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Vita degli anfibi
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E-book272 pagine3 ore

Vita degli anfibi

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La scomparsa di un padre, una bambina che lo attende. La speranza di un ritorno che si trasforma nel tempo in qualcos’altro, un’indagine ideale che si muove lungo le rive di un lago e gli spazi del non detto. Una sparizione che non trova giustificazioni se non nella misura della distanza tra i membri di una famiglia che, come tante, è andata in pezzi. Una vita a metà, ambigua e bivalente come quella degli anfibi, capaci di procedere verso la terraferma pur restando indissolubilmente legati all’acqua che li ha generati. L’estate delle rane arriva a seminare falsi ricordi, a stravolgere l’esistenza di madre e figlia. Allora cercare un uomo diviene cercare un senso, nel tentativo disperato di colmare l’assenza per raggiungere la fase adulta attraverso una metamorfosi dolorosa e irrinunciabile. In "Vita degli anfibi", Piero Balzoni padroneggia abilmente, grazie a uno stile candido ma al tempo stesso feroce, la tematica della memoria. Restituisce lacerti di ricordi che scavano voragini nell’intrecciato temporale della protagonista e restano impressi lungo il solco di un impietoso enigma.
Proposto da Paolo Di Paolo al Premio Strega 2023 con la seguente motivazione:
«Come ogni autentico scrittore sa, un romanzo si gioca tutto sulla voce. Quella che prende possesso della pagina in Vita degli anfibi di Piero Balzoni non è solo persuasiva e avvolgente, ma è anche portatrice di una speciale intelligenza narrativa. È insieme la voce di una bambina, di una ragazza, di una donna; condensa tempi diversi di una stessa vita (come d’altra parte è per una voce umana reale) facendo avvertire lo scarto fra l’uno e l’altro, come un’intermittenza o un singhiozzo. Questa voce racconta un’assenza, la interroga, la analizza: un padre che all’improvviso scompare, si sottrae, e non lascia traccia. La figlia cresce in una orfanezza che suppone e pretende che sia transitoria: insistendo a cercare indizi, segni, nei giornali e dappertutto. Aspetta, e in quell’attesa il tempo passa, e produce memoria. La vera sostanza di queste pagine, e di ogni impresa letteraria. Il paesaggio lacustre interviene, parla, ma con una sua lingua indecifrabile. È affascinante come Balzoni – per via di stile – riesca a impedire al suo stesso romanzo di farsi risoluzione di un enigma. Perché la posta in gioco è più alta, e più emozionante; la sfida è raccontare in modo inusuale come si cresce, o si comincia a invecchiare, nell’epoca prolungata di una perdita, nell’essere e restare senza qualcuno. Monchi, spezzati. La verità non riguarda solo i personaggi: rimanda ai lettori la sensazione di essersi visti allo specchio – nell’attendere (futuro o già in corso) chi non può tornare. E misteriosamente, quasi inspiegabilmente, seguitando a vivere.»
 
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2023
ISBN9788893332477
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    Anteprima del libro

    Vita degli anfibi - Piero Balzoni

    Parte uno

    1.

    Di tutte le figlie sono stata la peggiore. Di tutte le figlie possibili, di tutti i fratelli e le sorelle che non ho mai avuto, di quelli conosciuti e degli altri, dei dimenticati.

    Una stella triste, un astro mai nato.

    Perderti è stato un giro di altalena. Papà più forte, più forte. Le tue mani sulla schiena, il respiro dietro il collo. Volo in alto a occhi chiusi, le mani sudate strette intorno alla catena, un soffio al cuore, lo stesso tra i capelli. Ancora, papà. L’altalena va su, l’altalena va giù. Mi lascio andare all’indietro e non sento le tue mani. Non ci sono. Non c’è nessuno dietro di me, soltanto alberi neri seccati dal sole e fili d’erba ridotti in cenere. Sei sparito nel giorno del mio compleanno e io non ho pensato, quella mattina, che avrei dovuto ricordarti il maglione marrone. La sera faceva freddo, la temperatura era calata tutta insieme e di notte la grandine si era ammassata sulle piante del giardino, davanti alle porte, lungo i bordi delle finestre, negli angoli del caseificio dove le rane avevano i loro nidi.

