino.
Questa sarebbe stata la nostra Naja, se tutto fosse andato bene. Alpini, Alpini Paracadutisti.
Tutta colpa del Vivaldo, nostro amico, compagno di scuola e di casini.
In effetti, il Vivaldo, in licenza, venne a scuola per salutarci. Era in divisa, con il suo bel cappello alpino ed il brevetto da Paracadutista. La mise giù dura, durissima.
Parlava come un Commissario Politico dell’Armata Rossa: Merano?
Bellissima. La Casermetta? Pulitissima. Vitto ottimo. Cap. Torchio? : Ec-cezz. Maresciallo Porciani? Idem.
Monti, tende, assalti, corso sci, nuoto, etc. etc..
Un Paradiso insomma. Si certo, il kulo era grande, ma in Caserma: docce calde e pulizia.
Fuori, figa a gogò. Bene ci aveva convinti.
Tito ed io demmo sempre la colpa al Vivaldo per i nostri casini.
Il Vivaldo era un pezzo d’uomo di 1.85 m, con il quale era sempre duro attaccar briga, ma in effetti noi si era già da tempo deciso.
Paracadutisti, non ci pioveva.
Se si voleva andare negli Alpini Paracadutisti, non c’era altra via. Solo Najoni.
Sottotenenti di complemento non ne prendevano.
In ogni caso, un Maggiore, al Distretto Militare disse che noi, Tito ed io... Ufficiali? Mai! Ci disse anche il perché.
I nostri padri erano stati Ufficiali della Repubblica, quella Sociale, ovvio.
Avevano giurato singolarmente. Già il famoso bigliettino di punizione.
Meglio così. Allora volontari, come il Vivaldo.
A dire il vero, con qualche kilo di scartoffie, avrei anche potuto restare a casa, visto che il mio Vecchio era mutilato di guerra. Questione risolta in un minuto.
Beh! Tentato avevo tentato.
18 Novembre 1963, lunedì
Purtroppo per noi, i Plotoni Paracadutisti presso le Brigate furono sciolti ed al loro posto, fu formata una Compagnia.
18
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Non sapevamo che tutto ciò sarebbe stato un chiarissimo esempio d’inettitudine organizzativa del nostro Esercito.
Tutto ciò successe proprio durante la nostra Naja.
Ma sul treno, tutto questo ci era ancora sconosciuto, non sapevamo nemmeno quanto grosso sarebbe stato il kulo che ci avrebbero fatto e non lo sapevano sicuramente nemmeno le due mezzeseghe sedute di fronte a noi.
Si, ma quei due stavano andando da qualche altra parte. Erano due bassotti, troppo bassotti.
Li guardai meglio. Uno, nero di capelli era cicciottello. L’altro, magrissimo, aveva la mascella storta e due occhi da rompicoglioni.
Tito scosse il capo, anche lui era d’accordo. Ma quale Pisa per quei due seghini!
Parlavano sottovoce, ma si capiva benissimo che il loro linguaggio era semplicemente dialetto, dialetto lombardo.
Il rompicoglioni doveva essere addirittura brianzolo. Io non lo ero solo per qualche centinaio di metri. Infatti nel mio Comune Capiago-Intimiano, era Intimiano di rito Ambrosiano, quindi Brianza e Capiago di rito Romano, quindi non Brianza. Il dialetto era comunque, più o meno lo stesso di quello del seghino.
Il tono del cicciottello era invece più aspro, quasi rigido, doveva essere un Laghée
.
Si, si, era dialetto brianzolo quello del rompicoglioni, ne fui sicuro quando sbottò.
-
Sorrisi.
Il brianzolo s’accorse del sorrisetto e subito s’inalberò.
Non volevo litigare, così risposi tranquillo.
Il cicciottello interruppe la tensione dicendo.
Il laghée sembrava un pacioccone, imbranato nei movimenti, ma svelto di testa.
