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E-book294 pagine3 ore

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Info su questo ebook

C'è una storia dietro ad ogni finestra. Al di là di ogni tendina colorata, c'è sempre la vita di qualcuno. Nel caso della giovane Rose Turner, quel qualcuno è il suo affascinante e misterioso vicino di casa, Harry. Le loro finestre parallele permettono a Rose di curiosare indisturbata, fino a quando, in una gelida serata di inverno, accade l'irreparabile. La ragione della mente non può niente davanti all'incontro di due anime che navigano sulla stessa linea d'onda. Harry e Rose, entrambi segnati da dolorose esperienze passate, impareranno a costruire il loro rapporto poco per volta. Capiranno insieme che nessun rapporto è in grado di evolversi senza fiducia reciproca. Solo fondendo le paure dell'uno con i timori dell'altra riusciranno a cicatrizzare ferite di vecchia data. Ma il loro amore sarà in grado di resistere anche durante una pandemia mondiale? E quando il peggio sembrerà passato, sarà forse la stessa vita a dividerli per sempre?
LinguaItaliano
Data di uscita6 ott 2020
ISBN9791220223300
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    Anteprima del libro

    Ti fidi di me? - Erica Nicolosi

    Erica Nicolosi

    Ti fidi di me?

    A chi è andato

    e a chi, invece, resta.

    PROLOGO

    "L’amore è così,

    inaspettato,

    decisamente una carogna."

    Mia nonna diceva sempre che il problema è che ci siamo, sempre, anche quando non dovremmo esserci. 

    Il problema è che tutte quelle attenzioni che riponiamo verso gli altri, a volte, le vorremmo per noi stessi. Perché, a pensarci un attimo, è proprio il nostro modo di essere umani a pretendere, quasi, che certe cose siano ricambiate, e sono certa che la vita ci abbia insegnato più volte che quasi nessuno si accorge di quello sbalzo d’umore repentino e immediato, di quella voglia di comprensione.

    La continua ricerca dell’altro solamente per sentirci soli assieme. L’inarrestabile desiderio d’essere lo strappo alla regola, il morboso bisogno di trovare qualcuno diverso da tutti gli altri.

    In fondo, sentirsi tutti diversi da tutti non è già un assomigliarsi?

    Ci scivola tutto dalle mani, terribilmente, e anziché fare qualcosa per dimostrare che non è tutto perduto, ci limitiamo soltanto al evidentemente doveva andare così. L’uomo è proprio questo, ci sono delle volte in cui ha bisogno di affidarsi al fato per giustificare le cattive intenzioni, le scelte sbagliate. La verità è che basterebbe assumersi le proprie responsabilità, entrare nel concetto che non esiste ieri e neppure il domani, esiste l’oggi, e il destino diventa una stupida filosofia per mentecatti, una volta compreso ciò.

    Nonna me lo diceva sempre di non perdere la speranza nelle avversità, che anche i gomitoli più aggrovigliati possono essere srotolati, ma non ha smesso di dirmi «Coraggio Rose, basta solo volerlo e fare di tutto perché si avveri». Alla fine, sei sempre tu a risolvere la matassa, nessun gomitolo tornerà semplice lana sfusa da solo.

    C’è una storia dietro a ogni finestra. Al di là di ogni tendina colorata, c’è sempre la vita di qualcuno. Nel mio caso, quel Qualcuno era il mio vicino di casa, Harry.

    Le nostre finestre parallele mi permettevano di assistere curiosamente al casino che era la sua esistenza, e il tutto, in pochi mesi, divenne il mio spettacolo preferito.

    Fino a quando, in una gelida notte d’inverno, vidi qualcosa che mi avrebbe cambiata per tutta la vita. Per tornare indietro, era troppo tardi.

    L’amore è così, inaspettato, decisamente una carogna. Cupido può decidere di scagliare la sua freccia e dar vita a un amore stupendo, infinitamente intenso, ma nel momento sbagliato.

    1

    I sogni sono l’appagamento camuffato di un desiderio rimosso

    – Sigmund Freud –

    È impossibile non avere paure,

    e chi dichiara che sia così,

    è solo troppo debole

    per ammetterlo a sé stesso."

