Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Qui il cielo è più vicino
Qui il cielo è più vicino
Qui il cielo è più vicino
E-book303 pagine5 ore

Qui il cielo è più vicino

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Narrativa - romanzo (287 pagine) - Cosa succede nel cuore e nella mente di quattro ragazzi che per motivi diversi affrontano un viaggio in una terra lontana e sconosciuta? 


I quattro protagonisti di questo romanzo non hanno nulla in comune, se non la giovane età. Non si conoscono e provengono da Paesi diversi. A unirli è la loro destinazione, la Nuova Zelanda, e lo scopo del loro viaggio: la ricerca di un futuro migliore o semplicemente di qualcosa di straordinario, scegliendo di visitare città e luoghi agli antipodi rispetto alle loro terre di origine.

Leonardo è unragazzo romano che parte per la Nuova Zelanda alla ricerca di un’avventura, di un lavoro, di una vita migliore, lasciandosi alle spalle le delusioni del suo Paese.

Fernanda è un’argentina con una voglia smisurata di libertà e di vita senza regole, che esce finalmente da casa sua a Buenos Aires per vivere una vita da nomade in compagnia della sua macchina fotografica.

Poi c’è Jonas, un diciottenne tedesco che si concede un anno sabbatico dopo il liceo prima di tornare a studiare all’Università, sperimentando per la prima volta la vita solitaria lontano dalla famiglia.

Infine Julien, un parigino che si ferma in Nuova Zelanda per alcuni mesi prima di proseguire il suo viaggio in Cina, non prima di rendersi conto delle bellezze del Paese in cui si trattiene.


Francesco Giannelli Savastano vive a Roma ed è appassionato di sport, ambito nel quale ha trovato subito lavoro: è insegnante di tennis e di rugby e tiene lezioni di fitness.

dora viaggiare, soprattutto tra le grandi e le piccole città d’Europa. Lettore compulsivo, non parte mai senza un libro in mano.

Ha vissuto e lavorato per un anno in Nuova Zelanda, esperienza che lo ha profondamente segnato.

LinguaItaliano
Data di uscita25 apr 2017
ISBN9788825401899
Qui il cielo è più vicino

Correlato a Qui il cielo è più vicino

Ebook correlati

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Qui il cielo è più vicino

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Qui il cielo è più vicino - Francesco Giannelli Savastano

    segnato.

    A Lucrezia e Freud, senza i quali non avrei mai scritto

    e che non hanno mai smesso di stimolarmi ad andare avanti.

    Introduzione

    Perché scrivere un romanzo di questo tipo, raccontando di quattro ragazzi qualunque che hanno avuto in comune un viaggio in Nuova Zelanda?

    Non saprei rispondere, in realtà. I protagonisti non hanno fatto altro che lasciare le loro vite passate per scoprire qualcosa che chiunque potrebbe scoprire; che sia la Nuova Zelanda, l'Australia, gli Stati Uniti, la Cina o un altro posto del mondo non fa differenza, probabilmente l'unico senso che potrebbe assumere questa storia è quello di ripercorrere gli eventi e le emozioni vissute in una terra lontana da parte di alcuni giovani che come tanti desiderano provare qualcosa di nuovo, di diverso.

    Mi sono anche chiesto a chi potesse interessare una storia del genere. Forse a nessuno, o forse a tutti quelli che hanno intenzione di emulare le loro vicende, anche se non necessariamente andando tanto distante da casa propria. È semplicemente il racconto di un lungo viaggio, di quattro percorsi differenti, ognuno affrontato e superato con sensazioni simili ma distanti fra di loro.

    Al lettore potrebbe lasciare la curiosità di conoscere meglio un posto magnifico come la Nuova Zelanda, potrebbe essere utile per chi ha fame di libertà o per chi vuole cimentarsi in un'esperienza comunque unica. Non credo che le persone comuni lascino i propri cari e le città in cui sono nati tutti i giorni per trasferirsi a ventimila chilometri di distanza.

    L'assenza di una trama è voluta, non doveva essercene una, l'unico filo conduttore è il viaggio.

