Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Supercarcere Asinara: Viaggio nell'isola dei dimenticati
Supercarcere Asinara: Viaggio nell'isola dei dimenticati
Supercarcere Asinara: Viaggio nell'isola dei dimenticati
E-book264 pagine3 ore

Supercarcere Asinara: Viaggio nell'isola dei dimenticati

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un gioco della memoria, attraverso gli occhi di un ispettore di polizia penitenziaria che ha vissuto 35 anni sull’isola che è stata, per un luogo periodo, la Cajenna italiana. I suoi ricordi si intrecciano con colori diversi ma netti: l’azzurro del mare, il giallo dell’estate isolana, il rosso del sangue.
Le storie, alcune magiche, altre poetiche, altre dure, durissime, descrivono la storia dell’isola dal 1965 al 1998, anno della definitiva chiusura del carcere. Questo libro è uno strano amalgama; può sembrare, all’apparenza, una carrellata di racconti ambientati in un’isola che è stata per molti anni al centro dell’attenzione, ma non è solo questo. Per la prima volta l’Asinara è raccontata attraverso gli occhi di chi vi ha veramente vissuto e vi ha sorriso, vi ha pianto, vi ha urlato. Un libro di piccole storie, anche minime, che nessuno aveva voglia di raccontare e che, attraverso i ricordi di un testimone, l’ispettore di polizia penitenziaria Lorenzo Spanu, prendono corpo e rimangono immagini indelebili nella memoria dell’isola.
LinguaItaliano
Data di uscita10 gen 2014
ISBN9788875639563
Supercarcere Asinara: Viaggio nell'isola dei dimenticati

Correlato a Supercarcere Asinara

Ebook correlati

Arti dello spettacolo per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Supercarcere Asinara

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Supercarcere Asinara - G. Cassitta e L. Spanu

    Premessa

    Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia.

    Scritta ritrovata nel campo di concentramento di Bergen Belsen e citata da Luis Sepúlveda in

    Le rose di Atacama

    Quando, nel febbraio del 1985, sbarcai per la prima volta sull’isola ero abbastanza intimorito e frastornato. Arrivai al bar, allora meta obbligata per tutti quelli che sbarcavano all’Asinara e, dentro il bar, che mi ricordava quei locali di paese, – con il frastuono delle voci e l’odore acre del fumo, con molte cicche abbandonate sul pavimento – dentro il bar c’era un rumore più forte di tutti, che sovrastava gli altri. Quel rumore era il Brigadiere Lorenzo Spanu.

    Un uomo d’altri tempi che ho imparato a conoscere nel corso degli anni. Un ottimista, uno che riesce in ogni modo a sorridere anche nelle situazioni più difficili, che urla ma che sa urlare e sa, tutto sommato, di essere un falso cattivo e ormai questo lo hanno capito tutti.

    Il Brigadiere, oggi Ispettore Spanu, ha sempre avuto un contatto diretto, schietto con tutti i detenuti, un modo di rapportarsi leale che ho sempre apprezzato e che continuo ad apprezzare.

    Di molti detenuti ricorda i nomi, dove lavoravano, cosa facevano, chi erano i parenti, quanti colloqui effettuavano.

    Sentirlo raccontare dell’Asinara è un piacere, perché lui l’Asinara la vive ancora oggi e la vive dentro. Penso sia stato un segno del destino per lui finire sull’isola e, forse, dentro questo destino ci sono finito anch’io.

    L’ispettore Spanu è un grande chiacchierone. Lo è stato soprattutto all’Asinara, nei giorni di levante e di maestrale, quando si era costretti ad inventare un modo per passare il tempo e si trascorrevano le ore davanti al caminetto ascoltando, con dolce divertimento, i suoi racconti; un po’ come da bambino amavo ascoltare mia nonna e i suoi contos de foghile.

    Da queste chiacchierate e da alcuni suoi appunti è nato questo libro che è un po’ un gioco di memoria.

