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La torcia
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E-book807 pagine17 ore

La torcia

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Info su questo ebook

Tutti conosciamo la storia della guerra di Troia. I protagonisti sono Achille, Ettore, Paride, Priamo, Aiace, Odisseo: uomini che danno grandi prove di coraggio, che combattono per l’onore di uno di loro, per il potere, per difendere la propria città o per la rabbia di una perdita che lascia un vuoto incolmabile. Uomini che uccidono, rapiscono, imbrogliano, stuprano... Ma forse la storia vera non è proprio come ce l’hanno raccontata. Molte donne l’hanno abitata e non erano solo prede da riscattare, ma regine, guerriere, sacerdotesse. Potenti, e sagge. La loro voce si è indebolita nei secoli, soffocata dal clangore delle armi e dai gridi di guerra maschili.

Eppure c’è una voce che deve essere ancora ascoltata, una voce che da sempre è stata condannata a non essere creduta. È quella di Cassandra.

Nata da Ecuba e Priamo, fin dalla nascita è destinata a essere molto più di una principessa. Prima ancora che sua madre la mandasse a vivere tra le Amazzoni, viene scelta dal dio del Sole, Apollo, come sua sacerdotessa e da lui riceve il dono della Vista. Ma quando profetizza la sanguinosa guerra tra Achei e Troiani che porterà alla distruzione della sua città, quando annuncia che la collera degli dei sta per abbattersi su tutti loro, nessuno l’ascolta, nessuno prende sul serio i suoi avvertimenti su una donna bellissima che porterà con sé indicibili sciagure.

Mescolando verità storica e leggenda, Marion Zimmer Bradley reinterpreta la guerra di Troia, dà voce agli esseri umani coinvolti in una lotta disperata che condanna in egual misura vinti e vincitori, racconta il loro destino attraverso la voce di Cassandra, principessa, sacerdotessa, guerriera, ma prima di tutto donna.

C’è qualcosa che accomuna chi ha letto i libri di Marion Zimmer Bradley, qualcosa di molto simile al senso di intimità di chi ha compiuto insieme un lungo viaggio: la consapevolezza di aver condiviso qualcosa di profondo e il fatto che chi non c’era non riuscirà mai a coglierne il segreto. Dalla prefazione di Maura Gancitano
LinguaItaliano
Data di uscita4 nov 2021
ISBN9788830533097
La torcia
Autore

Marion Zimmer Bradley

Nata nel 1930 ad Albany, New Jersey, si è laureata in Letteratura nel 1964 alla Hardin Simmons University ed è stata per lungo tempo ricercatrice alla University of California di Berkeley.Ha esordito come scrittrice nel 1961 con il romanzo, The Door Through Space, e l'anno seguente il primo titolo del fortunato Ciclo di Darkover, La spada di Aldones, l'ha consacrata tra le più famose autrici di narrativa fantastica a livello mondiale. Pubblicato nel 1982 e considerato il suo capolavoro, Le nebbie di Avalon ha raggiunto in tutto il mondo i vertici delle classifiche, compresa quella del New York Times, e nel 1984 ha vinto il Locus Award come miglior romanzo fantasy. Autrice di oltre sessanta romanzi e numerose raccolte di racconti tradotti in venti lingue, Marion Zimmer Bradley si è spenta a Berkeley nel 1999, a soli sessantanove anni.

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    Anteprima del libro

    La torcia - Marion Zimmer Bradley

    Copertina: Marion Zimmer Bradley - La torcia - Dall'autrice del ciclo di Avalon - HarperCollins Italia

    MARION

    ZIMMER BRADLEY

    LA

    TORCIA

    Prefazione di Maura Gancitano

    Traduzione di Alba Bariffi

    HarperCollins

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    The Firebrand

    © 1987 Marion Zimmer Bradley

    Traduzione di Alba Bariffi

    Pubblicato in accordo con l’autore,

    c/o BAROR INTERNATIONAL INC,

    Armonk, New York, U.S.A.

    Per la prefazione: © 2021 Maura Gancitano

    Pubblicato in accordo con

    S&P Literary - Agenzia letteraria Sosia & Pistoia

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2021 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

    eBook ISBN: 978-88-3053-309-7

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile.

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    PREFAZIONE

    C’è qualcosa che accomuna chi ha letto i libri di Marion Zimmer Bradley, qualcosa di molto simile al senso di intimità di chi ha compiuto insieme un lungo viaggio: la consapevolezza di aver condiviso qualcosa di profondo e il fatto che chi non c’era non riuscirà mai a coglierne il segreto.

    Mi sono chiesta a lungo la ragione per cui i suoi libri creino questo senso di comunanza, e mi pare che la risposta risieda nella capacità di portarci in un luogo mistico, rarefatto e pieno di intelligenze divine, costringendoci allo stesso tempo a riflettere sulla nostra vita quotidiana, sul nostro radicamento, sulle nostre energie.

    Per farlo, Zimmer Bradley ha scelto spesso lo strumento della rinarrazione, dando avvio a tutti gli effetti a un filone letterario sempre più frequentato dalle autrici degli ultimi decenni. Non è un caso che abbia riscritto storie epiche che celebravano eroi maschili riuscendo a sovvertirle, a guardarle da un’altra prospettiva. L’ha fatto per dare voce a tutte quelle figure femminili che nelle grandi narrazioni occidentali hanno occupato poche righe e sono state definite sempre a partire dagli uomini. Lei, al contrario, ha ripercorso quei sentieri mostrandoci un altro volto di quelle eroine che per troppo tempo sono state giudicate malvagie, strane, pazze, ma che una parte di noi ha sempre segretamente amato: donne in grado di avere potere sul mondo sociale e su quello spirituale, un potere che a noi tanto spesso sembra di non avere.

    Ecco perché quando si legge Marion Zimmer Bradley si prova una forma particolare di nostalgia, come se raccontasse qualcosa che ci riguarda, che conosciamo ma che non ritroviamo nella società in cui viviamo: la Dea, l’incontro profondo tra donne, la ritualità, il rapporto con il corpo e con la sessualità, con l’ardore e con il fuoco. C’è una parola tedesca che restituisce il senso di quello che si prova quando ci si immerge nelle sue storie: fernweh. È un termine intraducibile, ma in italiano potremmo cercare di renderlo con nostalgia dell’altrove: è il senso di attrazione che proviamo verso qualcosa che non abbiamo mai abitato, ma che in qualche modo ci chiama.

    In La torcia, Zimmer Bradley si misura con la storia della guerra di Troia, e anche qui ad avere voce sono finalmente quelle donne che nell’Iliade erano solo strumento del volere divino o della forza maschile. Ci racconta i riti segreti delle Amazzoni, il culto della Dea Serpente e quello di Apollo e le diverse schiere di divinità che si scontrano.

    Racconta, in particolare, una nuova storia di Cassandra, perché come scrive lei stessa l’Iliade non aveva nulla da dire sul suo destino, e l’unica cosa a cui si pensa ancora quando si fa il suo nome è la follia. La storia di questa donna strana, però, va raccontata, e l’autrice statunitense sceglie di inventarsela, cercando in questo modo di illuminare la sacerdotessa veggente con uno sguardo più autentico possibile, ma portando allo stesso tempo nel romanzo una sensibilità contemporanea, che sarebbe stata estranea e incomprensibile agli occhi degli antichi. Lo scopo non è dunque imitare Omero, ma porsi accanto a noi, mostrandoci cosa vedremmo di quella guerra se potessimo tornare là, a quel tempo. Ecco perché riusciamo a percepire la verosimiglianza di quello che racconta, compiendo con lei un viaggio che quasi ci sembra di fare fisicamente, lungo un romanzo che si beve d’un sorso, da cui non ci si riesce a separare.

    «Queste storie non avvennero mai, ma sono sempre» diceva Salustio, e allora Zimmer Bradley decide di portare alla luce altre parti di quelle storie, di aggiungere complessità a una mitologia maschile, aggressiva e troppo spesso misogina. Cassandra può finalmente essere raccontata, e forse questa può essere solo una delle variazioni possibili, delle sue storie potenziali. È passata alla storia come portatrice di sventura, ma può riservare molto altro. Quante nuove Cassandra possiamo raccontare?