    Qualcuno potrebbe pensare che il racconto altro non è che una biografia di quattro personaggi che si assomigliano molto e che assomigliano molto a chi li ha creati.

    Anche questo è vero. Sono quattro ragazzi in un unico personaggio, e somigliano molto a chi li ha creati. D'altronde, se non fosse stato così non avrei potuto descrivere le loro storie e soprattutto i loro sentimenti.

    Non esiste un intreccio logico tra i capitoli perché ogni fatto narrato è un fatto accaduto, dalla bellezza dei paesaggi, alle sensazioni vissute, dalle città incontrate ai sogni realizzati e non, ogni cosa ha avuto un senso altrimenti non avrei potuto neanche lontanamente immaginare di scrivere tutte queste pagine. Avrei dovuto inventare, ma questa è una storia unica e irripetibile.

    Come avrei potuto inventare quei sentimenti? Non lo so, li ho vissuti.

    Leonardo

    Chi l’avrebbe mai detto che il giorno più importante della sua vita, quello della partenza per la Nuova Zelanda, sarebbe arrivato? Dopo tanti anni passati a sognarla, a immaginare le emozioni che avrebbe potuto provare trasferendosi in un posto così lontano, quasi non ci sperava più e ora gli ultimi istanti di vita nel suo appartamento di Roma si riducevano in un solo momento carico di tensione trascorso di fronte al suo zaino, contemplato a lungo come se fosse una reliquia in cui cercare la giusta inspirazione e la forza necessaria prima di dirigersi all’aeroporto di Fiumicino.

    Il padre di Leonardo, che si era risposato dopo diversi anni dal divorzio, era arrivato sotto casa sua con la moglie e altri parenti, con un senso di impazienza e angoscia che stava condividendo con la ex moglie, una madre che con fatica tratteneva le lacrime per l’imminente distacco da lui, un ragazzo che oramai era un uomo e non più un bambino bisognoso delle attenzioni dei genitori.

    Come un segno del destino, esattamente sette giorni prima Leonardo era stato allo stadio con la mamma a vedere la partita di rugby fra l’Italia e i mitici All Blacks neozelandesi, uno spettacolo al quale non aveva voluto mancare. Durante il proprio inno aveva pianto a dirotto e cantato a squarciagola dimostrando a suo modo, più a se stesso che agli altri, l’amore per ciò che stava lasciando, la casa che lo aveva visto crescere, studiare, piangere nei momenti tristi e gioire in quelli felici; esattamente sette giorni dopo, a ventotto anni, sarebbe partito per un anno di lavoro in Nuova Zelanda.

    Aveva preso quella decisione durante l’estate appena finita, ma in realtà aveva in testa quell’idea pazza già da alcuni anni, quando aveva iniziato a studiare all’Università il corso di Scienze Motorie, ed era maturata nel momento in cui aveva trovato il suo primo lavoro da istruttore di fitness in una palestra del centro di Roma, un lavoro che non gli piaceva così tanto ma che trovava utile a fine mese per avere un umile gruzzolo nelle tasche. Aveva letto e riletto decine di articoli, di blog e di interviste di persone che erano state in Nuova Zelanda o che ci vivevano; tutti sostenevano che era un posto da scoprire e da respirare, dove uomo e natura convivevano magicamente, dove molti aspetti della vita di tutti i giorni funzionavano: la pulizia delle strade, l’educazioni dei cittadini, la solerzia degli impiegati delle poste o delle banche. Ma quello che a Leonardo piaceva principalmente era l'interesse per la sua grande passione, lo sport, a cui veniva data enorme importanza e spazio nella vita di tutti i giorni. Sport nelle scuole fin da piccoli, sport all’aria aperta tutti i giorni, oltre a città verdi con enormi parchi, paesaggi da sogno che si prestavano a panorami stupendi; Internet era stato la sua guida per anni, vi aveva trovato fotografie e informazioni di ogni genere a riguardo. Quando era ancora uno studente parlava della Nuova Zelanda come un esempio da seguire, come se lo stile di vita e le regole esistenti lì fossero la base da cui cominciare per costruire un mondo normale, dove le famiglie erano libere e sicure di crescere un figlio e dove ognuno poteva trovare spazio per vivere serenamente.