    Le storie raccontate dall’ispettore Spanu sono marginali e probabilmente non interessano alla Storia – quella con la S maiuscola, per intenderci – eppure sono pillole di esistenza e ascoltandole ho capito che mi trovavo davanti a qualcosa di indefinito e di indefinibile e solo allora mi sono ricordato della visita al campo di concentramento di Bergen Belsen che Luis Sepúlveda racconta nel suo libro Le rose di Atacama. Solo allora mi sono ricordato che Sepúlveda partì da una frase, una frase incisa in un angolo di quel campo di concentramento. Quella frase era, secondo lo scrittore, la più drammatica delle proteste: Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia. Da quella frase, Sepúlveda decise di scrivere storie, piccole storie recuperate dall’oblio.

    Da quella frase che oltre ad una drammatica protesta è anche un invito, una sfida a raccontare storie minime, storie di gente dimenticata e da dimenticare, da quella frase è nata l’esigenza di raccontare queste storie nate dentro un’isola speciale come l’Asinara.

    Ho scritto le storie sforzandomi di viverle, con gli stessi colori e gli stessi umori con cui Lorenzo Spanu me le ha raccontate.

    Alcune sono storie allegre, uniche. Probabilmente impossibili in qualsiasi altro carcere d’Italia. Altre sono storie tristi, molto tristi legate a periodi particolari che l’isola ha vissuto, l’avvento delle Brigate Rosse soprattutto.

    In tutte le storie vi sono sempre dei protagonisti, che non sono semplici comparse, ma vivono in simbiosi con il loro ruolo e la loro isola. I racconti sono infine accompagnati da una voce, una sorta di io narrante che impersona, appunto, l’Ispettore Spanu.

    Mi sono concesso una sola licenza, legata alla storia di Salenti e contenuta nel mio libro Asinara, il rumore del silenzio. Era piaciuta un po’ a tutti la favola del detenuto e dell’asinello Bobò. Questa volta la storia è raccontata per intero, sin dalle sue origini, ma ritengo, nonostante sia la storia più citata nelle recensioni e considerata una favola moderna, che questa non è una bella storia, semmai la cronaca di una sconfitta per chi crede in questo mestiere.

    Un’altra piccola licenza è legata alla partita di calcio dei detenuti con la rappresentativa della Torres nel 1986. Quella partita l’ho vissuta intensamente anch’io come selezionatore della squadra dei detenuti e il gol, l’unico gol segnato dal detenuto, è stato veramente un attimo, ma anche per la mia anima.

    Ho scritto le storie con un grande impegno: raccontare piccole cose di uomini forse dimenticati, derisi, inascoltati che non hanno le stigmate di eroi. Di uomini soli, dannatamente soli ma che, come tutti gli uomini, avevano qualcosa dentro di indelebile che valeva la pena di raccontare e ricordare.

    Spero di esserci riuscito.

    Giampaolo Cassitta

    Volevo ringraziare un amico che ha creduto nel mio primo libro e che ha contribuito non poco a costringermi a continuare a scrivere. Si tratta di Vittorio Nonis, libraio d’altri tempi che non vende libri, ma dolci sensazioni di cui quasi sempre si innamora. Come nel mio caso.

    I miei trentatré anni vissuti intensamente all’Asinara potranno sembrare tanti o troppi. Hanno avuto comunque un peso specifico indelebile per la mia esistenza.

    Avevo appena vent’anni quando arrivai spaesato dentro un mondo che ritenevo non potesse neppure esistere. Ci arrivai con la determinazione di fuggire, di andar via da un luogo così vasto, così solitario, così gonfio di silenzio.

    Ci rimasi invece tanti anni e me li porto tutti dentro perché sono stati anni intensi, difficili, duri ma sono anche stati anni gonfi di amicizie, di risate, di emozioni e di dolcezza.

    Dentro l’isola ho trascorso gran parte della mia vita e ho conosciuto tantissimi direttori, agenti, agronomi, educatori, detenuti, Autorità che venivano soprattutto d’estate a trascorrere le vacanze e per tutti avrei un ricordo nella mia memoria.