    C’erano dei momenti in cui la mia testa si spegneva del tutto, come uno di quei blackout nei film di Hollywoodiani. Sentivo la necessità di sdraiarmi, di riprendere fiato.

    A volte mi sembrava che fosse tutto un po’ troppo.

    Guardavo in alto e vedevo il soffitto spoglio della mia stanza a cui erano attaccate quelle stelline olografiche per bambini. Erano lì sin dal mio terzo compleanno. Nessuno ha mai pensato di riprendere la scala da Nana Betty per rimuoverle. Comunque sia, immaginavo sempre di vedere l’azzurro, o il grigio, o il nero. Non ho mai riflettuto troppo sulla vastità di emozioni che quest’ultimo colore è capace di contenere. Sin da piccoli ci è stato descritto come la tinta cromatica dell’oscuro, dell’ignoto, del malvagio.

    Arriverà il lupo nero se non farai la brava.

    Ad essere sinceri, il bianco mi ha sempre terrorizzata di più. Quell’assenza di tonalità mi metteva i brividi. Il nero assorbe, non riflette la luce. Tiene per sé tutti i raggi solari, senza restituirli al mondo circostante. È egoista e presuntuoso.

    Nelle tribù Masai del Kenya e in Tanzania, il nero è associato alle nuvole che portano la pioggia, diventando un simbolo di vita e prosperità. Vita e prosperità. È il colore della biglia numero 8 in un gioco di biliardo denominato ‘Palla 8’. Questa, per l’appunto, è l’ultima che deve essere imbucata, ma se accidentalmente cade dentro una buca, determina la sconfitta istantanea. È tutto o niente. È la tregua dopo il tornado, il silenzio dopo il frastuono. L’ignoto.

    A furia di sentirmi assorbita dalla monotonia che mi circondava, sentivo di essere diventata parte integrante di questo vuoto cosmico che non lasciava spazio, non mi lasciava spazio. Quando tutto era troppo e io immaginavo tutte queste cose, era come se fossi adagiata su un campo verde e rigoglioso; un po’ come se mi ci disperdessi dentro.

    Continuavo a ripetermi Respira Rose, respira.

    Così permettevo all’aria di trascinarmi verso la calma apparente, mente lo sterno si gonfiava e sgonfiava come un palloncino, e mi andava bene così. Riuscivo a sentirmi libera per una frazione di secondo. Normale, come una qualsiasi diciottenne dovrebbe essere.

    Tutto andò nettamente meglio quando Harry fece capolino nella mia vita e mi risollevò dal basso senza lanciare nessuna corda, nessuna scala.

    "L’amore ci rende liberi, piccola" diceva quando provavo a spiegargli il mio senso di appagamento in sua compagnia, anche se, in realtà, il nostro era più imprigionante di mille catene; e più credevo di volare in alto, più sprofondavo nell’oblio infernale. Mi sembrava che la sua presenza fosse una fortezza indistruttibile, infinita, capace di reggere tutto il mio peso.

    Bastarono pochi gesti per far nascere in me un’assoluta fiducia, talmente tanta da appoggiare la mia esistenza totalmente e incondizionatamente su di lui.  

    La mia storia, quella che sto per raccontarti, inizia sotto le festività natalizie di quell’anno. Per tua fortuna, ho sempre odiato le autobiografie troppo accurate e dettagliate, perciò non ti rifilerò niente del genere. Non ti presenterò i miei genitori e nemmeno i miei amici d’infanzia, niente descrizione delle prime feste in famiglia e del primo giorno di scuola. Puoi già sintonizzarti sul canale Albero di Natale e nastrini dorati.

    Perciò mettiti comodo, non avrai pagine da saltare e ignorare per arrivare al dunque, ci sei già.

    «Bene». Mia madre piazzò l’ultima valigia blu davanti all’ingresso, mentre Adam caricava i bagagli in macchina.

    Nora era il classico genitore assente, divorziata, con la relazione sentimentale impegnata su Facebook.

    Adam, il suo compagno, era un tipo a posto. Voglio dire, non che mi facesse piacere la sua biancheria sporca diffusa in bagno, anzi, odiavo vederlo girare in mutande e calzettoni la domenica mattina, odiavo il fatto che dicesse È chiaro ragazza! in ogni singolo discorso, detestavo che mia madre avesse fatto un nuovo inventario della dispensa perché aveva dichiarato di essere vegano, ma fingeva di preoccuparsi per me. E io fingevo di sopportarlo. 