    Questa era l’idea che si era consolidata nella mente di Leonardo, che lentamente si stava affezionando a qualcosa che non toccava ancora con le sue mani, che non vedeva con i suoi occhi e non provava con il suo cuore, ma che cresceva nella sua pancia come un amore da adolescente, grezzo e tutto da costruire. Con il tempo si era convinto di tutte quelle cose, covando dentro di sé il sogno che credeva fosse irrealizzabile. Invece quel sogno si era concretizzato e dall’aeroporto di Fiumicino stava partendo il viaggio verso quello che sarebbe stato per lui l’anno più bello della sua vita.

    Al contrario delle premesse, salutare i genitori non fu molto piacevole, così come gli amici, i parenti, i nonni. Per ognuno di essi Leonardo avrebbe voluto trovare le parole giuste per un arrivederci senza sapere se fosse rimasto tale o si fosse trasformato in un addio. Partiva con la stessa intenzione con cui erano partiti tanti altri giovani prima di lui, in Europa o nel mondo, cioè fare un’esperienza in un Paese straniero, imparare l’inglese e trovare un lavoro per mantenersi.

    Era determinato a capire se quella vita potesse essere adatta a lui o no, volenteroso di trovare subito un lavoro per non pensare al passato e per avere un po’ di soldi.

    Il tragitto in macchina verso lo scalo romano fu colmo di ansia e di paura, di eccitazione e di bei propositi, traditi immancabilmente nel momento in cui abbracciò i suoi genitori. In quel preciso attimo, mentre la madre e il padre piangevano di tristezza per la separazione ormai vicina, mentre gli amici con qualche battuta tentavano di strappargli un sorriso, si stava concludendo una lunga fase della sua vita e se ne stava aprendo un’altra in cui nulla era sicuro. Al di là della porta scorrevole del check-in c’erano talmente tante incognite che nel cuore di Leonardo rimbalzava una sola domanda: Sto facendo la cosa giusta?. Non c’era risposta, a quel punto ogni cosa era stata organizzata, aveva il visto, aveva i soldi necessari, aveva il biglietto, aveva tutto per partire. Mancava solamente lui, baciò un’ultima volta i suoi incerto se trattenersi ancora qualche secondo in più per fare il pieno dell’aria di casa, della famiglia o se troncare quel legame freddamente, per non sopportare a lungo la tristezza che ne sarebbe derivata. Si diresse mestamente verso il gate, girandosi una sola volta prima di varcare l’ingresso del tunnel che non lo avrebbe più portato indietro per dodici mesi.

    Una volta sull’aereo, i sentimenti che provava erano così diversi fra loro che la testa stava per scoppiargli, la gioia si traduceva rapidamente in inquietudine. Accanto a lui decine di persone straniere e italiane viaggiavano con un’apparente calma, famiglie con bambini piccoli, coppie di mezza età, e poi c’era lui, seduto con la schiena curva da un lato con un’espressione che avrebbe sollevato persino un condannato a morte.

    Ma nonostante il malumore che avvertiva in quei primi secondi di volo per essersi lasciato alle spalle la famiglia, gli amici, Roma, dentro di lui un pizzico di gioia andava conquistando il suo cuore svegliandolo bruscamente dalla malinconia che non aveva ragione di esistere. Era in procinto di vivere il sogno che per anni aveva riempito le sue giornate di studio, un sogno su cui aveva fantasticato innumerevoli volte. Una molla di eccitazione lo fece balzare dal sedile, dandogli quella vitalità di cui aveva bisogno per affrontare la nuova avventura e per contrastare la mancanza dei genitori. Per loro c’era ancora spazio nei suoi pensieri. Guardò il cielo azzurro alla sua sinistra e si chiedeva cosa stessero facendo; dall’oblò immaginava la sagoma della madre stagliarsi di fronte a lui, sconsolata con lo sguardo disperato che tornava a casa e non lo trovava in cucina o sul divano ma allo stesso tempo felice per il figlio che stava per realizzare il suo grande desiderio. Allo stesso modo pensò al padre, lo vedeva guidare in macchina mentre faceva ritorno a casa sconsolato e contento mentre ascoltava della musica per distrarsi.