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Il brianzolo era deciso e sicuramente uno spaccaballe litigioso.
Alla fine domandai, temendo la risposta.
< A Pisa> risposero entrambi.
Tito ed io ci guardammo perplessi. Cristo, arruolavano anche i nani adesso? Povero paese.
Uscimmo a fumare nel corridoio.
Il treno si stiracchiava nella notte. Dormicchiammo un po’ tutti.
Le Alpi nere, dipinte su un tramonto rosso, erano ormai scomparse da ore.
Le avevamo guardate a lungo le Alpi, sarebbero passati mesi prima di rivederle.
Finalmente a Genova, il treno si fermò. Scesero parecchi giovani. Tutti al bar.
Ordinammo dei Caffè. Il rompicoglioni lo volle con il medeghètt
.
Il barista lo guardò tra curiosità e stizza.
Marziano raddrizzò la schiena, già teso.
Intervenni.
Marziano continuò.
Il tutto in italiano, non più in dialetto. Si perché ormai, era chiaro, avevamo passato la frontiera.
Mentre risalimmo sul treno, Marziano continuò a pontificare. -
<... Si, il medeghètt è una medicina. Si, si, Osti. Una medicina.> Siamo a posto, 4 o 5 da sano, figuriamoci da malato, pensai.
Non sapevo quanto mi stessi sbagliando.
Marziano Pontiggia, marziano lo era davvero.
Per tutta la naja, bevve solo sambuca, vino mai. Beh! Quasi mai.
Forse per questo era sempre incazzato.
< Piccolo ma sanguinoso.>diceva.
Bastava un niente e Marziano raddrizzava la schiena, come un cane il pelo.
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Del resto, a Caslino, lui, l’officina l’aveva davvero. Marziano costruiva forbici e coltelli. Osti, più tagliente di così.
Brianza operosa, lavoratori, anche umani, si fa per dire. Sempre pronti a mandarti a da via ul cù.
Ci voleva del bello e del buono per calmarlo.
Lui e Della Valle detto boriggia
divennero inseparabili. Si anche nell’arte sottile dell’imboscarsi, in Caserma ovviamente.
e s’imboscavano.
Maledetti, mi sfuggivano sempre di mano. Il Sergente Borani il Rosso
dava gli ordini.
< Sveglia, via a prendere la legna con il CL. Via. Forza Caporale> Mi giravo verso la Squadra. Tutti erano lì dietro di me, pronti. Ma quei due, quei due maledetti erano già spariti.
Ma tutto ciò sarebbe successo molto tempo dopo.
Mi addormentai. Il treno, tra scossoni, sobbalzi e gallerie, riprese la corsa lungo la costa.
Riaprii gli occhi in una Stazione tutta illuminata. Il treno era fermo in una galleria.
Uscimmo nel corridoio.
Molti giovani fumavano chiaccherando, altri si sentivano vociare in piemontese, bergamasco, comasco.
Ascoltammo. Andavano tutti a Pisa.
Erano parecchi.
Il convoglio ripartì fischiando, verso dove... mah! Si, Pisa... ma dopo?
Nessuno lo sapeva con certezza.
Finalmente, le innumerevoli gallerie finirono e vedemmo, all’alba, il mare.
Una serie di Osti
e di Pòta
. Per molti era la prima volta. Tutti svegli a guardare dai finestrini.
Non c’era molto da vedere. L’acqua del mare aveva il colore delle
piode
disse qualcuno.
In effetti era, come dire, non tutta grigia, ma striata, maculata di pioggia, sofferente e l’orizzonte scompariva subito sotto una nuvolaglia nera.
Nuvole rotonde, alcune pendenti, sbriciolate.
Uno disse che dovevano essere così le tette all’inferno, nere, grige, bi-torzolute e in offerta.
Nelle Stazioni facce livide, stanche.
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Gente infagottata, frettolosa, saliva sospinta e distratta sul treno.