    Mi ricordo le ricerche della polizia, quanto è alto, a che ora l’avete visto uscire, sapete se aveva qualche impegno? E mia madre li guardava, mi guardava ed era rimasta a ragionare soltanto sulla prima domanda. Non ci aveva mai pensato, non sapeva quanto fosse alto papà. Statura media, forse più alto della media.

    Guardate, io vi ho chiamato soltanto per scrupolo.

    Cinque giorni fa, ha detto?

    Sì, era il compleanno della bambina.

    Lampo e Balena abbaiavano quando dalla strada sentivano il rumore delle persone che si avvicinavano. Gli ispettori erano gentili con me, sorridevano e mi domandavano se stavo bene. Quello e nient’altro, come se io con i miei discorsi e le cose che avevo da dire non potessi dare nessun contributo vero, non fosse possibile grazie a me ritrovare mio padre. L’ho visto, gli dicevo, eravamo insieme, portava le matite colorate nel taschino e gli stivali con la fibbia e ha sempre fame, io lo so quanto è alto. Ma loro andavano da mia madre a dirle che avrebbe dovuto farmi riposare.

    Fratelli ne ha?

    È figlia unica, abbiamo voluto solo lei, abbiamo avuto volevo dire.

    Dal paese erano venuti a trovarci e portavano tutti da mangiare. Tutti questi sconosciuti volevano regalarci qualcosa che riempisse la perdita. Cose che nemmeno si potevano coltivare, c’era il divieto. Divieto di raccogliere, di piantare. Divieto di mangiare, di parlare.

    Sentivo le voci arrivare dal basso. Vorticavano sulle pareti della mia stanza come i girini del lago nei barattoli sopra alla scrivania. Di notte, alla luce della lampada, sembravano spiriti che nuotavano nell’aria, ombre cinesi sulla parete scorticata. Il girino va giù, il girino va su.

    Gli ispettori la tranquillizzavano.

    Signora, noi crediamo che sua figlia non ricordi bene.

    Certo che non ricorda. È piccola.

    Però è rientrata a casa da sola.

    Dal cortile qui davanti, sì.

    E lei non le ha chiesto niente.

    No. Sul momento, no. Però adesso sono passati giorni, non è normale. Nemmeno per lui.

    Noi per ora non chiediamo altro alla bambina.

    Ma forse è meglio così, non vorrei che poi da grande

    E un rumore di sedie strusciate sul pavimento copriva il resto della frase, rimaneva soltanto un moncone senza senso.

    Se la bambina dorme vorremmo disturbarla per un’ultima cosa.

    Aspettate.

    Allora lei si sollevava di scatto dal divano, scuoteva la testa come se si fosse appena ricordata di me, della bambina.

    Vado a vedere come sta.

    Mamma arrivava con la tazza di latte, quella sbeccata della prima colazione, e io ferma immobile dentro al letto. Non dormivo, aspettavo di sentire il profumo della pasta rifatta in padella, il profumo di papà che torna a casa dal lavoro. Lavorava anche quando eravamo nella casa delle vacanze, sapeva fare tutto. Di tutto un po’, dicevo io, cioè niente di una cosa soltanto, aggiungeva lei. E noi da sole nel caseificio che cresceva dalla terra e dai sassi e di terra e sassi sembrava fatto. Le piante rampicanti erano mani di vecchia che lo tenevano piantato al suolo come un reame dimenticato. Le crepe, nervature d’odio sui muri. Una riga di tegole sbilenche a separarlo dal cielo, un tetto ricurvo come la schiena degli asini. Vuote le stanze, sbarrate le imposte, riposava in silenzio nell’odore del lago, una stagione dopo l’altra. D’inverno era secco e scuro, un animale in letargo. D’estate si accendeva della vita che gli soffiavamo dentro noi.

    Hai dato da mangiare ai cani?

    No, mamma.

    Dai da mangiare ai cani.

    Io non ce lo vedo con un’amante, diceva mia madre agli ispettori, faceva no con la testa. Avrà fatto qualche stupidaggine. Caricava un’altra macchinetta del caffè.

    Non si sa mai che cos’ha in testa ma non dà fastidio a nessuno, chiedete in giro. Ha una bambina, siamo la sua famiglia, non ci ha mai lasciate veramente. Non lo ha mai più fatto.

    Come ha detto?

    Tanti anni fa, era successo una volta che se ne andasse.

    Era già scomparso?

    Ma poi è tornato, tempo un paio di giorni.