    Quella che si muove in queste pagine si sente da subito diversa dalle altre donne, e sembra che se ne domandi sempre il perché. Cosa la rende così distante dalla madre, dalle sorelle, da Andromaca, ma anche dalle Amazzoni, da Imandra, da Elena? C’è qualcosa che le altre capiscono e lei no? È lei a essere pazza o le altre persone a non vedere?

    La figlia di Priamo sceglie il proprio destino in un mondo in cui convivono diverse condizioni femminili: nella Colchide sono le donne a regnare, a Micene a essere regina è Clitennestra, minacciata però dal potere del marito Agamennone, mentre a Creta le donne non possono imparare a scrivere perché si crede che questo danneggerebbe la loro mente, prosciugherebbe il grembo e renderebbe sterile il mondo. Di fronte a queste idee diverse e contraddittorie, Cassandra è sempre errante, viaggia, cambia, non sceglie mai un credo solo. Le vengono rimproverate rigidità, purezza estrema, castità, presunzione, superbia, eppure è più libera di ogni altro personaggio. Qualunque cosa le venga detta va avanti lo stesso, respingendo ciò che non le interessa e tracciando da sola il percorso della propria vita.

    Non si può parlare di La torcia senza pensare a Le nebbie di Avalon, ma non bisogna fare l’errore di cercare le similitudini – che pure ci sono – senza riconoscere l’unicità di questo libro. Anche qui, infatti, tutti gli uomini sono presi da se stessi, dall’ambizione e dall’incapacità di guardare oltre. Anche qui la protagonista ha un rapporto particolare con il fratello maschio, verso cui prova un’identificazione non corrisposta. Anche qui la madre, Ecuba, è una donna che aveva la Vista e che l’ha persa per inseguire costumi e usanze che non mette più in dubbio, proprio come aveva fatto Igraine, madre di Morgana.

    Eppure, se in Le nebbie di Avalon la Dea era da proteggere contro l’avanzata di un Dio maschile e di una religione proibizionista, qui in scena entrano gli dei, tutti diversi, appartenenti a varie mitologie: la Dea Serpente per le Amazzoni, Apollo per i troiani, Venere e Atena per gli achei. Agamennone venera Zeus Tonante, il Signore del Fulmine e Poseidone che scuote la terra, il Signore dei Cavalli, ma non Apollo, perché non è il suo dio. Zimmer Bradley arriva a suggerire che, forse, la guerra di Troia rappresenta un cambio di passo, la morte di ciò che c’era prima, il diffondersi dei costumi achei dopo il crollo del mondo minoico, e in effetti è una visione delle cose molto più vicina alla realtà di quanto sia quella comune, che vede le divinità greche come un sistema monolitico, sempre identico a se stesso in ogni momento della storia antica.

    A differenza di Morgana, poi, Cassandra si domanda continuamente a che servano gli dei, una domanda che tutti gli altri hanno paura anche solo a formulare. Il rapporto tra umani e Immortali è la sua ossessione: non capisce perché i mortali vadano al tempio di Apollo a fare domande sciocche, per le quali non servirebbe alcun consiglio divino, ma per cui basterebbe buon senso; vanno al tempio con i propri problemi di poco conto pensando che un dio sia interessato a risolverli, pensando che non abbia di meglio da fare. Del resto, non riesce neanche a capire cosa gli dei vogliano dagli umani, e la disobbedienza si agita in lei, impossibile da tacitare completamente, con un grido sempre senza risposta: «A cosa servono questi dei?».

    La Vista di Cassandra non è solo la capacità di prevedere il futuro, ricevere sogni premonitori, convivere con le immagini di ciò che sarà: è soprattutto la capacità di essere inattuale, di intuire qualcosa che va oltre la cultura in cui è nata. Ettore, Priamo, Achille, Paride, Elena non si domandano cosa li muova, quali dei li usino come pedine, e quando si accorgono del potere divino si chinano al suo servizio, ubbidienti. Si rendono conto che la loro sopravvivenza è in mano a un destino non umano, ma non riescono ad andare oltre. Diventano meri testimoni degli eventi o braccia di altre intelligenze, laddove pensano di essere attori sulla scena.

    Ecco perché Cassandra infastidisce e spaventa quando si fa delle domande che altri non si farebbero. Perché bisogna servire gli dei? Qual è la ragione? È Enea a suggerirle che forse «gli dei non hanno bisogno di motivi per quello che fanno», e forse non è un caso se sarà tra i pochi a salvarsi dalla guerra e a dare vita a un’altra città, a un’altra cultura, a un ciclo nuovo: quello di Roma.

    Anche la storia di Cassandra non finisce con l’incendio di Troia, perché di fronte a ogni cosa che accade lei cerca la comprensione grazie alla propria Vista e all’uso del pensiero, mantenendo sempre insieme la fedeltà verso la Dea Serpente e il dio Apollo e quella verso se stessa.

    Forse, se le storie di Marion Zimmer Bradley non lasciano indifferenti e catturano nella loro atmosfera epica è perché ci permettono di allontanarci da un orizzonte umano in cui gli scontri sono prosaici e insensati. E se gli dei si potessero manifestare anche qui? E se ancora oggi i destini umani fossero lo scontro tra opposte schiere di dei che si comprendono solo tra loro, che seguono altre logiche e di cui non siamo consapevoli, convinti come siamo di essere liberi?

    Zimmer Bradley ci suggerisce continuamente questa domanda, che poi è una domanda sul senso delle cose e su ciò che ci guida davvero.

    Maura Gancitano

    Copenaghen, agosto 2021

    LA TORCIA

    A Mary Renault

    O città di Troia! L’alta Troia è in fiamme!

    Dante Gabriel Rossetti

    Prima della nascita di Paride, Ecuba, regina di Troia, sognò di aver partorito una torcia che avrebbe incendiato le mura di Troia.

    PROLOGO

    La pioggia era caduta per tutto il giorno, ora intensa, ora leggera, ma senza fermarsi mai. Le donne avevano portato dentro i filatoi, vicino al focolare, e persino i bambini stavano pigiati sotto i tetti sporgenti del cortile, avventurandosi fuori per qualche minuto tra un acquazzone e l’altro per saltare nelle pozzanghere fra i mattoni e portare orme di fango all’interno fino al focolare. All’approssimarsi della sera, la più vecchia tra le donne pensò che gli strilli e gli spruzzi, le cariche dei piccoli eserciti, gli scontri di spade e scudi di legno, gli schianti e i litigi per i giocattoli rotti, i mutamenti di alleanze da un capetto all’altro, gli urli dei morti e feriti esclusi dai giochi l’avrebbero fatta impazzire.

    Dal camino colava ancora troppa acqua perché si potesse cucinare sul focolare; man mano che la giornata invernale si scuriva, furono accesi dei fuochi nei bracieri. Quando si diffuse il buon profumo della carne messa ad arrostire e del pane, l’uno dopo l’altro i bambini arrivarono e si accoccolarono come cuccioli affamati, fiutando rumorosamente e continuando a litigare sottovoce. Poco prima di cena si presentò alla porta un ospite: un aedo, un cantore errante con la sua lira appesa alla spalla, che dovunque andasse gli assicurava accoglienza e alloggio. Dopo un bagno, ricevuti abiti asciutti e cibo, si sedette al posto concesso agli ospiti più graditi, vicino al fuoco. Cominciò ad accordare lo strumento, avvicinando l’orecchio ai cavicchi di tartaruga e provando il suono con un dito. Poi, senza chiedere il permesso – anche a quei tempi un poeta faceva ciò che voleva – intonò un sonoro accordo e declamò:

    Di battaglie e dei grand’uomini che le fecero canto;

    di quelli che dieci anni ressero innanzi alle gigantesche mu­ra di Troia;

    e degli dei che infine le abbatterono,

    Apollo, Signore del Sole, e Poseidone, Scuotitore della Terra.

    La storia dell’ira del glorioso Achille, nato da dea, canto,

    così possente che nessun’arma poteva ucciderlo;

    e la storia del suo smisurato orgoglio, e quella battaglia

    che lui e il grande Ettore combatterono per tre giorni sulla piana

    davanti a Troia dalle alte mura;

    il fiero Ettore e il prode Achille, centauri e amazzoni, dei ed eroi,

    Odisseo ed Enea, tutti coloro che sulla piana di Troia

    lottarono e furono uccisi…

    «No!» esclamò bruscamente la donna più anziana, abbandonando il fuso e saltando in piedi. «Non ne voglio sapere! Non permetterò che si cantino simili sciocchezze in casa mia!»