Allo scorrere dei nomi delle località, nessun commento.
La gente imbambolata li vedeva ogni giorno e per molti di noi: Massa, Forte dei Marmi e così via non significavano niente.
Tito era stato in vacanza a Lerici con i genitori e favoleggiò di splendide ragazze.
Marziano che lo stava ascoltando, disse sedendosi.
Cazzo, ma cosa vuol scopare quella mezzasega di bassotto!
Sicuramente avrà un minipirla nella patta e poi l’avrà vista solo in cartolina, come il mare del resto.
Tito rise, disse che dal Castello, a sera, si vedeva tutto il golfo illuminato.
Il treno arrivò a Pisa e scaricò un casino di persone. La nostra masnada restò a bordo. Nessuno voleva scendere.
Stavano tutti, incerti, affacciati ai finestrini, titubanti. Attenti come lepri con la gabbia improvvisamente aperta.
Ma per noi, nessuna insperata libertà. Solo 15 mesi nell’Esercito.
Chissà.
Arrivò un altro treno.
L’androne della Stazione era un guazzabuglio di persone. Noi stavamo sempre a guardare il via vai, tanto il treno non avrebbe proseguito.
La folla si strinse frettolosa verso l’uscita e stranamente, verso la fine, iniziò ad ondeggiare risentita.
Si divise in due, lasciando uno spazio vuoto.
Al centro, scorsi un uomo.
Cazzo!
Un uomo in tuta mimetica.
Lo si vedeva benissimo.
Alto, ritto, straffottente, magro come una saracca. Aveva un naso aquilino, un basco verdastro sull’orecchio, maniche arrotolate, stivaletti, cinturone in vita e braccia sui fianchi.
Osti, era proprio nel mezzo dell’androne.
Quel maledetto stronzo sembrava aspettasse.
Dietro, altre due mimetiche, uguali come due carte assorbenti, si guardavano attorno.
Tutti noi lo stesso pensiero: cazzo ci siamo.
Marziano, spazientito, disse deciso:
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I comaschi annuirono. I najoni cominciarono a scendere, uno dietro l’altro, senza fretta, rassegnati.
Fasevan i tuvaia
Cercavano, insomma, di passare inosservati tra la folla. Non erano, del resto, gli unici giovani.
Merda, procedevano troppo lentamente. Davano nell’occhio. Alcuni guardavano addirittura in alto. Si adesso iniziate anche a fischiettare.
Stronzi.
Tito ed io guardavamo dai finestrini.
I primi erano ormai a metà dell’androne. Speriamo, speriamo, forse, forse.
Cazzo, forse ce l’avrebbero fatta a sgusciar via.
Il primo era già oltre l’uomo in mimetica.
Osti! Udimmo una voce secca, tagliente. Una voce con un dannato accento toscano. Una voce che non ammetteva repliche.
Il Sergente Enzo Ceccarello, scoprimmo dopo nome e grado, il Sergente Enzo Ceccarello, fiorentino, era dotato di un intuito bestiale.
Non ne sbagliava uno. Dopo i primi richiami, non aveva nemmeno necessità di parlare, bastava alzasse un braccio indicando un povero Cristo ed era fatta.
Al massimo un maremma maiala
di rinforzo. Uno dopo l’altro, le spine si avviavano, rassegnate, verso l’uscita.
Rassegnate si, ma con la testa alta.
Osti.
Tito ed io scendemmo dall’altra parte. Non c’era nessuno e nessuno ci seguì. Vedemmo i Camion passare veloci.
Trascinammo le valige verso il centro. Ricominciò a piovere fitto, così c’infilammo in un bar.
Pochi avventori, dimessi, fronteggiavano un barista accigliato con barba lunga, sfatto.
Ordinammo due caffè.
Il barista ci guardò con sospetto.
Le nostre valige in effetti contenevano, oltre ai necessari indumenti, ben 4 stecche di sigarette, uscite di sfroso dalla Svizzera. Ma lui non poteva saperlo.