    Questo lavoro dunque è solo una piccola parte di vicende che sono realmente accadute all’Asinara. Qualcuna l’ho vissuta da protagonista, qualcun’altra da spettatore ma fanno parte di un pezzo di storia che, forse, andava raccontata.

    Ho trovato un compagno d’avventura che ha saputo raccogliere dentro i cassetti dei miei ricordi e ha provato a descriverli e, devo ammettere che il lavoro rispecchia il mio stato d’animo, probabilmente perché Giampaolo Cassitta, oltre a saper usare le parole e i colori che le parole hanno, ha vissuto come me un pezzo di Asinara. In un ruolo diverso ma credo ugualmente intenso.

    Ci siamo conosciuti nel 1985 e ancora oggi lavoriamo insieme. Sono convinto che quando parliamo dell’Asinara oltre a ritornare sull’isola con i ricordi riusciamo ancora a vederla, a fotografarla, a sentire i suoi odori, un po’ come i racconti di questo libro.

    Volevo inoltre ricordare alcuni compagni di avventura. Molti di essi ci hanno lasciato, altri sono in pensione o continuano il loro lavoro nei penitenziari italiani, con ruoli diversi. Sicuramente il Maresciallo Murru, il primo Maresciallo che conobbi quando arrivai sull’isola; il Maresciallo Vitalone e il Maresciallo D’Ascenzo, che sono stati i miei maestri e mi hanno insegnato a sopportare le difficoltà dell’isola. Vorrei ricordare il Dott. Vindice Silvetti, medico per tantissimi anni e punto di riferimento utilissimo per noi e per i detenuti, i cappellani Don Pistuddi e Don Giorgio Curreli; il Dott. Napodano e il Dott. Caccamo, che sono stati i miei primi direttori. Il Dott. Francesco Massidda, profondo conoscitore dell’isola, Direttore negli anni ‘80, che mi ha insegnato ad amare il silenzio di questa terra. Il Dott. Francesco Gigante e il Dott. Gianfranco Pala, ultimi direttori prima della chiusura definitiva dell’Asinara. Un ultimo saluto alla famiglia del Maresciallo Peppino Campus che mi ha accolto nei primi momenti in cui sbarcavo sull’isola e non riuscivo a capire ancora dove fossi arrivato.

    Lorenzo Spanu

    UNO

    4.jpg

    Cala d’Oliva. Panorama senza campanile, 1968.

    Sono arrivato sull’isola nel 1965, in un giorno di maggio. Avevo 23 anni e un piccolo cassetto di ricordi legato, soprattutto, alla mia infanzia e alla mia precoce adolescenza. Sono un prodotto del dopoguerra e in quei tempi, dentro la nostra Sardegna c’erano poche scelte: restare a raccogliere speranze o tentare di andare via: una partenza che non doveva però essere un tradimento, una partenza che doveva ricondurci dentro questa terra. Io da piccolo vedevo molte persone con grandi valigie di cartone che, dopo tumultuosi saluti, forti abbracci, con sorrisi acerbi e di circostanza, attendevano un autobus dipinto allora d’un celeste terso e polveroso, che avrebbe ingoiato quei visi duri, macinati dal sole, con pochi sospiri e li avrebbe vomitati nel continente; ma io, come tanti altri, come tutti forse, accovacciato sul muretto della chiesa credevo, pensavo, e forse ne ero terribilmente sicuro, che tutti sarebbero rientrati dopo qualche tempo, con una bellissima moto Guzzi o Gilera, a scardinare dentro le curve del nostro paese con le marmitte sfavillanti e magari, dal continente, si sarebbero portati una bionda da maritare, da mostrare agli altri ragazzi e soprattutto alle nostre sottili donne, piccole e scure.

    Io, con piccoli sguardi contemplativi ascoltavo i colorati racconti di chi per Pasqua o Natale faceva rientro al Paese e incontrava i ragazzetti dentro il bar di tiu Zizi.