    L’aedo lasciò cadere la mano sulle corde con un’aspra dissonanza; aveva un’espressione costernata e sorpresa, ma il suo tono fu cortese. «Mia signora…?»

    «Ti dico che non voglio sentir cantare quelle stupide bugie qui al mio focolare!» disse lei con veemenza.

    I bambini fecero versi di delusione; lei li zittì con un gesto imperioso. «Cantore, ti concedo volentieri un pasto e un sedile accanto al fuoco; ma non ti lascerò riempire le orecchie dei bambini con quelle assurde bugie. Non è andata assolutamente così.»

    «Davvero?» domandò il musico, sempre cortese. «Come lo sai, signora? Io canto ciò che ho appreso dal mio maestro, come si canta ovunque da Creta a Colchide…»

    «Cantino pure così da qui alla fine del mondo» disse la vecchia, «ma non è assolutamente ciò che è successo.»

    «Come fai a saperlo?» chiese l’aedo.

    «Perché io c’ero, e ho visto tutto» rispose lei.

    I bambini bisbigliarono e diedero in esclamazioni. «Non ce l’hai mai detto, nonna. Hai conosciuto Achille, Ettore, Priamo e tutti gli eroi?»

    «Eroi!» sbottò lei. «Sì, li ho conosciuti; Ettore era mio fratello.»

    L’aedo si protese verso di lei con uno sguardo penetrante. «Ora ti riconosco» disse infine.

    Lei annuì e chinò la testa bianca.

    «Allora, signora, forse dovresti essere tu a narrare la storia; io, che servo il dio della verità, non voglio cantare menzogne per il mio uditorio.»

    La vecchia rimase zitta molto a lungo. Infine disse: «No, non posso rivivere tutto». I bambini si lamentarono contrariati. «Non hai un’altra storia da cantare?»

    «Molte» disse lui, «ma non ne voglio narrare una che tu schernisci come menzogna. Non vuoi raccontare la verità, così che io possa cantarla altrove?»

    La donna scosse il capo con fermezza. «La verità non è una storia tanto bella.»

    «Non puoi almeno dirmi dove la mia è fuorviante, cosicché possa correggerla?»

    Lei sospirò. «Una volta ci avrei provato, ma nessun uomo desidera credere la verità. Perché la tua storia parla di eroi e di re, non di regine; e di dei, non di dee.»

    «No davvero» disse il musico, «perché gran parte di essa parla della bellissima Elena, che fu rapita da Paride; e di Leda, madre di Elena e di sua sorella Clitennestra, che fu sedotta dal grande Zeus, il quale prese le sembianze di suo marito il re…»

    «Sapevo che non avresti capito» disse la vecchia, «perché, tanto per cominciare, all’inizio in questa terra non c’erano re, solo regine, le figlie delle dee, che prendevano come consorti chi volevano. E poi discesero nella nostra terra gli adoratori degli dei celesti, i cavalieri, il popolo del ferro; e quando le regine li presero come consorti, quelli si definirono re e pretesero il diritto di governare. E così gli dei e le dee si trovarono in conflitto, e venne un tempo in cui portarono le loro dispute a Troia…» Si interruppe bruscamente. «Basta» disse. «Il mondo è cambiato; lo vedo che mi consideri una vecchia che vaneggia. Questo è sempre stato il mio destino: dire la verità e non essere mai creduta. Così è stato, così sarà sempre. Canta ciò che vuoi; ma non farti beffe della mia verità presso il mio focolare. Ci sono già tante storie. Narraci di Medea, signora di Colchide, e del vello d’oro che Giasone rubò dal suo tempio… se poi l’ha fatto. Secondo me c’è qualche altra verità anche in quella storia, ma io non la conosco, né m’importa quale potrebbe essere; è da molti, lunghi anni che non metto piede laggiù.» Raccolse il suo fuso e cominciò a filare in silenzio.

    Il musico chinò il capo. «Così sia, nobile Cassandra. Pensavamo tutti che fossi morta a Troia, o a Micene poco dopo.»

    «Allora questo dovrebbe dimostrarti che, almeno in certi particolari, il racconto non dice il vero» ribatté lei, ma sottovoce.

    Resta il mio destino: dire sempre la verità, ed essere solo considerata pazza. Ancora adesso il Signore del Sole non mi ha perdonata…

    LIBRO I

    LA CHIAMATA DI APOLLO

    1

    In questo periodo dell’anno, la luce durava fino a tardi; ma ora l’ultimo bagliore del tramonto si era spento a occidente, e la nebbia aveva iniziato a salire dal mare.

    Leda, signora di Sparta, si levò dal letto dove il consorte, Tindaro, ancora indugiava. Come sempre dopo l’amplesso era caduto in un sonno pesante, e quando lei si alzò lui non se ne accorse. Leda si coprì le spalle con un indumento leggero e uscì nel cortile degli alloggi femminili.

    Alloggi femminili, pensò rabbiosa la regina, quando questo è il mio castello; chiunque penserebbe che sia io l’intrusa qui, non lui; che sia lui, non io, a vantare diritti legittimi su Sparta. Madre Terra di lui non sa neppure il nome.

    Quando era venuto a chiedere la sua mano, Leda era stata disponibile, sebbene Tindaro fosse uno degli invasori del Nord, adoratore del tuono, della quercia e degli dei celesti, un uomo rozzo e villoso che portava l’odioso ferro nero sulla lancia e l’armatura. E invece adesso i suoi erano ovunque e pretendevano matrimoni secondo nuove leggi, come se i loro dei avessero abbattuto dal suo trono la Dea che possedeva la terra, le messi e il popolo. La donna sposata da uno di questi portatori di ferro era tenuta ad assimilarsi al culto dei loro dei e a dare il suo corpo solo a quell’uomo.

    Un giorno, pensò Leda, la Dea avrebbe punito questi uomini per aver impedito alle donne di rendere il dovuto omaggio alle forze della Vita. Costoro dicevano che le dee erano asservite agli dei, il che a Leda sembrava un’orribile bestemmia e un folle capovolgimento dell’ordine naturale delle cose. Gli uomini non avevano alcun potere divino; non concepivano né partorivano; eppure in qualche modo sentivano di avere dei diritti naturali sui frutti del corpo delle donne, come se accoppiarsi con una donna desse loro qualche facoltà di proprietari, come se i bambini non appartenessero per natura a colei il cui corpo li aveva protetti e nutriti.

    Ma Tindaro era suo marito e lei lo amava; e poiché lo amava era persino disposta ad assecondarne la follia e la gelosia, e a rischiare le ire di Madre Terra giacendo solo con lui.

    Eppure avrebbe desiderato fargli capire che era sbagliato tenerla chiusa nel gineceo; che in quanto sacerdotessa avrebbe dovuto essere fuori nei campi, a vedere che la Dea ricevesse quanto le spettava; che lei era tenuta a offrire la propria fertilità a tutti gli uomini, non solo al consorte; che la Dea non poteva limitare i suoi doni a un unico uomo, benché si definisse un re.

    Un lontano brontolio di tuono riecheggiò dal profondo, come se si fosse levato dal mare, o come se il Gran Serpente che ogni tanto faceva tremare la terra si fosse mosso nelle sue viscere.

    Una folata di vento agitò l’indumento sulle spalle di Leda, e i suoi capelli svolazzarono come un uccello solitario. Un debole lampo all’improvviso illuminò tutto il cortile, e nel riquadro della porta Leda vide delinearsi la sagoma del marito che veniva a cercarla. Dentro di sé provò apprensione; l’avrebbe rimproverata per essere uscita dagli alloggi femminili, anche a quell’ora della sera?

    Ma lui non parlò; si limitò ad avanzare verso di lei, e qualcosa nel suo passo, la disinvoltura con cui si muoveva, disse alla donna che, nonostante la corporatura ben nota e i tratti ora chiaramente visibili sotto la luna, quello non era suo marito. Come fosse possibile non lo sapeva, ma intorno alle spalle di lui pareva giocare il confuso baluginio di un fulmine, e a ogni passo i piedi colpivano il selciato con il leggero rumore di un tuono in lontananza. Sembrava divenuto più alto, con la testa gettata all’indietro nella luce di folgore che gli crepitava nella chioma. Leda capì, con un brivido che le fece rizzare ogni pelo del corpo, che uno degli dei estranei ora si aggirava con le sembianze di suo marito, cavalcandolo come lui avrebbe montato uno dei suoi cavalli. Il baleno le disse che era Zeus olimpio, padrone dei tuoni, Signore del Fulmine.

