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Gli aspiranti acrobati
Gli aspiranti acrobati
Gli aspiranti acrobati
E-book247 pagine3 ore

Gli aspiranti acrobati

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Info su questo ebook

È un romanzo generazionale ispirato ad una storia vera, ambientato tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta, raccontato con gli occhi degli adolescenti, che ancora non conoscono l'odierna tecnologia. Le vicende seguono lo scorrere del percorso scolastico di una classe del liceo e si intrecciano con la vita familiare e con le amicizie dell'infanzia, legate al luogo del cuore: il paese della nonna. Giulia, all'inizio del libro, ha 14 anni e ci trasporta all'interno del suo mondo. La sua vita è fatta di scuola, musica poesie, libri e film, ma non solo. Sullo sfondo di fatti di cronaca realmente accaduti, il filo conduttore è l'amicizia, vissuta a trecentosessanta gradi. È attraverso i diari e le lettere che Giulia si scrive con le sue amiche, che possiamo entrare nei loro pensieri più intimi. La difficoltà maggiore, per tutti i ragazzi della sua età, è non perdere l'equilibrio in un mondo fatto di eccessi insidiosi. Il sogno del grande amore è quotidianamente presente. Giulia cresce con noi lettori, pagina dopo pagina, attraversando periodi positivi, ma anche negativi. Dolori e delusioni, entusiasmi e inquietudini, infatuazioni e difficoltà. Fino ad arrivare a 19 anni...
LinguaItaliano
Data di uscita8 mag 2020
ISBN9788835823773
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    Gli aspiranti acrobati - Roberta Spaccini

    GLI ASPIRANTI ACROBATI

    di Roberta Spaccini

    Prima edizione: giugno 2019

    Tutti i diritti riservati 2019 BERTONI EDITORE

    Via Giuseppe Di Vittorio 104 - 06073 Chiugiana          

                     Bertoni Editore 

    www.bertonieditore.com

    info@bertonieditore.com          

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi 

    mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.

    Roberta Spaccini

    GLI ASPIRANTI

    ACROBATI

    Romanzo generazionale 

    ambientato tra gli anni Ottanta e Novanta. 

    Il mondo visto con gli occhi di Giulia.

    "Alcuni dicono che

    quando è detta,

    la parola muore.

    Io dico invece che

    proprio quel giorno

    comincia a vivere".

    Emily Dickinson

    Ai miei genitori,

    per credere in me e darmi forza in ogni momento.

    Ai miei figli e a tutti i figli,

    augurandogli di affrontare la vita con serenità e coraggio.

    A mia nonna, calore estremo, sempre presente.

    La famiglia, unica stella fissa in questo universo in movimento.

    Ai ricordi e agli amici, 

    che mi hanno regalato momenti indimenticabili 

    ed hanno contribuito a plasmare la mia anima.

    INTRODUZIONE

    Questo libro nasce da una storia vera di ragazzi, che hanno condiviso cinque anni di scuola superiore. Pur se la storia si ispira a fatti realmente accaduti, ogni riferimento a nomi, luoghi e persone, è puramente casuale e frutto di fantasia. La voce narrante del libro mi somiglia molto ed è il  personaggio più verosimile della storia. Le citazioni e le poesie sono tratte da diari e da scritti di ragazzi adolescenti, rielaborati ed arricchiti da testimonianze di persone vissute in quel periodo, compresa me. Nelle nostre creazioni c’è sempre un po’ di noi e di quello che ci gira intorno.

    La protagonista è Giulia, una ragazza normalissima, ma speciale. Come tutti i ragazzi del libro, è, allo stesso tempo, un magnifico essere umano, con il suo carattere, i suoi sogni, i suoi amori, i suoi dolori e le sue debolezze. Giulia non si lascia attraversare dalla vita, ma ci si immerge. L’adolescenza è un tema trattato da molti autori e psicoanalizzato sotto diversi punti di vista. Mi limito a raccontare una storia, anzi tante storie di adolescenti, senza giudicare nessuno. I fatti si svolgono tra la città e la campagna. Il piccolo paese è il luogo di origine della protagonista e della sua famiglia. La città, invece, è dove la famiglia si trasferisce per permettere ai figli di avere un futuro migliore. Il legame con il paese di origine, rimane molto forte durante tutta la vita di Giulia e, nonostante, la città, sia fervida di iniziative e di stimoli, il calore più intenso proviene sempre dai luoghi degli affetti dell’infanzia. Le vicende si intrecciano, sullo sfondo di fatti realmente accaduti, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. La musica, le poesie, i libri, i film, fanno da cornice a questa storia. Non esistono i telefonini, i computer, internet, le e-mail, gli sms, whatsapp, gli smartphone, niente, assolutamente niente tecnologia. Si usa il telefono (quello fisso), la carta e la penna. Il filo conduttore è l’amicizia vissuta a trecentosessanta gradi. La difficoltà maggiore è non perdere l’equilibrio, che viene costantemente inseguito come fanno gli aspiranti acrobati. 