    Nei loro sorrisi si materializzavano città enormi, gonfie di vetrine, di ragazze con i capelli cotonati, altissimi, come le dive di Bolero o come quelle che apparivano nella televisione che noi, a casa nostra, non avevamo ancora e si passavano le serate al bar per vedere le partite e i telequiz. Loro, i nuovi continentali raccontavano di cose viste veramente, toccate con mano e si tornava a casa con le mani in saccoccia e con la certezza di abbandonare questo paese che non aveva voglia di crescere e di sognare.

    Presentai la prima domanda come poliziotto, o meglio, ci pensò Antoniccu, che si trovava ormai da due anni in servizio ad Aosta, piccola città gonfia di neve, ma d’estate non si stava così male. Almeno così diceva e, dopo aver presentato la domanda al comando provinciale di Sassari, ogni giorno si materializzava Aosta dentro i miei occhi come Antoniccu me l’aveva dipinta.

    Dopo le visite mi scartarono. Non ho mai capito perché. Forse perché non conoscevo nessuno. Aosta si sciolse dentro la sua neve e trascorsi l’estate con mio padre in campagna, dentro i colori torridi della mia terra.

    Per Natale rientrò Francesco.

    Da Volterra. Una bella città in Toscana. Si era addirittura fi­dan­zato con una ragazza bionda di quelle parti. Ci portò solo alcune fotografie ma ci bastarono per convincerci.

    Agente di custodia.

    In carcere.

    Questa volta dopo le visite fui arruolato e spedito a Cairo Montenotte per frequentare il corso: il 14°, dentro un paese comunque piccolo, con molto verde intorno e troppe ripide montagne per i miei occhi da collina. Dopo tre mesi seppi la mia destinazione: Trento, lontano da qualsiasi posto, lontano da qualsiasi orizzonte.

    Stetti tre mesi. Dentro la città, con le vetrine, le ragazze bionde e cotonate, il cinema e lo stadio, ma tutto era così attutito che rasentava la disperazione.

    Vivere dentro la Sardegna significa essere all’interno di qualcosa di inverosimile e inimitabile: un segno indelebile sono i nostri colori, le nostre pianure, i nostri silenzi. Tutto questo a Trento non c’era e, nonostante i compagni – molti dei quali sardi – tentassero in qualche modo di sopravvivere, io non ci riuscivo. Dopo alcuni mesi una grande opportunità: potevo rientrare sulla mia isola e prestare servizio all’Asinara.

    6.jpg

    La chiesetta di Cala d’Oliva con il campanile, 1972.

    Io non sapevo neppure che esistesse un’isoletta davanti a Porto Torres e neppure immaginavo che avessero potuto costruirci un carcere, non avevo neppure considerato che quell’isola sarebbe divenuta la mia isola, la mia vita e, senza pensare ai tanti colori stantii che Trento mi regalava, presentai di buon mattino la mia richiesta di trasferimento al Maresciallo. Dopo qualche mese fu accettata.

    Lasciai con una sottile allegria l’Italia, senza troppi rancori. D’altronde le ragazze bionde e cotonate, dalle gonne sopra il ginocchio, avevano occhi spenti e senza alcun sorriso.

    Le strane cugine

    Inutilmente stendo le braccia verso di lei, quando il mattino mi sveglio da sogni grevi, inutilmente la cerco di notte nel mio letto, quando un innocente sogno felice mi ha dato l’illusione di esserle accanto su un prato, di tenerle una mano e coprirla di mille baci. Ah, quando allora, immerso ancora a metà nelle nebbie del sonno, la cerco con la mano e nel gesto mi sveglio...

    J. Wolfgang Goethe, I dolori del giovane Werther

    Avere dentro il fuoco, quello che si vive a venticinque anni, che si raccoglie negli sguardi e nei profumi, che si mischia nei pensieri, che si contorce nella branda di una caserma angusta, dimenticata e da dimenticare, dentro un’isola che è una prigione e dalla quale, nel 1965 si poteva ottenere una licenza ogni tre mesi, era una condanna non contemplata. Per tre mesi assaporavi questo mare, questo vento, questo sole, quest’azzurro che diventava quasi l’unico colore: era però come vivere in una storia in bianco e nero, perché non c’era nessuno sguardo, nessun profumo, nessun sorriso di una ragazza, qualcosa insomma con cui fantasticare.