    Non era cosa nuova per Leda; conosceva la sensazione di essere pervasa in modo prorompente dalla Dea durante la benedizione delle messi, o quando si sdraiava nei campi per attirarvi il potere divino di far crescere il grano. Ricordò che in quei momenti le sembrava di essere separata da se stessa, quasi fosse la Dea a officiare i riti, dominando chiunque altro con il suo potere.

    Tindaro, lo sapeva, ora doveva trovarsi a guardare da dentro mentre Zeus, padrone del suo corpo, si dirigeva verso sua moglie. Leda sapeva, perché una volta gliel’aveva detto il marito stesso, che proprio al Signore del Tuono Tindaro era più devoto fra tutti i suoi dei.

    Si ritrasse; se il dio non l’avesse notata, forse avrebbe potuto restare non vista fino a che non si fosse separato da suo marito. La testa che ora era del dio si mosse, con quel fremito di luce che seguiva i movimenti fluidi della chioma. Capì che l’aveva vista; però non fu la voce di Tindaro a parlare, ma una voce più profonda, più morbida, un basso brontolio pieno di tuoni lontani.

    «Leda» disse Zeus Tonante, «vieni qui da me.»

    Tese la mano per prendere la sua, e lei, obbediente, dominando la paura improvvisa – se questo dio generava i lampi, il suo tocco l’avrebbe fulminata? – gliela porse. Tremò un poco toccando la sua pelle, che era fredda. Alzando lo sguardo, distinse sul suo volto l’ombra di un sorriso del tutto diverso dall’espressione rigidamente severa di Tindaro, quasi che il dio stesse ridendo… no, non di lei, ma con lei. La attirò sotto il suo braccio coprendola con il lembo del mantello, così che sentisse il calore del suo corpo. Non parlò più, ma la portò con sé dentro la camera da cui era uscita solo pochi minuti prima.

    Poi la trasse a sé, sotto il mantello, così da farle sentire la virilità eretta a contatto con il corpo.

    Ma le leggi che proibiscono di giacere con un altro uomo valgono anche per un dio che ha la stessa forma di mio marito?, si chiese Leda piena di agitazione. Non aveva modo di saperlo; dalla forza con cui lui la stringeva, capiva che protestare sarebbe stato impossibile.

    Sulle prime aveva percepito come fredda la sua carne aliena; adesso sembrava piacevolmente calda, quasi fosse febbricitante.

    La sollevò e la fece sdraiare; bastò un rapido tocco e in qualche modo Leda si trovò già aperta, pulsante, impaziente. Poi lui fu sopra e dentro di lei, con il fulmine che scherzava intorno alla sua forma e alla sua faccia e riecheggiava profondo nei ritmi martellanti del suo tocco. Per un attimo sembrò che lui non fosse un uomo, che in realtà in questo non ci fosse nulla di umano, ma che lei fosse sola su una grande cima battuta dal vento, circondata da ali agitate, o da un gran cerchio di fuoco avvolgente, o che un animale le strisciasse intorno e la incantasse di confusione ed estasi – ali agitate, tuono, mentre una bocca calda e prepotente prendeva possesso della sua.

    Poi improvvisamente tutto ebbe fine, quasi fosse accaduto molto tempo prima, una memoria sbiadita o un sogno, e lei si trovò sdraiata da sola sul letto con la sensazione di essere molto piccola, gelata e abbandonata e sola mentre il dio si librava sopra di lei – fino al cielo, pareva. Si curvò a baciarla con grande tenerezza. Leda chiuse gli occhi, e quando si svegliò trovò Tindaro profondamente addormentato al suo fianco e non era più certa di essere mai scesa dal letto. Era proprio Tindaro; quando tese la mano per essere sicura, sentì che aveva la pelle tiepida, o fresca; e non c’era alcun crepitio di fulmine nei capelli che giacevano sul cuscino accanto a lei.

    Dunque era stato solo un sogno? Mentre quel pensiero le attraversava la mente, da molto lontano fuori casa udì il mormorio del tuono; ovunque fosse andato, il dio non l’aveva lasciata del tutto. E ora seppe che, per tutto il tempo della sua vita come moglie di Tindaro, non avrebbe mai più guardato la faccia di suo marito senza cercarvi qualche segno del dio che l’aveva visitata prendendo la sua forma.

    2

    La regina Ecuba non usciva mai dalle mura di Troia senza girarsi a guardare con grande orgoglio la città-fortezza che si innalzava, un terrazzamento sopra l’altro, sulla fertile piana del verde Scamandro, oltre la quale si stendeva il mare. Si stupiva sempre dell’opera degli dei che le avevano dato il governo di Troia. A lei, la regina; e a Priamo come suo marito, guerriero e consorte.

    Lei era la madre del principe Ettore, erede di Priamo. Un giorno i suoi figli e le sue figlie avrebbero ereditato questa città e la terra all’intorno, fin dove l’occhio si poteva spingere.

    Anche se il bambino che Ecuba stava per avere fosse stato una femmina, Priamo non avrebbe avuto motivo di lamentarsi di lei. Ettore ormai aveva sette anni, abbastanza per imparare a giocare con le armi. Avevano già ordinato la sua prima armatura al fabbro che serviva la casa reale. La figlia Polissena aveva quattro anni e sarebbe diventata graziosa, con i suoi lunghi capelli rossi come quelli di Ecuba; un giorno sarebbe stata preziosa, perché una figlia femmina poteva essere data in sposa a uno dei re rivali di Priamo e cementare una salda alleanza. La casa di un re doveva essere ricca di eredi. Le donne di palazzo gli avevano generato molti maschi e alcune femmine. Ma Ecuba, in quanto regina, era responsabile della prole reale, ed era suo dovere – anzi, suo privilegio – dire come doveva essere allevato ognuno dei figli del re, che fosse nato da lei o da qualunque concubina.

    La regina Ecuba era di una bellezza imponente, alta e con le spalle larghe, i capelli ramati pettinati lisci all’indietro e acconciati in lunghi riccioli sul collo. Incedeva come la dea Era, portando il suo bambino (basso nella pancia e prossimo alla nascita) con fierezza davanti a sé. Indossava il corpetto scollato e la gonna a balze, con un motivo di strisce vivaci, che era l’abito comune delle nobildonne di Troia. Un collare d’oro, largo come il palmo della sua mano, le brillava intorno alla gola.

    Mentre camminava per una strada tranquilla vicino alla piazza del mercato, una donna del popolo, piccola, bruna e grossolanamente vestita di lino grezzo, si slanciò a toccarle il ventre, mormorando, quasi spaventata della propria temerarietà: «Una benedizione, o regina!».

    «Non sono io» rispose Ecuba, «ma è la Dea che ti benedice.» Mentre tendeva le mani sentì sopra di sé l’ombra della Dea, come un formicolio sulla cima del capo; e vide nella faccia della donna l’immancabile riflesso di soggezione e meraviglia davanti a quell’improvviso cambiamento.

    «Che tu possa generare molti figli e molte figlie per la nostra città. Benedicimi anche tu, ti prego, o figlia» disse seria Ecuba.

    La donna alzò gli occhi sulla regina – oppure vide solo la Dea? – e mormorò: «Signora, possa la fama del principe che porti in grembo superare persino la fama del principe Ettore».

    «Così sia» mormorò la regina, e si domandò perché avvertisse un piccolo brivido premonitore, quasi che la benedizione si fosse in qualche modo tramutata, tra le labbra della donna e le sue orecchie, in una maledizione.

    Doveva essere palese sul suo viso, pensò, perché l’ancella che la accompagnava si avvicinò e le disse all’orecchio: «Signora, sei pallida; è l’inizio del travaglio?».

    La confusione della regina era tale che per un attimo si chiese davvero se lo strano sudore freddo che l’aveva presa non fosse il primo sintomo del parto imminente. O era solo il risultato del breve passaggio della Dea? Non ricordava nulla di simile alla nascita di Ettore, ma allora era una ragazzina, a malapena conscia del processo che si svolgeva dentro di lei. «Non so» disse. «È possibile.»