Tre di Marlboro per lo smercio o lo scambio ed una di Gitanes per noi.
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Fumavamo, allora, solo sigarette francesi: Gauloise, Parisienne, Celti-que, una decina al giorno.
Una stecca di Marlboro, bianca e rossa, era in bella vista.
Le altre, ben nascoste.
Non si poteva mai sapere.
Bevemmo i caffè, lunghi, senza zucchero.
Accendemmo due sigarette e ci guardammo.
Saremmo stati insieme per un anno e mezzo, giorno e notte. Chissà che casino!
Eravamo amici da quando avevamo messo i pantaloni lunghi, lui con la Vespa 125 azzurra ed io con la Lambretta LD, rubata a mio padre.
Noi si andava sempre a manetta. Tito era più spericolato.
Nessuno portava, allora, casco, occhiali o giacche a vento. Salivamo sullo scooter così, come si usciva di casa.
Solo d’inverno si mettevano, sotto il paltò, un paio di giornali per il freddo.
I tifosi di calcio si riconoscevano subito, dal paltò spuntavano le pagine rosa della Gazzetta.
Tito in Vespa, arrivò addirittura a St. Tropez. Si, lui e l’Enzino Pifferi.
In due a St. Tropez!
Che racconti al ritorno!
Eravamo sempre in guerra con tutti.
Certamente contro le Ducati, le Mondial, le MV, con le moto vere insomma, non c’era storia.
Erano ben più veloci. In città, però, davamo filo da torcere anche a loro.
Fuori invece, sulle strade strette del lago, si certamente lottavamo, ma delle moto vedevamo solo le targhe.
Ma i veri nemici, quelli contro i quali non si poteva assolutamente perdere, erano quei maledetti Motom.
Merda, se davanti, erano difficili da superare, se dietro, tossivano come segugi.
Segugi veloci e leggeri.
Li sentivi abbaiare con quel quattro tempi asmatico, sempre attaccati al culo.
Non si fermavano mai, nemmeno per fare benzina.
Vincere un dovere, farsi superare un onta. Non successe mai.
Anni dopo, iniziò la caccia. La caccia alle straniere al Lido di Villa Geno, a quello di Villa Olmo, a Cadenabbia, a Lugano;ma senza auto, solo 24
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con lo scooter era dura, durissima.
Si formarono, allora, gruppi e compagnie attorno all’amico, unico fortunato possessore di un auto e via, a perlustrare dancing, sale da ballo, bar e balere. Avevo forse 17 anni.
Noi avevamo il Paolino. Nella sua Lancia Ardea furgoncino entravamo in dieci, qualche volta anche in dodici.
Il ballare non ci era del tutto sconosciuto, ma avevamo più esperienza nella caccia.
Una notte, a Cernobbio, al ritorno da Cadenabbia, ci fermò la Stradale.
Avevano il Millequattro Cabriolet verde.
Il Vetta di mio Padre segnava le due.
Il Maresciallo che domandò patente e libretto lo conoscevo. Abitava non lontano da casa mia.
Prendevamo la stessa filovia: l’82.
Era alto, serio, con baffi folti, neri.
Un meridionale.
In divisa con gli stivali e la pistola, faceva impressione.
Ci guarda.
Cazzo, ! Sull’unico sedile siamo in quattro, due di troppo e tutti con le sigarette accese.
Il Maresciallo vede il fumo, scuote il capo e domanda:
Cazzo mi pareva! Il sangue in acqua.
Il Paolino scende. Rassegnato si aggiusta gli occhiali, apre e mormora con un filo di voce.
I battenti si spalancano.
Uno alla volta, scendono dieci baldi giovani.
Mani in tasca, occhi lontani, persi sui mattoni rossi della Gelateria di fronte.
Insegna spenta. Solo lampioni e silenzio.