    Leonardo viaggiò per circa trentasei ore prima di arrivare ad Auckland, scendendo a Dubai e rimanendo schiavo dell’aeroporto nel deserto per cinque ore per poi salire su un altro mezzo che lo avrebbe condotto a Sydney, ultimo scalo prima di giungere finalmente in Nuova Zelanda. Appena sceso sul suolo straniero, come un cane che annusa la terra in cerca del posto migliore dove marcare il territorio, così lui cercò di fiutare l’aria nuova che spirava da quelle parti; era un’aria fresca e piacevole, che gli diede il benvenuto tentando di sollevarlo dalle angosce e dai dubbi che non gli avevano permesso di viaggiare serenamente. Dopo aver sbrigato le pratiche burocratiche fra passaporti e documenti vari, Leonardo uscì dallo scalo di Auckland e si guardò intorno spaesato: vedeva decide di autobus con numerazioni strane, completamente differenti da quelle dei bus di Roma, persone che si affannavano per trovare un taxi libero o per avere le informazioni dai chioschi riservati ai turisti. In quella bolgia cittadina rimase per alcuni secondi bloccato, come se finora avesse vissuto in un villaggio di montagna isolato e senza mezzi di comunicazione e non in una grande città; si fece coraggio, seguendo più l’istinto che la ragione, unendosi a una famiglia straniera che come lui cercava un modo per raggiungere il centro di Auckland. Gli fu consigliato di salire su un bus blu che faceva la spola fra la zona dell’aeroporto, Mangere, e la City, Queen Street, dove avrebbe potuto cercare un ostello in cui dormire.

    Con difficoltà pagò il biglietto del bus, il suo inglese non era certamente all’altezza dei residenti e, una volta seduto sul pullman, mentre fissava i suoi bagagli disposti ordinatamente nello spazio riservato alle valigie, Leonardo ebbe un fremito e si rese conto di essere assolutamente solo, senza nessuno che potesse aiutarlo. Il panico lo assalì ferocemente, stava quasi per maledirsi per quella stupidaggine commessa, Perché sono venuto quaggiù, ma chi me l’ha fatto fare?.

    Lentamente il panico svanì perché intorno a lui il paesaggio che circondava la superstrada lo rilassò, le colline interrompevano qua e là una distesa pianeggiante e verdissima, illuminata da un sole caldo ma non insopportabile. Passo dopo passo la città di Auckland, la città delle innumerevoli barche a vela, si avvicinava a vista d’occhio; dal bus avvertì un’emozione gigante quando in lontananza vide la famosa Sky Tower troneggiare sul centro città, non certamente un monumento che poteva reggere il confronto con il Colosseo o la Basilica di San Pietro, ma che aveva ugualmente il suo fascino. Leonardo la associava soprattutto al Capodanno, quando il telegiornale mandava in onda i colorati fuochi d’artificio che partivano dalla torre illuminando la baia in cui si specchiava, regalando uno spettacolo romantico e inimitabile. Cercava i negozi e i bar che aveva studiato su Internet prima di partire, le stesse immagini che aveva memorizzato sul suo computer. Non poteva credere a quello che stava vivendo, finalmente era in Nuova Zelanda come aveva sempre sognato, ce l’aveva fatta. Niente gli poteva dare più gioia di quegli istanti, le stesse dolci sensazioni che si provano quando ci si innamora per la prima volta, lo stesso formicolio nella pancia per una novità che si è attesa da lungo tempo.

    Scese appena davanti alla piazza di Aotea Square, ritrovandosi nel cuore della città; un grande incrocio fra Queen Street e Wellesley Street West era trafficato da decine di pedoni che attraversavano la strada in ogni direzione, chi per andare in banca, chi per andare a prendere un caffè o chi semplicemente per tuffarsi nella via dello shopping, Queen Street. Quella grande strada era molto simile ai boulevard francesi di Parigi, gli stessi su cui Leonardo aveva passeggiato anni prima con i compagni di scuola durante una gita scolastica, piena di negozi, alberghi, banche, café; partiva da una piccola collinetta in prossimità di due superstrade e confluiva nel porto di Auckland, dal quale partivano i traghetti per Devonport, l’isola di Rangitoto o quella di Waiheke.