    «Allora devi tornare a palazzo, e bisogna avvisare il re» suggerì l’ancella. Ecuba esitò. Non aveva voglia di tornare dentro le mura, tuttavia, se davvero era in travaglio, era suo dovere – non solo verso il bambino e verso suo marito, ma verso il re e tutta la popolazione di Troia – salvaguardare il principe o la principessa che aveva in grembo.

    «Va bene, rientriamo» acconsentì, e si voltò. Una delle cose che la turbavano quando passeggiava in città era che una folla di donne e bambini la seguiva sempre chiedendo benedizioni. Da quando la sua gravidanza era diventata visibile imploravano da lei auguri di fertilità, quasi che potesse, come la Dea, concedere il dono della maternità.

    Con l’ancella passò sotto le leonesse gemelle che sorvegliavano la porta della reggia di Priamo e attraversò l’enorme cortile dove i soldati si radunavano per le esercitazioni. Alla porta, una sentinella levò la lancia in segno di saluto.

    Ecuba guardò i soldati che combattevano a due a due con armi spuntate. Di armi ne sapeva quanto chiunque di loro, dato che era nata e cresciuta nelle pianure, figlia di una tribù nomade dove le donne andavano a cavallo e si addestravano come gli uomini delle città, con spada e lancia. La sua mano ambiva ancora alla spada, ma a Troia non usava così, e sebbene all’inizio Priamo le avesse permesso di maneggiare le armi e allenarsi con i soldati, lo aveva proibito quando era rimasta incinta di Ettore. Invano lei gli aveva spiegato che le donne della sua tribù cavalcavano e usavano armi fino a pochi giorni prima di partorire; non l’aveva ascoltata.

    Le levatrici reali le avevano detto che il solo toccare armi taglienti avrebbe danneggiato il bambino, e forse anche gli uomini proprietari delle armi. Il tocco di una donna, dicevano, e soprattutto di una donna nel suo stato, avrebbe reso le armi inutili in battaglia. Queste a Ecuba sembravano solenni sciocchezze, come se gli uomini temessero l’idea che una donna potesse essere abbastanza forte da proteggersi da sola.

    «Ma non hai alcun bisogno di proteggerti, mia amata» aveva detto Priamo. «Che razza di uomo sarei se non sapessi proteggere mia moglie e mio figlio?» Questo aveva posto fine alla questione, e da quel giorno Ecuba non aveva più sfiorato l’elsa di un’arma. Ora, immaginando il peso di una spada in mano, fece una smorfia, sapendo di essere indebolita dalle attività domestiche femminili e fiacca per mancanza di allenamento. Priamo non era come i re argivi che tenevano le donne confinate in casa, ma in realtà non gli piaceva che lei si allontanasse molto dalla reggia. Era cresciuto con donne che stavano sempre al chiuso, e una delle descrizioni più critiche che potesse dare di una donna era «abbronzata dal troppo bighellonare».

    La regina varcò la porticina che conduceva nelle ombre fresche del palazzo e si inoltrò nei corridoi dai pavimenti di marmo, sentendo nel silenzio il fruscio delle sue gonne per terra e i passi leggeri dell’ancella alle sue spalle.

    Nelle sue camere luminose, con tutte le tende spalancate come piaceva a lei, le donne stavano esponendo al sole e all’aria la biancheria, e vedendola entrare si fermarono per salutarla.

    «La regina è in travaglio» annunciò l’ancella. «Mandate a chiamare la levatrice reale.»

    «No, aspettate.» La voce bassa ma decisa di Ecuba interruppe le grida di eccitazione. «Non c’è tutta questa fretta, non è ancora sicuro. Mi sono sentita poco bene e non avevo modo di sapere cosa fosse, ma non è assolutamente sicuro che sia quello

    «Comunque, signora, se non ne sei sicura, dovresti lasciare che la levatrice ti veda» la persuase l’ancella, e la regina infine acconsentì. Di sicuro non c’era urgenza; se era in travaglio, presto non ci sarebbero stati dubbi in proposito. Ma se non lo era, parlare con la donna non le avrebbe fatto male. La strana sensazione era passata come se non ci fosse mai stata, e non era tornata.

    Il sole declinò mentre Ecuba passava la giornata aiutando le donne a piegare e a riporre la biancheria esposta ad asciugare. Al tramonto Priamo mandò a dire che avrebbe trascorso la serata con i suoi uomini; lei poteva cenare con le donne e andare a letto senza aspettarlo.

    Cinque anni prima, pensò, questo l’avrebbe profondamente delusa; non sarebbe riuscita a dormire se non circondata dalle sue braccia forti e amorevoli. Adesso, specialmente alla fine della gravidanza, era contenta al pensiero di avere il suo letto tutto per sé. Anche quando le venne in mente che invece il marito avrebbe potuto dividere il letto con una delle altre donne di corte, forse una delle madri degli altri rampolli reali, questo non la turbò; sapeva che un re deve avere molti figli e il suo, Ettore, era saldamente nelle grazie del padre.

    Per questa notte perlomeno non sarebbe entrata in travaglio; perciò chiamò le sue donne perché la mettessero a letto con il consueto cerimoniale. Chissà perché, l’ultima immagine che le rimase in mente prima del sonno fu quella della donna che quel giorno in strada le aveva chiesto una benedizione.

    Appena prima di mezzanotte la sentinella di guardia agli appartamenti della regina, che sonnecchiava durante il turno, fu svegliata da un terrificante urlo di disperazione e angoscia che sembrò riecheggiare in tutto il palazzo. Risvegliata da quella scossa, la sentinella entrò nelle stanze, gridando finché non apparve una delle donne della regina.

    «Cos’è successo? La regina è in travaglio? Va a fuoco il palazzo?» volle sapere.

    «Un brutto presagio» esclamò la donna, «il più funesto dei sogni…» E poi la regina in persona apparve sulla soglia.

    «Al fuoco!» esclamò, e la sentinella guardò sconcertato la figura solitamente dignitosa della regina, i lunghi capelli ramati sciolti che cadevano spettinati fino alla cintola, la tunica slacciata alla spalla e senza cintura, che la lasciava nuda sopra la vita. Non aveva mai notato che la regina era una donna bellissima.

    «Signora, che posso fare per te?» domandò. «Dov’è il fuoco?»

    Poi vide una cosa stupefacente: nello spazio di un respiro la regina mutò. Un momento prima era un’estranea sconvolta, quello dopo la regale presenza ben conosciuta. Aveva la voce scossa dalla paura, anche se riuscì a dire piano: «Dev’essere stato un sogno. Un sogno d’incendio, nient’altro».

    «Raccontaci, signora» incalzò l’ancella, avvicinandosi alla regina con occhi attenti e cauti mentre faceva un cenno alla sentinella. «Tu vai, non devi stare qui.»

    «È mio dovere accertarmi che le donne del re stiano bene» asserì l’uomo con fermezza, gli occhi fissi sul volto di nuovo calmo della regina.

    «Lascialo stare; sta solo facendo il suo dovere» disse Ecuba alla donna, seppure con voce ancora malferma. «Ti assicuro, sentinella, non è stato altro che un brutto sogno; ho fatto controllare alle donne tutte le stanze. Non c’è alcun incendio.»

    «Dobbiamo mandare a chiamare una sacerdotessa al tempio» incalzò un’altra donna al fianco di Ecuba. «Dobbiamo sapere quale pericolo annuncia un sogno così funesto!»

    Si udì un passo deciso e la porta si aprì di scatto; sulla soglia stava il re di Troia, un uomo alto e forte fra i trenta e i quarant’anni, con muscoli solidi e spalle larghe anche senza l’armatura, dai bruni capelli ricciuti e con una barba altrettanto bruna e riccia dal taglio ordinato, che voleva sapere, in nome di tutti gli dei e le dee, cosa fosse tutta quell’agitazione in casa sua.

    «Mio signore…» Le domestiche indietreggiarono mentre Priamo varcava la soglia.

    «Stai bene, mia signora?» domandò, ed Ecuba abbassò gli occhi.

    «Mio signore e marito, mi dolgo per il disturbo. Ho fatto un sogno assai funesto.»