    Questa volta ne sono passati cinque.

    E dopo un sussurro, lei che dice qualcosa agli ispettori, un’altra frase vuota, una frase che non ho sentito ma era riferita a me.

    È per il suo bene.

    Mia madre avanti e indietro da una stanza all’altra e loro a valutare il fatto. Io pensavo al mio regalo, a quello che avrebbe dovuto portarmi papà. Dopo le altalene, tornati al caseificio.

    Un uomo non scompare così da solo mentre sta in vacanza.

    Non sono nemmeno di qui, non sono del paese. Sono quelli del caseificio, quelli che d’estate fanno la guardia.

    Lui qui ci ha vissuto solo da bambino, lo trattiamo ancora come un estraneo.

    Tranne Alice della farmacia.

    Ma perché, si conoscono?

    Certo.

    Non so, non si scompare in vacanza. La figlia compiva gli anni.

    Perderti è stato un giro d’orologio a vuoto, una fila di tacche rosse e blu sul muro del corridoio. Tutte le mie altezze di bambina, tutte le paure di mia madre. Tutte le estati al caseificio. Il tempo vissuto sta negli spazi bianchi. Tempo che cresce come gramigna e si mangia tutto il resto. Dove ti avrebbero cercato? Ma ti avrebbero poi cercato veramente oppure era una favola?

    Come quando mi dicevi che i bambini nascono sotto ai cavoli, il dio del lago ce li porta e i genitori vanno a prenderli. E tu arrivavi a raccogliermi e nelle tue mani abbandonavo la terra, le tue dita come radici di carne.

    Prendete un altro biscotto. Non ci ha volute abbandonare, ve lo giuro.

    L’altalena va su, l’altalena va giù.

    Io quel giorno avevo rifatto il letto e spazzolandomi i capelli avevo guardato il mio naso, una spiga stretta tra due spilli di ambra, i miei occhi gialli e vicini, gli occhi di mio padre. Papà diceva che la natura riproduce se stessa all’infinito, quindi io e lui siamo l’infinito.

    2.

    Di notte immaginavo di essere l’ospite della cattedrale che riposava in fondo al lago. C’erano i corridoi infiniti e lampadari che dal soffitto sfioravano la mia testa. I pendenti erano crostacei d’acqua dolce appesi per le code a ondeggiare nel vuoto e quando la sera soffiava il vento toccandosi tra loro emettevano un rumore di cristalli. Le posate avevano manici di corallo e se le sfioravo con il dito si ritraevano come corna di lumaca e il dio del lago riposava nel silenzio.

    Certe volte il caseificio si piegava su se stesso come se fosse fatto di carta, un origami bruciato dalla fiamma di un accendino e lo spazio che prima disegnava distanze e ambienti collassava su se stesso con un suono di castagne cotte sulla brace. Quelle volte papà era dentro di me. Papà che mi raccontava la storia del dio del lago, papà che sapeva far parlare le bambole e io che lo guardavo mentre ci riusciva. Papà che costruiva regali per me e li avvolgeva nella carta di giornale perché la sorpresa era quello che contava.

    A volte aspettavo fino a tardi per ascoltare il rumore delle cavallette in cortile. Le mascelle indaffarate come sciabole sugli avanzi delle nostre cene, sui piatti abbandonati sopra il tavolo. All’inizio io e mia madre aspettavamo in silenzio. Prima per ore, poi per giorni. Vestendoci, lavandoci, smettendo di mangiare fino a quando non vedevamo un pacco di uova sul tavolo, qualcuno le aveva portate, una signora anziana che diceva dovete farvi forza e mia madre che accoglieva tutti con gentilezza, cambiava argomento.

    Sembra strano, lo so, diceva a chi arrivava al caseificio. E intanto metteva su un altro caffè, offriva quel che c’era, parlava di com’era ancora bello il lago anche se continuavano a tormentarlo.

    E i poliziotti spaesati andavano di corsa dal commissariato al caseificio, la strada battuta due volte al giorno, tre volte al giorno. Venivano la sera tardi a fare sempre le stesse domande. Si guardavano intorno, sfioravano con le dita i tasti del pianoforte in soggiorno.

    Un’ultima cosa. Sa per caso se suo marito aveva un fucile? Magari ci sono armi in casa.

    Assolutamente no.

    Qualcuno va a caccia, qui in paese. Suo marito è mai andato?