    Quel Natale avrebbero passato le vacanze fuori città, mentre io sarei restata nella mia casa vuota. Non che io non desiderassi staccare la spina per un po’ e lasciare la grande metropoli, ma era il loro primo anniversario e avevo intuito che desiderassero passare una vacanza intima.

    «Noi andiamo. Ho lasciato il pollo in frigo per stasera. Nana è una persona anziana, non farla disperare».

    Nana Betty, madre di mia madre, viveva nel palazzo di fronte e odiava la marmellata alle ciliegie. Aveva un apparecchio acustico e teneva il volume del televisore costantemente a ottanta. Un tempo praticava riti voodoo: sedute a pagamento. Casa sua sembra il covo di una strega, ma potrei paragonarla a una fatina dei desideri, più che a una cattiva persona.

    Nora guardò la sua immagine nello specchietto tascabile un’ultima volta, poi lo richiuse riponendolo in borsa.

    «Sì».

    «Non faremo ritorno prima di metà gennaio». Portò alla bocca una di quelle caramelline aspre e rosse, e per un attimo sperai che ci si strozzasse.

    «Ok». Scrollai le spalle portando le mani incrociate dietro la schiena.

    Il suono del clacson della BMW di Adam attirò la nostra attenzione, lui era già al volante e Nora si affrettò a raggiungerlo.

    «Divertitevi» feci a entrambi, sforzandomi di dire qualcosa di ‘normale’, con una gran voglia di chiudere la porta alle mie spalle per godermi un po’ di privacy e libertà.

    «È chiaro, ragazza! Fai la brava». Sì Adam, sì. Felici vacanze invernali, cara me.

    Non appena sentii il motore allontanarsi dietro al vialetto, realizzai davvero di essere sola. Sarei stata sola a casa per oltre un mese. CASA LIBERA. PER TRENTA GIORNI. Se avevo intenzione di organizzare mega rave scatenati? Non lo sapevo ancora, di certo non lo feci per i primi giorni, che effettivamente furono parecchio noiosi e un po’ malinconici.

    La prima notte controllai ben tre volte che le porte fossero realmente chiuse bene, non ero una fifona ma… Beh, forse lo ero. Non avevo di certo intenzione di filosofeggiare nella mia mente fino alle cinque del mattino, ma fu proprio ciò che accadde.

    Mi chiedevo chi ci pensa mai alle persone rotte. A quelle stanche, a pezzi, a quelle che non guardano più l’orizzonte perché non aspettano una prossima alba. A chi lotta ma non molla, a chi sta male ma non lo dice. A chi sprofonda dentro un letto, a chi si perde dentro sé stesso. E non fidatevi delle apparenze, perché chi sembra forte e veloce probabilmente sta solo fuggendo dalla tristezza, dal tormento di ricordi passati. Alcune persone piangono e muoiono dentro allo stesso momento, come un lampo nel cielo che vibra nel petto. Esistono sorrisi che non fanno rumore e pianti silenziosi che creano tristezze assordanti. Si sentono sole, queste persone, e rincorrono sempre l’amore sbagliato, un pensiero impossibile, un bacio rubato. Sono fantastiche queste persone perché sperano sempre in un giorno migliore. 

    I primi giorni dopo la partenza di Nora e Adam furono tranquilli.

    Mangiai messicano al negozio in fondo alla strada, dormii sul divano, portai il cane di Nana a fare i suoi bisogni, andai qualche volta per tenerle compagnia, un pomeriggio blaterò qualcosa riguardo a una questione maligna e pericolosa, le consigliai di non saltare più la medicina del giovedì. La sera seguente a quella strana discussione, mangiai cinese e vomitai tutto durante la notte, poi dormii ancora. La prima vera socializzazione col mondo esterno arrivò qualche giorno dopo, quando mi recai agli incontri collettivi della TCC. Avevo saltato gli ultimi appuntamenti, devo ammetterlo.