    «Andate a vedere che sia tutto in ordine nelle stanze dei figli reali» ordinò Priamo, e le donne sgattaiolarono via. Priamo era un uomo gentile, ma non era bene contrariarlo nelle occasioni piuttosto rare in cui era di malumore. «E tu» disse alla sentinella, «hai sentito la regina: va’ subito al tempio della Gran Madre; di’ che la regina ha fatto un sogno di cattivo augurio e ha bisogno di una sacerdotessa che possa interpretarlo. Subito!»

    La sentinella si avviò rapida giù per le scale ed Ecuba tese la mano al marito.

    «Davvero è stato solo un sogno?» domandò lui.

    «Solo un sogno, nient’altro» rispose lei, ma persino il ricordo la faceva ancora tremare.

    «Raccontami, amata» disse lui riconducendola al letto, sedendosi accanto a lei e avvicinandosi per afferrarle le dita – poco più piccole delle sue – tra le mani callose.

    «Sono stata così sciocca a disturbare tutti per un incubo» disse Ecuba.

    «No, hai fatto benissimo. Chissà, il sogno può essere stato inviato da qualche dio che è tuo – o mio – nemico. Oppure da un dio benevolo, come annuncio di un disastro. Racconta, mia amata.»

    «Ho sognato… ho sognato…» Ecuba deglutì a forza, cercando di dissipare la soffocante sensazione di terrore. «Ho sognato che il bambino era nato, un maschio, e mentre giacevo a guardare le donne che lo fasciavano, all’improvviso c’era un dio nella stanza…»

    «Quale dio?» interruppe bruscamente Priamo. «In quale forma?»

    «Come posso saperlo?» domandò comprensibilmente Ecuba. «Conosco poco gli dei dell’Olimpo. Ma sono sicura di non averne offeso nessuno e di non aver recato loro alcun disonore.»

    «Descrivimi la sua forma e il suo aspetto» insistette Priamo.

    «Era giovane e imberbe, non più di sei o sette anni maggiore del nostro Ettore.»

    «Allora doveva essere Ermes, il messaggero degli dei» disse Priamo.

    Ecuba esclamò: «Ma perché un dio degli Argivi dovrebbe venire da me?».

    «Non sta a noi discutere gli atti degli dei. Come posso giudicare? Continua.»

    Ecuba parlò con voce ancora incerta. «Ermes, dunque, o qualunque dio fosse, si chinava sulla culla e sollevava il bambino…» Era pallida e aveva la fronte imperlata di sudore, ma cercò in ogni modo di controllare la voce. «Non era un neonato ma un bambino più grande – un bambino nudo, che bruciava – voglio dire che era tutto in fiamme, e ardeva come una torcia. E, come lui si muoveva, il fuoco veniva a invadere il castello, bruciando ovunque e incendiando la città…» Scoppiò a piangere e singhiozzò. «Oh, cosa può significare?»

    «Solo gli dei lo sanno per certo» disse Priamo, e le strinse con fermezza la mano nella sua.

    Ecuba proseguì esitante: «Nel sogno il bambino correva davanti al dio… un bambino appena nato che correva tutto in fiamme per il palazzo, e dietro di lui, mentre passava, le stanze prendevano fuoco. Poi correva giù in mezzo alla città – io stavo sulla balconata affacciata all’esterno e il fuoco si sprigionava dietro di lui che correva, sempre in fiamme, cosicché Troia bruciava, incendiata dalla cittadella fino alla costa, e persino il mare era tutto infuocato davanti ai suoi passi…».

    «In nome di Poseidone» mormorò Priamo sottovoce, «che presagio infausto… per Troia e per tutti noi!»

    Restò seduto in silenzio, accarezzandole la mano, finché un lieve rumore fuori della stanza annunciò l’arrivo della sacerdotessa.

    La donna entrò nella camera e disse con voce calma e confortante: «Pace a tutti in questa casa; gioia a voi, signore e signora di Troia. Io mi chiamo Sarmato. Vi porto la benedizione della Madre Santa. Quale servizio posso rendere alla regina?». Era una donna alta e robusta, probabilmente ancora in età fertile, sebbene i capelli scuri già mostrassero delle ciocche grigie. Si rivolse a Ecuba con un sorriso: «Vedo che la Gran Dea ti ha già benedetto, regina. Sei malata o in travaglio?».

    «Nessuna delle due cose» rispose Ecuba. «Non te l’hanno riferito, sacerdotessa? Un dio mi ha inviato un sogno infausto.»

    «Raccontamelo» disse Sarmato, «e non temere. Gli dei ci sono benevoli, di questo sono certa. Quindi parla e non aver paura.»

    Ecuba descrisse nuovamente il sogno, cominciando a pensare, ora che era ben sveglia, che non fosse tanto orribile quanto assurdo. Eppure rabbrividì dello stesso terrore.

    La sacerdotessa ascoltò aggrottando leggermente le sopracciglia. Quando Ecuba ebbe finito, le disse: «Sei sicura che non ci fosse nient’altro?».

    «Niente che io ricordi.»

    La sacerdotessa si accigliò e da una borsa legata in vita estrasse una manciata di sassolini; si inginocchiò sul pavimento e li lanciò come fossero astragali, osservando la loro disposizione con un borbottio, per poi lanciarli una seconda e una terza volta, prima di radunarli e riporli nella borsa.

    Poi alzò gli occhi su Ecuba.

    «Così ti parla il messaggero degli dei dell’Olimpo. Tu porti un figlio maschio dal destino funesto, che distruggerà la città di Troia.»

    Ecuba trattenne il respiro, costernata, ma sentì le dita del marito afferrare le sue, forti, calde, rassicuranti.

    «Si può fare qualcosa per scongiurare questo destino?» domandò Priamo.

    La sacerdotessa si strinse nelle spalle. «Cercando di scongiurare il destino, spesso gli uomini lo affrettano. Gli dei vi hanno mandato un ammonimento, ma hanno deciso di non dirvi cosa dovete fare per prevenire questa sventura. Potrebbe essere più sicuro non fare nulla.»

    Priamo corrugò la fronte e annunciò: «Allora il bambino deve essere esposto alla nascita».

    Ecuba gridò per l’orrore. «No! No! È stato solo un sogno, un sogno…»

    «Un ammonimento di Ermes» disse rigido Priamo. «Esponi il bambino appena sarà nato, dammi ascolto!» E aggiunse, con la formula inflessibile che dava alle parole la forza di leggi scolpite nella pietra: «Così ho detto; così sia fatto!».

    Ecuba si accasciò piangendo sui cuscini, e Priamo continuò con dolcezza: «A nessun costo ti avrei dato questo dolore, mia amata, ma gli dei non possono essere derisi».

    «Gli dei!» esclamò angosciata Ecuba. «Che dio è che manda incubi ingannevoli a distruggere un bambinetto innocente, un neonato in culla? Tra la mia gente» aggiunse risentita, «un bambino è della madre, e nessuno tranne lei, che l’ha portato per quasi un anno e l’ha fatto nascere, può pronunciarsi sul suo destino; se rifiuta di allattarlo e allevarlo, è una sua scelta. Che diritto ha un uomo sui bambini?» Non disse qualcuno che è solo un uomo, ma il suo tono di voce lo rendeva esplicito.

    «Il diritto di un padre» disse severamente Priamo. «Io sono padrone di questa casa, e come ho detto, così sarà fatto. Dammi ascolto, donna!»

    «Non dirmi donna con quel tono di voce» esclamò Ecuba. «Sono una cittadina libera e una regina, non una delle tue schiave o concubine!» Ma, nonostante tutto, sapeva che Priamo l’avrebbe avuta vinta; quando aveva deciso di sposare un uomo di questi che abitavano in città e accampavano diritti sulle loro donne, Ecuba sapeva di aver acconsentito a ciò. Priamo si alzò dal letto e diede alla sacerdotessa una moneta d’oro; la donna si inchinò e uscì.

    Tre giorni dopo, Ecuba entrò in travaglio e diede alla luce due gemelli: prima un maschio, poi una femmina, uguali come due boccioli di rosa dello stesso ramo. Erano entrambi sani e ben fatti, e piangevano senza posa, sebbene fossero così piccini che la testa del bambino stava nel palmo di Ecuba, e la bambina era ancora più piccola.