    Una volta sola, ha sparato. Ma era con un amico. E mai agli animali.

    Niente pistole sue. Anche non registrate.

    Io non credo proprio che lui

    Capisco. Però abbiamo parlato anche con sua madre, in città. Lei dice che da ragazzo,

    cioè non proprio da ragazzo ma anche quando è cresciuto, suo figlio

    Non è il tipo. Certe volte fa lo spaccone ma non è il tipo da tenere un’arma in casa.

    Sollevava le spalle come a doversi giustificare, parlare di queste cose era un fatto imbarazzante e poi in fondo non c’entrava con le indagini. Sua madre diceva che ogni tanto aveva sparato. Ma cosa ne sapeva lei, proprio lei che il figlio aveva smesso di vederlo. Non lo chiamava mai, non lo invitava a pranzo, a cena. Neanche lui, è vero. Ma un figlio può sbagliare.

    Era solo un’idea.

    Ma poi, scusate, mio marito non si è mica suicidato.

    Noi facciamo delle ipotesi, signora.

    Allora avete trovato un corpo.

    Non abbiamo trovato niente, non si preoccupi.

    Era la notte che cambiava tutto. Di notte mia madre restava sveglia ad ascoltare il respiro del caseificio vuoto, con Balena che dormiva ai suoi piedi e lei che lo carezzava come un bambino. Sperava che non fossimo davvero rimaste sole. Anche se intorno non c’era nient’altro che silenzio e buio di campagna. Stava come una vecchia seduta alla finestra, la mano a sostenere il mento, strizzando gli occhi in una espressione perplessa. Si alzava, tornava a sedersi. Vecchi litigi su questioni domestiche si erano risolti in un letto vuoto e un armadio di vestiti inutilizzati.

    Mamma aspettava l’alba, preparava altre cose da mangiare, scaldava il forno e arrivava a lavarmi e cambiarmi. Soltanto il viso, mani e piedi. Nel terrore di doversi occupare di me per sempre, temendo che non sarei mai cresciuta, non sarei mai diventata grande. Quanto ero alta? Quanto mancava ancora prima che potessi iniziare io a occuparmi di lei? Un’altra tacca sul muro.

    Faccio io, mamma.

    Lascia stare. Hai fame?

    Ancora no.

    Mamma scaldava il latte in un pentolino, apriva un frutto a metà. Che fosse sera o mattino, si mangiava quel che c’era, quello che capitava a portata di mano. Sciacquava di nuovo mani e piedi, mi vestiva senza spazzolare i capelli, una maglietta rossa, una maglietta viola, sempre le stesse scarpe. Una notte l’avevo vista preparare qualcosa, c’era della farina nel piatto e tentacoli sul tagliere. La mattina avevo trovato tutto nella spazzatura. A pranzo i mandarini, a cena altre uova o pasta all’olio, poi in cortile a giocare ancora un po’. L’attesa di mio padre era diventata l’attesa di mangiare, riposarsi, lavarsi, dormire. L’altalena va su, l’altalena va giù.

    Qualcuno passava sempre a trovarci e il caseificio era pieno di cibo, il pane fresco, i pomodori, scatole di cereali e tazze di brodo di pollo che invecchiavano in frigorifero, una pellicola gialla da sollevare con la forchetta. Ma soltanto io mangiavo, lei no. Qualcuno diceva che era per pudore. Quando c’è un lutto in casa nessuno se la sente, di mangiare. O bisogna farlo credere. Alice della farmacia ringraziava al posto nostro, sistemava come poteva e dopo usciva anche lei, senza che ci scomodassimo a salutarla. Appariva e scompariva. Lampo e Balena di pomeriggio prendevano il cibo dalle sue mani, mia madre si era raccomandata di farli mangiare, e mi chiedevo come avesse fatto, come fosse riuscita a convincerli. Solo con noi lo facevano.

    Grazie Alice che ci aiuti.

    Le avevo detto un giorno mentre usciva per buttare la spazzatura. Lei si era fermata a metà strada col sacco nella mano e con l’altra si era grattata il naso sorridendo e quel suo naso mi era rimasto dentro come il ricordo più vivo del fatto che mio padre non c’era più.