Capitanio, il rosso, guarda addirittura indietro, verso il semaforo giallo, intermittente, non vuole vedere il massacro.
Cazzo, in quattordici, siamo in quattordici, quattordici in un Ardea. Si però era blù.
Il Maresciallo, silenzioso, ci conta mentalmente, puntandoci un dito addosso. Scuote la testa.
Cazzo mi pizzica la nuca. Si, sempre meglio che pisciarsi addosso.
E mò?
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Tutti e quattordici sulla piazza di Cernobbio, subito dopo la strettoia, allineati di fronte alla Legge.
Attorno, nessuno.
Il Maresciallo, serissimo, guarda fisso negli occhi ognuno di noi.
Avanti ed indietro, due volte.
Scuote il capo ancora una volta, scuote anche patente e libretto, li batte con enfasi due volte sul palmo della mano, sospira, consegna il tutto a Paolino e con voce ferma, dura, pronuncia la sentenza.
Tutti dentro di nuovo e via, via.
Tutte le volte che, in seguito, incontrai il Maresciallo sulla filovia da Cantù, lui mi guardò sempre fisso negli occhi, ricordava sicuramente. Non seppe mai che salivo la fermata precedente, si solo una fermata prima.
Non lo seppe mai. Fortunatamente.
Ma quella sera, con il furgoncino Lancia blù e con Paolino non era ancora finita.
Ci lanciammo giù a tutta manetta, lungo il rettilineo per Tavernola.
Dentro la prima, la seconda, la terza, la quarta, via, via, lasciandoci dietro la strizza, la Pula e il fumo azzurro dello scappamento.
Il motore dell’Ardea rombava al massimo dei giri. Cazzo, quasi settanta.
Fu in quel momento che domandai al Paolino:
Osti!>
Una voce disse
Tutti a ridere.
Altre risate.
Ma fu così che, da quella sera, il Paolino divenne per tutti Paolìn furgùn
.
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Per tre anni il Paolino aveva usato l’Ardea, inserendo al massimo la quarta. Il pommello consunto non permetteva di vedere la grafica delle marce. Lui e l’Ardea risorsero a nuova vita.
Risi al ricordo.
Tito mi guardò, non capiva.
Ore più tardi, dopo aver pranzato da Silvio
ed aver bevuto l’ ultimo bicchiere, cercammo la Caserma.
Pioveva sempre e avevamo le palle piene d’esser bagnati e di trascinarci la valigia.
Alcuni passanti, ai quali domandammo dove fosse la Caserma Gamerra, nemmeno risposero, altri tirarono diritto scuotendo la testa.
Alla fine, un anima pia ci indicò la strada.
Arrivammo finalmente! L’ingresso era scarno, dimesso, anonimo. Un cancello aperto, una tettoia, un tavolone e due Paracadutisti in mimetica.
Sostammo incerti.
Uno dei due fece un cenno:
Mostrammo le cartoline e il foglio bianco.
La stecca di Marlboro, bianca e rossa, era in bella vista.
I Paracadutisti non andarono oltre, richiusero le valige, indicarono il cancello con un braccio e abbaiarono.
Via!>
Porca puttana, una stecca intera e per niente. Che accattoni! E questa sarebbe la Folgore
?
Sarebbe stato meglio, allora, salire sul camion del Sergente rompicoglioni.
Non sempre la s’indovinava imboscandosi.
Caserma Gamerra. Pisa.
Sentinelle. Picchetto. Musichiere. Controllo documenti.
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Aveva smesso di piovere, tutto era grigio, triste.
Attoniti guardavamo una piazza grandissima, circondata da edifici bianchi e da righe nude di pioppi grondanti di pioggia.
Uomini in divisa correvano inquadrati. Gruppi di civili fermi, spaesati, puzzolenti di malinconia.
Merda, mancava piovessero peli del culo e avremmo fatto trentuno.