    Il mondo mi sembrava squallido da far schifo. Tutto uguale, insipido come una minestra per ipertesi. Mi buttavo nelle cose per non pensarci; se ti concentri in qualcosa, non ci pensi. Secondo il dottor Patterson questo non significava poter tirare un pugno sui denti alla stronza della mensa, ma era solo una sua opinione, a mio avviso.

    Il dottor Patterson pensava un mucchio di cose.

    La TCC, psicoterapia cognitivo–comportamentale, è una forma di terapia psicologica che si basa sul presupposto che vi sia una stretta relazione tra pensieri, emozioni e comportamenti. Sempre secondo il dottore, alcune volte i pensieri che abbiamo su noi stessi, sugli altri o sul mondo possono essere disfunzionali, cioè possono distorcere la realtà delle cose. A dirla tutta, non credevo di possedere pensieri distorti. Pensavo solo di aver capito come girava il mondo, e io odiavo le giostre che girano, girano, girano e basta. Dovrebbero abolirle da ogni Luna Park, sono una truffa, non è giusto, e questo lo penso ancora. Le montagne russe, invece, sono una vera figata, emozioni forti, sincere.

    La società non poteva essere abolita solo perché non mi rispecchiava, era chiaro.

    Ma io non dovevo per forza rispecchiarmi in essa, no?

    Non mi sentivo a disagio nel frequentare gli incontri collettivi, mi annoiavano parecchio, ma, per quanto mi costasse ammetterlo, mi stavano aiutando molto e le mie crisi di nervi erano pressoché sparite. Il confronto con gli altri non mi spaventava e neanche ciò che pensava il dottore sul mio conto. Potevo sembrare effettivamente menefreghista, ma non era del tutto così.

    Decisi di specchiarmi prima di uscire da casa, il mio volto sembrava stanco ma avrei giurato di non esserlo. Forse avrei dovuto sorridere di più, mi avrebbe dato un’aria più rilassata. La salopette di jeans che decisi di indossare era abbastanza comoda, a differenza delle Dr. Martens che calzavo ai piedi. Google Maps mi guidò fino alla meta, il dottore aveva deciso di cambiare luogo d’incontro, scegliendo un indirizzo più vicino al centro città, a me però sconosciuto.

    Con mio grande stupore mi ritrovai davanti a una villetta singola. Casa sua?

    Decisi di suonare il campanello senza stare troppo a pensarci.

    «Rose, carissima! Ti stavamo aspettando, entra pure». Il dottor Patterson si materializzò davanti alla porta, mi lasciò entrare e poi la richiuse dietro di noi.

    Dai quadretti appesi sulle pareti potei constatare che sì, era proprio casa sua. C’erano fotografie ritraenti lui con le figlie, lui a pesca, la sua laurea in formato extra large, lui sorridente e basta. Egocentrico.

    Un piacevole odore di torta alle mele invase le mie narici, ma prima che potessi realizzarlo davvero, il dottore mi condusse gentilmente verso il salone.

    Cinque o sei ragazzi e ragazze erano seduti a semicerchio, a gambe incrociate sulla moquette scura. Proprio come un merdosissimo film della Fox.

    Mi guardarono tutti, impazienti.

    Forse si aspettavano che dicessi qualcosa, come per esempio Ciao a tutti, scusate il ritardo… Beh, non lo feci. Mi affrettai a sedermi insieme a loro, alla destra di un ragazzo dai capelli rossi che non avevo mai visto prima.

    «Bene, eccoci qui. Oggi abbiamo con noi un nuovo arrivato, benvenuto James. Puoi chiamarmi Giorgio da adesso in poi, cerchiamo di costruire un rapporto confidenziale. Sarà più facile».

    Molto bene dottore, Giorgio, signor. Patterson, o come vuole lei.

    Mi stavo già annoiando.

    «Direi di iniziare con le presentazioni, così da coinvolgere James. Parliamo di noi, cosa ci piace e cosa no, cosa ci fa paura, e cosa invece non temiamo. Senza timore, siamo qui per ascoltarci. Inizia tu Rose, prego».

    Giorgio mi passò così la parola, tutti gli occhi si puntarono su di me.

    Misi ritta la schiena assumendo una postura corretta.