    «Guardalo, mio signore» disse con veemenza la regina quando arrivò Priamo. «Non è più grande di un gattino! E tu hai paura che questo sia inviato da un dio a portare la catastrofe sulla nostra città?»

    «C’è qualcosa di giusto in ciò che dici» ammise Priamo. «Il sangue reale, dopotutto, è sangue reale, ed è sacro; questo è il figlio di un re di Troia…» Rifletté per un attimo. «Senza dubbio sarebbe sufficiente farlo crescere lontano dalla città; ho un servitore vecchio e fidato, un pastore che vive alle pendici del monte Ida, che potrà allevare il bambino. Ti soddisfa questo, moglie mia?»

    Ecuba sapeva che l’alternativa era lasciare che il bambino fosse esposto su una montagna, dove, così piccolo e fragile, sarebbe morto in pochissimo tempo. «Così sia, allora, in nome della Dea» acconsentì rassegnata, e porse il bambino a Priamo che lo tenne in modo maldestro, come chi è poco uso a maneggiare neonati.

    Il re guardò negli occhi il piccolo e disse: «Ti saluto, figlioletto». Ecuba fece un sospiro di sollievo; dopo aver riconosciuto formalmente un figlio, un padre non poteva farlo uccidere o esporlo a rischio della morte.

    Ettore e Polissena avevano avuto il permesso di andare a trovare la madre.

    «Darai a mio fratello un nome reale, padre?» domandò Ettore.

    Priamo si accigliò, riflettendo, poi rispose: «Alessandro. E dunque, che la bambina sia chiamata Alessandra».

    Andò via portando con sé Ettore, ed Ecuba restò sdraiata con la bambina bruna in braccio, pensando che poteva consolarsi all’idea che suo figlio era vivo, anche se non avrebbe potuto allevarlo lei, mentre poteva tenere sua figlia. Alessandra, pensò. La chiamerò Cassandra.

    La principessina era rimasta nella stanza con le donne e ora si avvicinò al fianco di Ecuba, che le domandò: «Ti piace la tua sorellina, mia cara?».

    «No; è rossa e brutta, e non è neppure carina come la mia bambola» disse Polissena.

    «Tutti i bambini sono così quando nascono» disse Ecuba. «Anche tu eri rossa e brutta; presto lei sarà graziosa come te.»

    La bambina mise il broncio. «Perché vuoi un’altra figlia, madre, quando hai me?»

    «Perché, mia cara, se una figlia è una bella cosa, con due figlie la benedizione è duplice.»

    «Ma nostro padre non ha pensato che due figli erano meglio di uno» obiettò Polissena, e a Ecuba tornò in mente la profezia pronunciata da quella donna in strada. Nella sua tribù d’origine, i gemelli in sé erano considerati un presagio funesto, e invariabilmente venivano messi a morte. Se fosse rimasta là, avrebbe dovuto vedere sacrificati entrambi i neonati.

    Ecuba avvertì ancora un residuo di paura superstiziosa: cosa poteva essere stato a mandarle due bambini in un solo parto, come in una cucciolata animale? Le donne della sua tribù erano convinte che si dovesse agire a quel modo; ma lei aveva sentito dire che il vero motivo per sacrificare i gemelli era che risultava praticamente impossibile per una donna allattare due bambini in una volta. I suoi gemelli, perlomeno, non erano stati sacrificati alla povertà della tribù. A Troia c’era abbondanza di balie; avrebbe potuto tenerli entrambi. Priamo, però, aveva ordinato altrimenti. Lei aveva perso un bambino… ma, con la benedizione della Dea, uno solo, non tutti e due.

    Una delle sue donne mormorò, pensando di non essere udita: «Priamo è pazzo! Allontanare un figlio e allevare una figlia?».

    Tra la mia gente, ricordò Ecuba, una figlia non ha minor valore di un figlio; se questa piccina fosse nata nella mia tribù, avrei potuto farla diventare una guerriera! Ma se fosse nata nella mia tribù, non sarebbe sopravvissuta. Qui sarà considerata solo per il prezzo che varrà quando sarà data in sposa, come me, a un re.

    Ma cosa ne sarebbe stato di suo figlio? Sarebbe vissuto come pastore nell’oscurità per tutta la vita? Era meglio della morte, forse, e il dio che aveva mandato il sogno, e pertanto era responsabile del suo destino, poteva ancora proteggerlo.

    3

    La luce si rifletteva sul mare e sulla pietra bianca in lampi che facevano male agli occhi. Cassandra strinse le palpebre per difendersi dal riverbero e tirò piano la manica di Ecuba.

    «Perché oggi andiamo al tempio, madre?» domandò.

    In realtà non le importava molto. Per lei era una rara avventura avere il permesso di uscire dagli alloggi femminili, e ancora più raramente usciva dal palazzo. Qualunque fosse la meta, l’escursione le era gradita.

    «Andiamo a pregare che il bambino che avrò quest’inverno sia un maschio» rispose piano Ecuba.

    «Perché, madre? Un figlio ce l’hai già. Secondo me sarebbe meglio se avessi un’altra figlia; in fondo siamo solo in due. Io preferirei avere un’altra sorella.»

    «Ne sono sicura» disse la regina sorridendo. «Tuo padre, però, desidera un altro maschio. Gli uomini vogliono sempre dei figli che da grandi combatteranno nell’esercito per difendere la città.»

    «C’è una guerra?»

    «No, adesso no, ma ci sono sempre guerre quando una città è ricca come Troia.»

    «Ma se io avessi un’altra sorella, potrebbe essere una guerriera, com’eri tu da ragazza, e imparare a usare le armi e a difendere la città come qualsiasi maschio.» Poi si fermò a pensare. «Non credo che Polissena potrebbe fare la guerra; è troppo delicata e timida. Ma a me piacerebbe essere una guerriera. Come te.»

    «Certo, Cassandra, ma per le donne di Troia non è usanza.»

    «Perché no?»

    «In che senso perché no? Le usanze non hanno motivi. Sono così e basta.»

    Cassandra lanciò a sua madre un’occhiata dubbiosa, ma aveva già imparato a non discutere quando le parlava in quel tono. Dentro di sé pensava che sua madre fosse la donna più bella e regale del mondo, così alta, d’aspetto forte, con il suo corpetto scollato e la gonna a balze, ma non credeva più che sapesse tutto come la Dea. Nei suoi sei anni di vita, Cassandra aveva sentito qualcosa di simile quasi ogni giorno, e ogni anno ci credeva di meno; ma quando Ecuba parlava in quel modo, sapeva che non avrebbe ottenuto altre spiegazioni.

    «Parlami di quando eri una guerriera, madre.»

    «Io sono della tribù nomade delle donne cavaliere» cominciò Ecuba. Era quasi sempre disposta a parlare della sua vita precedente; ancora di più, pensò Cassandra, da quando era incinta. «Anche i nostri padri e fratelli sono del popolo dei cavalieri, e sono molto coraggiosi.»

    «Sono guerrieri?»

    «No, piccola; fra queste tribù, sono le donne le guerriere. Gli uomini sono guaritori e maghi, conoscono ogni tipo di sapienza e tutto ciò che riguarda alberi ed erbe.»

    «Quando sarò più grande posso andare a vivere con loro?»

    «I centauri? Certo che no; le donne non possono crescere in una tribù maschile.»

    «No, intendo con la tua tribù, le cavaliere.»

    «Non credo che tuo padre lo gradirebbe» disse Ecuba, pensando che questa figlia piccola e solenne sarebbe potuta diventare un’autorità nel suo popolo nomade, «ma forse un giorno sarà possibile. Nella mia tribù un padre ha autorità solo sui figli maschi ed è la madre che decide il destino di una figlia. Dovresti imparare a cavalcare e a usare le armi.»

    Prese la manina liscia nella sua, pensando che non era esattamente una mano da guerriera.

    «Che tempio è quello lassù?» domandò Cassandra puntando il dito sul più alto dei terrazzamenti sopra di loro, a indicare un edificio che scintillava bianco al sole. Da dove si trovavano, la bambina, appoggiandosi al muretto della scalinata che saliva tortuosa, poteva guardare giù e vedere i tetti della reggia con le figurine delle donne che stendevano il bucato ad asciugare, gli alberelli in vaso, i colori vivaci degli abiti e le stuoie dove si sdraiavano a riposare al sole; e poi, molto più in basso, le mura della città che si affacciavano sulla piana.