    Il ragazzo non smetteva di guardarsi intorno, lasciando andare gli occhi e i sentimenti, lasciandosi travolgere dal vento e ammirando il cielo che appariva così vicino che sembrava crollargli addosso da un momento all’altro. Finora non aveva mai avvertito quella strana sensazione, e soffermandosi qualche secondo in più notò che la distesa azzurra sopra di lui era davvero immensa, sentire la sua sofficità sembrava così semplice quanto irreale. Non c’era alcuna nuvola a disturbare l’atmosfera, era un pomeriggio splendido, tiepido e a dispetto della paura che aveva di camminare per quelle nuove strade si avviò faticosamente con due ingombranti borsoni carichi di vestiti verso Hobson Street. Aveva cercato su Google un alloggio nel centro città e una delle alternative era il Silver Fern Backpackers; era un ostello come tanti, non raffinato ma funzionale per i suoi bisogni, dove dormire, lavarsi, mangiare e riordinare le idee. Prese una stanza singola che affacciava sulla strada e dopo aver posato a terra ogni cosa, si gettò sul letto e senza motivo scoppiò a piangere. Pianse e pianse ancora, dopo tanti sogni e tante false speranze era nel posto dove desiderava essere ma non riusciva a sorridere, non era in grado di capire che stava realizzando qualcosa che molti altri non avrebbero fatto ma solo sognato di fare, che aveva scelto la strada più in salita per raggiungere la felicità che si augurava di trovare. In quel preciso frangente riusciva a concentrarsi solo sulla sua solitudine che gli piombò in modo crudele nell’animo, non poteva telefonare ai suoi genitori o ai suoi amici, condividere tutto quel vortice di emozioni che gli stava stringendo il cuore rendendogli difficile persino la respirazione. Aveva il viso rosso ed era così stanco che chiuse gli occhi, cadendo pesantemente sul letto come colpito alla testa da un macigno. Si svegliò un paio di ore dopo con una forte emicrania ma con una gran fame e mentre fuori era sera e la temperatura si era lievemente abbassata, la mente si era scrollata di dosso alcuni pensieri, lenendo un po’ le sue sofferenze. Doveva mettere piede fuori dalla stanza per cominciare a vivere come un uomo normale ma quel semplice gesto significava attraversare un bilico dal quale aveva paura di cadere. Doveva superare una banalissima porta e andare in bagno dove forse una doccia l’avrebbe aiutato a non pensare. Aveva il timore di incontrare qualcuno per i corridoi e sperava che nessuno gli rivolgesse la parola perché non ne aveva voglia. Rovistò fra i bagagli alla ricerca dell’asciugamano, quasi dovesse scovare da lì un briciolo di coraggio; si spogliò e a torso nudo si diresse al gabinetto che comprendeva anche le docce. La puzza dei bagni degli uomini era stantia e i muri ricordavano una camerata di una caserma militare; ritrovarsi lì non lo aiutò di certo a cancellare le sue pene ma doveva lavarsi, dopo tutto il viaggio era stato lungo e faticoso, aveva sudato anche a causa delle infinite emozioni. Si rinvigorì quando il getto caldo lo lavò a fondo mentre si passava le mani sulla testa rasata; chiuse gli occhi e immaginò di essere a casa, fra persone amiche nella routine di tutti i giorni in cui aveva vissuto finora. Tornò in camera sua, si vestì e scese in strada per comprare qualcosa da mangiare in un mini market gestito probabilmente da una famiglia asiatica considerato che all’interno c’erano solo persone con gli occhi a mandorla. Raccattò qualcosa che avrebbe potuto consumare anche nei giorni seguenti, pane, prosciutto, salame, tonno, acqua e biscotti. La cucina dell’ostello era a sua disposizione ma come nel caso del bagno, varcare quella soglia avrebbe equivalso a sostenere un’eventuale chiacchierata che non voleva sostenere. Si ritirò nella sua stanza riscaldata da un piccolo termosifone e mangiò rapidamente, come un prigioniero di guerra che non toccava cibo da giorni; si sentiva un ladro seduto sulla punta del letto mentre l’odore del tonno in scatola invadeva l’aria intorno a lui. Dopo essersi ingozzato a dovere si preparò per il momento che più di tutti aspettava. Accese il computer e si collegò su Skype sperando che i genitori fossero in linea; il padre era collegato, forse aveva lasciato la linea attiva nella speranza di una chiamata. Leonardo si connesse e non appena vide il padre si commosse, entrambi si lasciarono andare a un pianto liberatorio per la distanza che li divideva; a dispetto di tutto il papà da Roma fu bravo a contenere le lacrime, il suo compito in quel preciso istante era dare serenità e forza al figlio, solo dall’altra parte del mondo. Per almeno una mezz’ora i due rimasero in contatto, Leonardo confessò le prime impressioni sulla nuova città, era stanco e frastornato ma Auckland gli sembrava carina, ospitale come se l’aspettava.

