Damian (Riverside Spin-Off)
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Anteprima del libro
Damian (Riverside Spin-Off) - Bianca Rita Cataldi
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Prologo
Sono nato a Riverside nei primi giorni di un autunno pieno di vento. Di quel giorno custodisco ricordi che non sono i miei e che ho ricostruito, negli anni, scartabellando tra le foto e le carte e i filmini in vhs con la pellicola che sfrigola come un uovo in padella.
Mia madre aveva il viso stravolto ma felice, gli occhi infossati in un paio di occhiaie da film dell’orrore, e questo lo so per via di quella polaroid piena della luce fredda d’ospedale che lei stessa ha attaccato con una punes alla bacheca di sughero che è in camera mia.
La mia fissazione per la bacheca affonda le sue radici negli anni della scuola elementare, quando ancora amavo leggere – e dire che avevo appena imparato a farlo e ancora balbettavo quando la maestra mi chiedeva di farlo ad alta voce in classe. C’era un libro che amavo particolarmente e che si intitolava Il campanile dell’ora perduta. Mi ero riconosciuto da subito nel protagonista della storia, un ragazzino senza famiglia che collezionava figurine, immagini, stralci di articoli di giornale e li affiggeva alla bacheca di sughero che gli aveva regalato suo nonno per tener traccia dei giorni che passavano.
Anch’io mi sentivo un po’ senza famiglia, quand’ero bambino, e anch’io avevo chiesto una bacheca di sughero che mi ha poi seguito negli anni anche quando abbiamo cambiato casa.
Non abbiamo sempre vissuto al numero 44 di Pembroke Street. Un tempo abitavamo al limitare del bosco, io, mamma, papà e la nonna. Era una casa piccola e graziosa, dai vecchi mobili di legno massiccio che sembravano assorbire gli odori della vita quotidiana, della cucina, dell’acqua alle rose con la quale la nonna si bagnava il viso, al mattino. La mia stanza era il mio regno: un letto, una scatola di giocattoli, la piccola scrivania sulla quale facevo i miei compiti di scuola, la bacheca. C’era anche un televisore, molto piccolo, che avevamo vinto a un concorso a premi del supermercato e che aveva un’antenna più alta di me da spostare di continuo per ogni fruscio, per ogni riga in bianco e nero che interrompeva la trasmissione.
Mi piaceva guardare i cartoni del pomeriggio, seduto sul letto con una coperta sulle gambe, anche se questo significava dovermi alzare ogni due secondi a raddrizzare l’antenna del televisore. Poi entrava in camera la nonna, con la cioccolata calda e un bastoncino di cannella infilato di sguincio nella tazza.
E c’erano le lunghe serate solitarie, quando eravamo solo io e lei a raccontarci favole sul divano