Il musichiere, un Tenente sorridente, disse con semplicità.
Il Caporale, rigido sull’ attenti, gridò.
Il Caporale nemmeno ci guardò, disse solo bruscamente.
Ecco là! Seconda Compagnia. Capitano Tufano. Via di corsa!> Corremmo per una decina di metri, poi visto che si era soli, avanzammo lentamente guardandoci intorno.
Ci fermammo al passaggio di una trentina d’uomini, in tuta blu.
Correvano. Ai fianchi degli ossessi li incitavano
< Cazzo> disse Tito all’improvviso
Tito m’indicò un uomo in divisa, tutto in tiro, impettito.
Guardai. Oh! Cazzo, quello era proprio il Carlino!
Il Carlino della compagnia dei Pusceddu, sardi e biondi, dei fratelli Dell’Oca, del Di Nunno, dei fratelli Principe con i loro Dobermann, della Ebe, insomma quelli di Via Italia Libera.
Cazzo, eravamo a posto. Meno male, il Carlino, il Tarzan del Lucernetta.
Ci venne da ridere.
Meno male, meno male. Il Carlino. Bene.
Da studenti, ogni anno, si organizzava, per Carnevale, uno spettacolo al teatro Lucernetta.
Un anno, il solito casino. Tutti in maschera, canti, recite, barzellette, palpeggiamenti, urla.
La jungla sul palco era ben dipinta. Sembrava vera. Risate.
Improvvisamente, sulla scena un gorilla ed una ragazza bionda.
Uno studente, travestito da gorilla, cercava di malmenare una Jane che correva attorno starnazzando.
Le luci si spensero. Buio pesto, solo il cerchio giallo di un riflettore.
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Silenzio.
Si, così balbettò l’altoparlante.
Tutti risero. Di nuovo silenzio.
Attesa.
Jane squittiva, il gorilla agitava le braccia pelose.
Il riflettore si spostò sul lato sinistro del palco. Tutti guardavano in silenzio.
Di nuovo l’altoparlante, questa volta gioioso.
La musica aumentò.
Tamburi.
Ed ecco, in piena luce Tarzan, con addosso solo la pelle di leopardo, attaccato ad una fune, eccolo che attraversa tutta la scena urlando.
Osti, Tarzan era il Carlino.
Andò avanti ed indietro, volando ed urlando a mezz’aria, un paio di volte.
Cazzo, l’urlo di Tarzan, ma come gli veniva bene!
Il Carlino atterrò al centro del palcoscenico, sotto gli si vedevano le mutande.
Cacciò il gorilla a pedate. Urla e fischi.
Jane lo abbracciò vogliosa.
Un centinaio di studenti iniziò a scandire il suo nome.
Ovazioni.
Un trionfo!
Ed eccolo lì, il Carlino, in divisa.
Lo chiamai:
L’uomo in divisa della Folgore
si fermò, si girò e ci guardò senza interesse.
Cazzo, una stella. Tarzan era SottoTenente:
Silenzio.
Ci fermammo perplessi.
Il Carlino, perché era proprio lui, si avvicinò, ci guardò meglio ed iniziò alterato:
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Cristo, non era possibile. Il Carlino voleva ripagarci di tutti i casini.
Osti come doveva godere, maledetto Tarzan.
Tarzan ci guardava con due occhi spiritati. Cazzo, non è cambiato, sempre gli stessi occhi da matto.
attenti, gridò:
Oh, cazzo siamo messi male.
Il Caporale aveva un brevetto da Paracadutista sulla giubba. No, non uno, ma due, due brevetti aveva. In testa un basco verde con il fregio della Folgore ed un cordoncino rosso sulla spalla.
Gli stivaletti erano uno specchio. Ahi, male, molto male.
Li guardai meglio, marroni erano marroni, ma stranamente avevano come un velo nero. Il Caporale avrà finito quello marrone. Pensai. Ma che cazzo me ne frega
Mah!