    Dopo fu il turno della mamma. Lei invece non riuscì a trattenersi dal piangere, non accettava che quella casa fosse vuota senza il figlio così lontano. Leonardo spiegò ogni suo movimento rispondendo alle decine domande che la madre gli stava ponendo, come una raffica di proiettili interminabile Si trovava bene, nonostante le cose non stessero prendendo la direzione che lui sperava prendessero. Forse credeva che l’impatto iniziale con la nuova vita sarebbe stato meno duro, probabilmente pensava di poter ambientarsi subito dopo aver trascorso solo poche ore a Auckland, o più semplicemente era quello che sognava accadesse. Non era così, doveva proseguire per gradi senza farsi cogliere dall'impazienza e dall’angoscia; in quella prima notte in cui il cielo era diventato un’enorme massa nera carica di pioggia che si stava abbattendo sulla città, Leonardo non pensava ad altro se non a trovare una via per uscire dall'immobilismo in cui era caduto. Doveva semplicemente vivere il suo viaggio con la stessa spensieratezza con cui l’aveva organizzato, scacciando via ogni forma di senso di colpa per aver lasciato i genitori a casa e per aver seguito la sua strada. Questi due dubbi lo tormentarono per tutta la notte, e la notte successiva e quella dopo ancora in cui il maltempo non aveva mai dato tregua alla città; si stendeva sul letto e dopo aver spento la luce con la speranza di prendere sonno e alleviare il suo stato d’animo, immancabilmente guardava il soffitto della camera dell’ostello e in sottofondo lo scroscio della pioggia sui palazzi vicini e sulla strada dava vita a un’atmosfera tenebrosa che non lo aiutava. Trascorsero alcuni giorni, poi il corpo di Leonardo fu sconfitto dai tormenti: i mal di testa lo stavano accecando, il nervosismo saliva e lo stomaco era sempre più stretto tanto da farlo mangiare il minimo indispensabile, si sentiva stanco di piangere e di adagiarsi in quella situazione senza reagire, perfetta se lui fosse stato pigro e senza obiettivi. Ma invece aveva degli obiettivi ben chiari, perciò era giunto il momento di fare qualcosa di costruttivo.

    Tre giorni dopo essere arrivato, ad Auckland era mattina e Leonardo si svegliò di buon’ora mentre il sole si alzava sulle colline promettendo una meravigliosa giornata calda e assolata, con un cielo azzurro liberatosi dalle nubi grigie e poco benevole delle sere precedenti. Leonardo fece altrettanto, si lavò il viso con l’acqua fredda e si specchiò, vedendo i suoi occhi rilassati e decisi, pronti a immergersi definitivamente in una giungla che era la città che aveva scelto come punto di partenza della sua avventura. Qualcosa era cambiato, sul suo volto c’era un’espressione felice e determinata, dentro di sé sembrava aver scovato un’energia insospettabile che lo spingeva a uscire dal guscio in cui si era rintanato. Il suo cuore batteva forte, curioso e smanioso di conoscere tutto ciò che c’era da conoscere e da studiare, desideroso di sapere ogni minino dettaglio di Auckland.