    A volte di giorno mia madre rimaneva distesa a letto per ore senza una ragione. Io scendevo le scale e rimanevo a guardare Alice che sistemava la cucina, rinfrescava il cortile gettando secchi d’acqua che evaporava subito. Stavo sul gradino e aspettavo che finisse. Dopo veniva a sedersi accanto a me e insieme parlavamo della volta in cui mio padre diceva di aver fatto il giro del lago a nuoto e quando era tornato i suoi vestiti non c’erano più. A tutte e due aveva raccontato la stessa storia. Oppure di quella volta in cui aveva trovato una fata nel bosco e lei gli aveva preparato un dolce di nocciole. Una cosa così buona non l’aveva assaggiata mai.

    Dragate il lago, dicevano in paese, il furgone sta là, dopo quella brutta curva. Dentro non si vede niente perché l’acqua è marcia. Pescare anguille è come stanare vermi. Due settimane che cercate a vuoto, perché state ancora cercando un vivo. È il morto, che dovete cercare. Un marito ritorna, un padre ritorna. Guardate nei crepacci, vedete se non è scivolato lungo il sentiero nel bosco. Sono quelli della centrale idroelettrica, lui aveva chiesto lavoro lì, mi pare. Dicono che andava a pesca, è stato il dio del lago.

    E mentre gli altri, la polizia, la gente del villaggio, tutti ti cercavano chissà dove, una sera avevo sentito mia madre che rideva da non potersi più fermare. Rideva e rideva davanti alla finestra spalancata e io da sopra la sentivo. La sua risata da rana.

    Mamma?

    Ma non mi rispondeva. Papà non c’era più e forse per lei nemmeno io c’ero più. Era finito il tempo dello scrupolo, delle rassicurazioni, delle chiamate alla polizia fatte soltanto per togliersi una curiosità. C’era soltanto quella risata. Una risata sonora e allungata che si perdeva nelle campagne di notte.

    3.

    Trascorrevo la mattina sulla sponda del lago, dove l’acqua era più chiara e il fondale un letto di sassi verdi e marroni. Adesso vedevo dappertutto gente che rideva. Rideva per i motivi più incredibili, per le cose serie e per quelle stupide. Le bambole sedute in cerchio sulla riva mi guardavano con i loro volti da streghe tradite, erano vive nei loro corpi di pezza e nel loro sorriso eterno ridevano di me. Il cielo rideva, i pesci ridevano. Piluccavano la melma sul fondale, le briciole che conservavo per loro. Mangiavano per tutto il giorno, forse anche per tutta la notte e una volta mi era capitato di vederli mangiarsi tra loro. Papà diceva che i pesci non hanno memoria, non possono ricordare le cose e per questo non hanno coscienza, quindi bisogna perdonarli di tutto. I pesci sono cose preziose, diceva. Le più preziose che l’acqua ci abbia mai regalato.

    Catturavo i girini con i barattoli e li nascondevo tra gli scaffali della dispensa, li coprivo con un telo e chiudevo lo sportello. La luce li rendeva frenetici. Una notte mi ero svegliata per vedere cosa facevano. Dal letto mi sembrava che anche loro ridessero. Avevo aperto l’anta della dispensa e con la luce che veniva dalla fessura avevo guardato sopra agli scaffali. Dormivano.

    Mi pare che a catturarli mi avesse insegnato papà un giorno in cui gli avevo detto che mi annoiavo. Avevamo portato i bicchieri di plastica per il picnic e ogni volta che pescavamo qualcosa, esserini senza occhi, fatti di pinne e bocche, gli facevamo fare il gioco della cascata rovesciandoli dall’alto.

    Quando iniziava a fare caldo, mi spostavo dove l’erba era più alta, sotto l’ombra screpolata di un albero tarlato. Proteso verso l’alto, mummificato lungo il tronco cavo e nient’altro intorno tranne la distesa degli ultimi campi coltivati. Ceppi di lattuga seccati da un sole fantasma o nati già morti ai bordi delle staccionate, file di frutti sbiaditi in punta a solchi di zolle aride. La terra ha la febbre.

    Nel pomeriggio un arcipelago di nubi si strappava come un sacco e cadevano grosse gocce d’acqua sopra al campo su cui avevo disteso le mie bambole. Le lasciavo sole ad aspettare che passasse il temporale ma era un temporale finto, non durava niente. La terra secca rimaneva secca. Quando tornavo, stavano ridendo. Ridevano fino alle lacrime.

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