    «È il tempio di Pallade Atena, la dea maggiore del popolo di tuo padre.»

    «È lo stesso della Gran Dea, quella che tu chiami Madre Terra?»

    «Tutte le dee sono una sola, come tutti gli dei sono uno solo; ma si mostrano all’umanità con facce diverse, in città diverse e in momenti diversi. Qui a Troia, Pallade Atena è la dea in quanto Vergine, perché nel suo tempio, affidato alla cura delle sue vergini, è conservato l’oggetto più sacro della nostra città. Si chiama Palladio.» Ecuba si interruppe, ma Cassandra, sentendo una storia in arrivo, restò zitta come un topolino, quindi la donna riprese a parlare in tono evocativo. «Si dice che la dea Atena, quando era ragazza, avesse come compagna di giochi una fanciulla mortale, la libica Pallade; quando Pallade morì, Atena la pianse a tal punto da aggiungere il suo nome al proprio, cosicché da allora fu nota come Pallade Atena e plasmò un’immagine della sua amica che pose nel tempio di Zeus sull’Olimpo. A quel tempo Erittonio, che era il re di Creta – un antenato di tuo padre, prima che la sua gente venisse in questa parte del mondo – aveva una grande mandria di mille splendidi bovini cari a Borea, il figlio del Vento del Nord, il quale li visitava sotto forma di un grande toro bianco; questi bovini sacri diventarono le divinità taurine di Creta.»

    «Non sapevo che i re di Creta fossero i nostri avi» disse Cassandra.

    «Ci sono molte cose che non sai» ribatté Ecuba in tono di biasimo, e Cassandra trattenne il respiro: sua madre era forse troppo contrariata per finire la storia? Ma il cipiglio di Ecuba fu passeggero, e il racconto proseguì.

    «Ilo, figlio di Erittonio, giunse su queste sponde e qui partecipò ai giochi sacri; ne fu il vincitore e come premio ottenne cinquanta giovanetti e cinquanta fanciulle. E invece di farli suoi schiavi, disse: Li renderò liberi, e con loro fonderò una città. Quindi si mise in viaggio su una nave alla mercé degli dei, e fece sacrifici al Vento del Nord perché lo mandasse nel luogo propizio per la sua città, che intendeva chiamare Ilio; Ilio è un altro nome della città di Troia.»

    «E il Vento del Nord lo fece arrivare qui?» domandò Cassandra.

    «No; in mare venne portato fuori rotta da una tromba d’aria, e quando si ritrovò vicino alla foce del nostro sacro Scamandro gli dei inviarono una di quelle vacche, una bellissima giovenca, figlia del Vento del Nord, e a Ilo giunse una voce che esclamava: Segui la vacca! Segui la vacca! Dove lei si ferma, fonderai la tua città!. Si dice che la giovenca abbia vagato fino all’ansa del fiume Scamandro e lì si sia adagiata; e lì Ilo costruì la città di Troia. Una notte Ilo si svegliò sentendo arrivare dal cielo un’altra voce che diceva: Conserva questa immagine che ti do; poiché finché Pallade risiede all’interno della tua città, la tua città non cadrà mai. Lui si svegliò e vide l’immagine di Pallade, con una conocchia in una mano e una lancia nell’altra, come Atena stessa. Perciò quando la città fu costruita edificò per primo questo tempio, quassù in posizione elevata, lo dedicò ad Atena – che era allora una nuova faccia della Dea, una delle grandi divinità olimpiche, venerata anche da coloro che onorano gli dei celesti e il Signore dei Tuoni – e la rese patrona della città. Atena ci portò le arti della tessitura e i doni della vite e dell’olivo, il vino e l’olio.»

    «Ma oggi non andiamo al suo tempio, madre?»

    «No, tesoro, benché la dea vergine sia anche patrona del parto e io debba fare sacrifici anche a lei. Oggi ci rechiamo da Apollo, il Signore del Sole. Lui è il Signore degli Oracoli; uccise Pitone, dea degli inferi, e diventò così anche Signore degli Inferi.»

    «Dimmi, se Pitone era una dea, come poté essere uccisa?»

    «Oh, immagino sia perché il Signore del Sole è più forte di qualsiasi dea» rispose sua madre, mentre cominciavano a salire il colle al centro della città. I gradini erano alti e Cassandra sentiva le gambe stanche per lo sforzo. Una sola volta si girò a guardare indietro; erano così in alto, così vicino alla casa del dio, da poter vedere al di là delle mura della città, fino ai grandi fiumi che scorrevano sulla piana e si riunivano in un grande flusso d’argento diretto al mare.

    Allora per un attimo le parve che la superficie del mare fosse in ombra, e di vedere delle navi che confondevano il nitore delle onde. Si strofinò gli occhi e disse: «Quelle sono navi di mio padre?».

    Ecuba si voltò a guardare e domandò: «Quali navi? Io non ne vedo. Mi stai facendo uno scherzo?».

    «No, le vedo per davvero. Guarda, una ha una vela grigia… Ah no, avevo il sole negli occhi, adesso non le vedo più.» Gli occhi le facevano male e le navi erano scomparse – o non erano state altro che il riverbero sull’acqua?

    Le sembrò che l’aria fosse così limpida, piena di piccole scintille come un velo sottile, che in qualsiasi momento avrebbe potuto lacerarsi o scivolare via, rivelando uno scorcio di un altro mondo al di là di questo. Non riusciva a ricordare di avere mai visto nulla di simile. Avvertì, senza sapere perché, che le navi che aveva visto erano là in quell’altro mondo. Forse erano qualcosa che avrebbe visto un giorno. Era abbastanza piccola da non considerarlo assolutamente strano. Sua madre aveva ripreso il cammino, e in qualche modo a Cassandra parve che avrebbe disturbato la regina se avesse parlato di nuovo delle navi che aveva visto e che adesso non vedeva più. Si affrettò a raggiungerla, arrancando su per i gradini con le gambe dolenti.

    Il tempio di Apollo Elio, il Signore del Sole, si ergeva oltre la metà del pendio del colle su cui era costruita la grande città di Troia. Era sovrastato solo dalla grande altezza del tempio di Atena, ben più su; ma in sé era il più bello dei templi della città. Era fatto di lucido marmo bianco, con alte colonne da ogni lato, su fondamenta di pietre posate – così Cassandra aveva sentito dire più di una volta – dai Titani, prima che nascessero persino gli uomini più vecchi della città. La luce era così intensa che Cassandra si schermò gli occhi con le mani. Certo, se questa era proprio la casa del Signore del Sole, quale poteva essere la sua natura se non una luce forte e perpetua?

    Nel cortile esterno, dove i mercanti vendevano ogni sorta di cose – animali per i sacrifici, statuette d’argilla del dio, vari cibi e bevande – sua madre le comprò una fetta di melone. Le scivolò deliziosamente giù per la gola, secca per la salita lunga e polverosa. La zona sotto il portico del cortile successivo era fresca e ombreggiata; lì un certo numero di sacerdoti e funzionari riconobbero la regina e la invitarono a entrare.

    «Sii la benvenuta, signora» disse uno di loro, «e anche la principessina. Volete sedervi qui a riposare un momento fino a che la sacerdotessa potrà parlare con voi?»

    La regina e la principessa furono accompagnate a una panchina di marmo all’ombra. Cassandra sedette in silenzio vicino alla madre per un momento, contenta di sfuggire alla calura. Finì il melone e si pulì le mani sulla sottogonna, poi cercò dove mettere la buccia: non sembrava educato gettarla sul pavimento sotto gli occhi di sacerdoti e sacerdotesse. Scivolò giù dalla panchina, trovò un cesto pieno di bucce e scorze di frutta e mise la sua insieme alle altre.

    Quindi passeggiò lentamente tutt’intorno, chiedendosi cosa avrebbe visto e quanto fosse diversa la casa di un dio dalla casa di un re. Quella dove si trovava, chiaramente, era solo la sala d’attesa, dove le persone aspettavano l’udienza; alla reggia ce n’era una simile, dove venivano ad attendere i postulanti quando volevano chiedere un favore al re o portargli un dono. Si domandò se il dio avesse una camera

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