Tarzan accigliato, ordinò:
Come? Nella Folgore
?
Ma cazzo!
Aprii bocca.
Tarzan, maledettissimo Tarzan. Cazzo chissà come starà godendo. Pioveva di nuovo.
Dietro il Caporale, di corsa, con le valige. Quello stronzo, ogni tanto si girava e faceva hop ... hop, hop.
Attraversammo tutta la piazza d’armi.
Oddio, ma quello é il Sergente della Stazione!
Si certo, era proprio lui. Dirigeva l’orchestra dei civili ai piedi di una 30
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scalinata.
Il Caporale ci depositò proprio di fronte a lui.
Il Sergente ci guardò sorridendo
La nuca iniziò a pizzicarmi. Brutto segno.
Eravamo arrivati: Allievi Paracadutisti, praticamente nessuno, ma proprio nessuno.
Non ci fu più un attimo di sosta. Per mesi.
Ore 05.45. Tromba. Sveglia. Luci.
Con un salto, giù dalla branda.
Il Caporale, nella sua brandina, apriva gli occhi infastidito e puniva gli ultimi che toccavano il pavimento, questione di secondi. Qualche volta puniva a caso.
I puniti passavano le serate a pulire cessi, piatti e camerate.
Qualcuno passò settimane in punizione. Tutti a lavarsi. Acqua gelata.
Denti. Barba. Tuta ginnica blu. Fila. Colazione. Cazzo, quanta roba. Adunata. Alzabandiera... Folgore
e …. via di corsa.
Uno dietro l’altro correvano, inseguendosi, i Plotoni della 1a e della 2a Compagnia, dietro gli Alpinile galline
.
Tutti allievi, tutti imbranati, tutti mezzeseghe, tutti nessuno.
Sempre di corsa, tutte le mattine, un giro dopo l’altro.
I Caporali, questi figli di buona donna, ben allenati, ci abbaiavano dietro, correndo con noi.
Tutti pensavano già la stessa cosa. Ma chi cazzo ce l’ha fatto fare? Volontari, ma si poteva essere più deficienti?
Ed eravamo appena all’inizio.
Sotto. Sotto. In fila per sei, ho detto sei. Tu, sai contare? Per sei, per sei. Su, ancora quattro giri>
Come ancora quattro giri? Era un ora che si correva. All’inizio lentamente, poi più veloci.
Facevamo il giro completo della piazza d’armi.
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Via dietro il ripiegamento, a destra dello Sherman, davanti allo spaccio, al refettorio e di nuovo in Piazza d’armi.
Via davanti alla palestra, dietro il monumento. Ecco a destra la palazzina dei Folgorini, la mensa Ufficiali, il Comando, la Porta Principale. Ancora alla nostra destra l’edificio della1° Compagnia e finalmente ecco la nostra tana, la 2° Compagnia. Finalmente. Arrivati.
Via altro giro. Giri su giri. Qualcuno si fermò stremato.
I Caporali continuavano ad abbaiare:
Bene, tutti puniti, via un altro giro.>
Erano Km che si correva, avevo il fiatone ed i polpacci cominciavano a farmi male.
Ma quanti giri avevamo fatto? Tito era stravolto.
Cazzo, finalmente.
Gli Alpini stavano facendo un altro giro.
Tutti si mossero. Di bene in meglio: frocetti.
inspirate... solo con il naso. Cazzo, solo con il naso... riempite la pancia, il petto, su le spalle, su. Inspirate, alzate le braccia, trattenete il respiro, adesso fuori, sempre con il naso. Cazzo, con il naso. Lentamente, lentamente, ecco... così, forza frocetti. Giù, giù, piegatevi.
Ah! vi riesce bene eh, frocetti, più giù. Va bene. Di nuovo frocetti, di nuovo, su, su... ...>
Andammo avanti per un bel po’, fino all’arrivo di un altro mentecatto.
Un