    Il primo passo verso la nuova vita in Nuova Zelanda sarebbe stato bere un caffè, e così avrebbe fatto. Camminò lungo le vie centrali della città alla ricerca di un bar qualsiasi che facesse un buon caffè; non conosceva le abitudini neozelandesi a riguardo e presto scoprì che il caffè corto come lo intendeva lui da quelle parti non esisteva. La maggior parte della popolazione beveva una miscela allungata nell’acqua che cancellava completamente il sapore dei chicchi; per lui che era abituato a berne almeno dieci al giorno era una situazione disastrosa, considerando inoltre che i prezzi dei caffè erano esagerati data la scarsa qualità. Ma procedendo con pazienza e curiosità incrociò un chiosco lungo Queen Street che preparava un caffè accettabile per una persona esigente come lui.

    Il secondo passo sarebbe stato consumare un pranzo decente e così avrebbe fatto. Intorno alle dodici assalì una di quelle catene di ristoranti indiani in un centro commerciale, ordinando un vassoio con riso, salsa piccante a base di ceci, pollo e verdure e una focaccia morbida. Dopo aver pagato si sedette a un tavolino e mentre lentamente assaporava il primo vero pasto caldo da quando era lì, si girava a destra e a sinistra studiando con gli occhi le persone che lo circondavano, cercando di cogliere qualche particolarità nelle usanze di Auckland. Per la prima volta si sentì rilassato, forse perché aveva la pancia piena e il pranzo lo stava rinfrancando delle notti scorse passate a piangere e rincorrere un sonno mai raggiunto, comunque avvertiva scorrergli nel sangue un senso di beatitudine che gli piaceva e dal quale non avrebbe voluto staccarsi. Infine il terzo e ultimo passo sarebbe stato fare quello per cui aveva viaggiato così a lungo e per cui aveva tanto pianto: cercare un lavoro. E così avrebbe fatto.

    Quella mattina uscire dall’ostello e oltrepassare la porta d’uscita fu talmente facile che non si capacitava di come le sere precedenti avesse avuto tanta difficoltà a portare a termine un gesto così elementare. Camminò per strada come se vivesse lì da anni, girava e rigirava come una trottola in cerca della familiarità che sentiva il bisogno di trovare, una quotidianità che doveva costruire, a partire dai bar dove consumare un buon caffè o dai supermercati dove rifornirsi di cibo e acqua. In quella mattina di sole splendente il cuore di Leonardo brillava di gioia, i polmoni si riempirono dell’aria pulita che tirava dal mare e alzando gli occhi al cielo si rese conto per la seconda volta, da quando era arrivato, che il cielo sopra di lui era troppo vicino, se alzava una mano lo poteva sfiorare. Era incredibile quanto fosse anomalo quel paesaggio, a Roma se volgeva gli occhi verso l’alto si sentiva distante dalla serenità che rincorreva da tanto tempo. Non ricordava quando era stato tanto felice come in quel giorno, un giorno come tanti per la maggior parte delle persone che andavano su e giù per Queen Street. Studenti, impiegati, donne in carriera e giovani ragazzi alla conquista di un posto nella società, viaggiatori travolti da una città in continuo movimento e mai stanca di rinnovarsi.

    Il ragazzo si abbandonò a quell’atmosfera di quiete e di ordine dove fretta e inquietudine non erano presenti, dove le persone vivevano la propria esistenza in pace con la città e con se stessi; Leonardo non era molto esigente e non si aspettava regali da parte di nessuno, chiedeva solamente di vivere la propria vita in nuovo posto, dove forse avrebbe potuto trovare quello che cercava da tempo: un po’ di armonia nel proprio cuore.

    L’avventura di Leonardo era scandita dal tempo, incessante e preciso come sempre, e fu il tempo a soccombere in un battaglia serrata sotto i colpi della sua voglia di fare e della sua energia nella prima settimana in Nuova Zelanda. Nei sette giorni successivi alla prima volta in cui aveva messo piede ad Auckland, consegnò e inviò più di cinquanta curriculum rivolgendosi a ogni tipo di azienda che offrisse un lavoro. In realtà aveva contattato

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1