    Come i detenuti. Peggio dei detenuti le nostre giornate erano fotocopie acerbe, legate ai turni di servizio che non finivano, perché in quest’isola si era sempre a disposizione. Peggio dei detenuti. Non c’era luce elettrica, non c’era televisione, non vi erano programmi, telequiz, sceneggiati che erano l’essenza ludica di quegli anni. Peggio dei detenuti, con al massimo un vecchio biliardo su cui fare girare vorticosamente quelle biglie colorate, o giocare qualche partita con un pallone di finto cuoio, perché il ragioniere doveva risparmiare, o stare anche per ore dentro il bar a snervarsi su mariglie inverosimili e noiose, buone per i maritati, quelli che vivevano con la famiglia nel paesello.

    Peggio dei detenuti, avevamo anche noi la nostra piccola grande censura: le ragazze.

    Nessuno poteva invitare delle amiche sull’isola, erano permesse le visite dei parenti ma solo se possedevi l’alloggio e, possedere l’alloggio, significava essere sposati. Un paradosso kafkiano.

    Questa la nostra vita intorno ai venticinque anni, con l’ansiosa smania di una ragazza da baciare.

    Pertisi e Miccoli arrivavano da Alessandria con nessuna richiesta per l’Asinara ma con un rapporto disciplinare. I due agenti erano stati trasferiti per punizione.

    Il Maresciallo decise per entrambi un’ulteriore sanzione: servizio in postazione.

    La postazione si trovava allora, sulla punta estrema di Fornelli: era una piccola caserma con quattro posti letto e il servizio consisteva nell’osservare i movimenti delle barche che potevano avvicinarsi all’Asinara; nessuno, infatti, poteva navigare nel piccolo tratto di mare che divideva l’isola Piana dall’Asinara. Gli agenti, oltre a questa consegna, dovevano scrutare il lembo di costa che da Fornelli arriva quasi sino a Stretti; ogni giorno a piedi, stando attenti a tutti i possibili puntini colorati che nell’azzurro si potevano notare e, soprattutto, verificare che negli anfratti vicino al mare non si nascondessero piccole imbarcazioni, funi, galleggianti, qualcosa insomma che potesse essere utile ai detenuti per evadere.

    Il servizio in postazione durava un mese. Turni di dodici ore e riposo successivo. Licenza dopo tre mesi.

    Per Pertisi e Miccoli il Maresciallo decise il turno per sei mesi e licenza dopo otto mesi.

    Più che agenti divennero fantasmi. Quotidianamente, chi tra i due era di turno, doveva annotare eventuali osservazioni in un brogliaccio, da consegnare al capodiramazione di Fornelli per poi rientrare subito in postazione.

    Qualche agente li scorgeva in lontananza, quando si aggrappavano a qualche roccia, durante il tragitto da Fornelli a Punta Scorno.

    Io li avevo conosciuti solo quando mi ero avvicinato alla loro postazione per risolvere un problema idrico: vi era, infatti, un tubo rotto che perdeva acqua e con il detenuto stagnaro lo aggiustammo quasi subito. Poche e scarne parole. Erano giovani, molto giovani, la mia stessa età. Nessuno di loro mi parlò della punizione, nessuno mi chiese ulteriori notizie.

    Pertisi e Miccoli erano per tutti agenti dimenticati.

    Anche per il Maresciallo. Passava in postazione una volta al mese, regalava qualche ordine e non aggiungeva altro, poi scompariva dentro la polvere che lasciava il suo cavallo.

    Pertisi e Miccoli, piccoli puntini di uomini che non avevano faccia, non avevano odori, non avevano colori.

    Vivevano in postazione da soli, con dentro il vento come unico compagno: senza luce, senza televisione e, come tutti, senza donne.

    Pertisi e Miccoli, piccoli puntini di uomini dimenticati, trovarono la tavolozza giusta per colorare le proprie giornate proprio dentro quella caserma, quell’avamposto inutile e lontano, dove occorreva contemplare giornalmente il nulla.

    Il nulla che appariva enorme e

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1