    «Ciao James, benvenuto in questo incontro pseudo alcolisti anonimi. Sono Rose Turner, porto il cognome di mia madre e mio padre non l’ho mai conosciuto. Non sopporto stare seduta per terra, in cerchio, lo trovo ridicolo. Forse Giorgio non ha abbastanza sedie in casa, chi lo sa» dissi provando a essere simpatica, ma nessuno rise alla mia squallida battuta. Generai solo imbarazzo, e la maggior parte dei presenti mi guardava in maniera accigliata.

    «Ok, pessima battuta, lo ammetto. Comunque sia, mi piacciono le salopette, ne ho a decine, alcune hanno lo stesso colore ma vestibilità diversa. Adoro il cibo messicano. Odio la musica commerciale, ridere quando non ho nulla per cui farlo ma sono obbligata comunque. Le prugne mi provocano un’allergia tremenda. Non ho paure. Trovo che la morte sia una condizione parallela alla vita, se ci sei tu non c’è lei e viceversa, perciò neanche morire mi spaventa». Finsi un sorriso a trentadue denti, in modo che si intuisse che fosse del tutto sarcastico.

    Giorgio sembrò attonito, un attimo impreparato, come se non sapesse che dire.

    «Molto bene Rose.  Andiamo avanti, chi vorrebbe presentarsi adesso?»

    «Io vorrei rispondere». James alzò la mano e mi toccò girarmi verso di lui per guardarlo bene e non con la coda dell’occhio.

    I capelli corti color carota contrastavano i suoi occhi scuri.

    «Sono James, ho vent’anni. Penso sia presuntuoso affermare di non possedere nessuna paura. È impossibile: chi dichiara che sia così è solo troppo debole per ammetterlo a sé stesso. La TCC mi ha aiutato con il disturbo post–traumatico da stress. Ora va meglio. È questa la cosa che amo, guardare a un futuro migliore. Non voglio abbandonarmi alla vita come se fosse tutto inutile. Odio non avere la patente, ma ci sto lavorando – abbozzò un sorriso – e poi, per finire, ho paura che mia madre possa non essere orgogliosa di me. A volte penso che meriti un figlio più diligente, questo mi stimola sempre a migliorarmi».

    «È stupendo James, hai fatto passi da gigante. Sono orgoglioso del tuo percorso. Mi rendi fiero ragazzo».

    Dopo le parole di James, evitai di guardarlo in ogni modo.

    «Non voglio abbandonarmi alla vita come se fosse tutto inutile» aveva detto.

    È stata dura digerire le sue parole. E se avesse avuto ragione? Se fosse impossibile non avere paure? Allora quali erano le mie, cosa poteva spaventarmi? Ci pensai a lungo da quel pomeriggio. Fu come se qualcosa, dopo quell’incontro, mi avesse segnato.

    Giuliana, simpatica ragazzona con la quale avevo scambiato due chiacchiere negli incontri precedenti, alzò la mano subito dopo.

    «Sono Giuliana, ciao James. Mi risulta difficile parlare di me, soprattutto in questo contesto, però posso dire di essere una vivace babysitter che cerca disperatamente di mantenersi gli studi. Soffro di disturbo ossessivo compulsivo, ma, all’infuori di qui, non amo raccontarlo. Questa etichetta è proprio ciò che da un lato mi ha dato sollievo, dall’altro una sorta di condanna, la sensazione di sentirmi malata. Ecco, insomma, non lo sopporto.» Terminò di dire quando il dottore prese la parola.

    «A proposito di questo, ciò che ogni persona affetta dal DOC ha bisogno di sapere è che questo non è invincibile. Tutt’altro. Come abbiamo detto più volte, ci vogliono molto lavoro e tanta pazienza. E noi siamo qui per questo, per lavorare su noi stessi. Prego Giuliana, vai pure avanti.» Si scambiarono sorrisi sinceri pieni di fiducia, poi Giuliana riprese il suo discorso.

    «Ho paura di avere paura. Questo credo sia il mio più grande timore, scusate il gioco di parole. E poi, penso che sia molto difficile affrontare la paura dall’interno. Insomma, si ragiona con gli stessi meccanismi che l’hanno generata. Perciò come se ne può venire a capo? Mi spiego? Non sono brava con le parole, scusate. Amo… non lo so, mi

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