    Non ancora artisti esperti, ma che si esercitano continuamente, anche con grandi sacrifici, per migliorare e superare ogni prova della vita senza cadere. Il sogno del grande amore è quotidianamente presente. C’è l’idealizzazione totale della persona amata, che ti fa amare anche chi non conosci. C’è l’amore totalizzante, che ti fa perdere il contatto con la realtà. C’è il disorientamento nel vivere nuove emozioni e la difficoltà nel gestire due tipi di affetti distinti: la famiglia e il ragazzo. Come se l’uno escludesse l’altro. L’adolescente tende ad allontanarsi dalla famiglia, perché vive un amore verso un componente estraneo alla famiglia e non sa bene come bilanciare le sue emozioni. Gli amici, a questo punto, diventano la nuova famiglia. I confidenti e coloro con cui si condivide la vita privata. Fare parte di un gruppo affiatato accresce l’autostima e fa ridimensionare i problemi. Fa parte della crescita dell’individuo, iniziare a confrontarsi con persone esterne alla cerchia familiare. In questa storia, vedremo come l’amicizia sia qualcosa di essenziale e di inevitabile, senza perdere di vista il punto fermo della famiglia, che viene messo momentaneamente in stand by. L’amore sarà travagliato e incomprensibile per tutti, proprio perché in una fase delicata di sperimentazioni e di mutamenti. Nonostante questo, l’amore esiste, sempre, anche a quindici anni e si nutre di poesia, desiderio e voglia di condivisione.

    I

    LA REALTÀ HA DUE FACCE

    Sicché questo è il paradiso, egli pensò, e gli venne da sorridere fra sé. Non era mica molto rispettoso, criticare il paradiso, quando ancora non ci sei manco arrivato. 

    (Il gabbiano Jonathan Livingstone di Richard Bach)

    Agosto 1986. Entrai per la prima volta nell’Aula Magna del Liceo Ginnasio Statale Svetonio con mia madre. Era una calda mattina di fine estate ed eravamo stati convocati, insieme a tanti altri futuri alunni, per la formazione delle classi. Onde evitare reclami o accuse di raccomandazioni varie, era stato deciso di fare le cose alla luce del sole. L’estrazione dei nomi, sarebbe avvenuta in pubblico, sotto gli occhi di tutti. Quello era stato l’anno di Cernobyl: la centrale nucleare in Unione Sovietica che aveva preso fuoco, sprigionando una nube di materiale radioattivo, contaminando vaste aree, 65 morti, più di 330 mila persone evacuate, tumori e leucemie triplicate nel giro di pochi mesi. Queste radiazioni, oltre ad aver causato morti e malattie immediate, produssero gravissime malformazioni fisiche, soprattutto, tra i bambini che, all’epoca, si trovavano nell’utero materno. A casa mia, se ne era parlato molto, perché mio padre era sensibile ai problemi di salute e al futuro di noi figli. 

    A quei tempi, ancora, non avremmo potuto immaginare le ripercussioni che avrebbe avuto sull’ambiente e su tutti noi. Un problema, allora sconosciuto ed oggi, invece, una delle maggiori preoccupazioni per fisici, ambientalisti e medici. Per la gente comune, un pericolo reale, che incombe e ha iniziato a far riflettere. Nell’87 ci fu il primo referendum sul nucleare e nel 2011 il secondo, che decretò la chiusura del nuovo programma nucleare. Ero molto interessata ai problemi sociali, pur avendo solo 14 anni, ma, a casa mia, non si poteva cenare, senza che la televisione fosse accesa sul canale del telegiornale delle 20.00, ogni sera, sette giorni su sette. Cresciuta in questo modo, o mi sarebbe venuta la nausea dei telegiornali, o mi sarebbe venuta la passione. Prevalse la seconda possibilità e, dall’età di 8 anni, già dicevo che, da grande, avrei voluto fare la giornalista. Comunque, in quell’aula mi sentivo stordita, era come se una nube simile a quella dell’esplosione nucleare, mi offuscasse la vista, mi togliesse il respiro. Per fortuna non era una nube tossica, con effetti sulla salute, ma solo temporaneamente opprimente. Ero disorientata, mi sentivo piccola, piccola, in quella grande stanza con le pareti altissime, dove si respirava odore di storia e di antichità. Un enorme lampadario di cristallo, come quello dei palazzi reali, dove si sono svolte le feste da ballo nelle epoche storiche più fastose, dominava il centro del profondo soffitto. Che favola, se al termine del ciclo di studi, ci fosse stato il ballo di fine anno scolastico, come succedeva nei film americani ed in particolare in Footloose (film del 1984, ma ancora in voga in quel periodo). Sarei stata invitata a ballare da Kevin Bacon in persona. Sveglia! Tornai alla realtà e al lampadario, bello e polveroso. La situazione non era proprio quella di una festa scolastica, anche perché non conoscevo nessuno e, se alle feste non c’è affiatamento, che festa è? Mi guardavo intorno e vedevo solo facce abbronzate di ragazzini vocianti e sorridenti, che sembrava si frequentassero da una vita. Non scorgevo volti familiari, fino a quando, ad un lato della grande stanza, intravidi tra la folla Alice e Ivette. Nome esotico, vero? Ivette si chiamava così, non perché fosse francese, ma semplicemente perché i suoi genitori, si erano conosciuti ed innamorati in un ristorante, durante un viaggio a Parigi. Ristorante che apparteneva appunto ad una tale Ivette. Originali i suoi genitori, lo erano sicuramente e molto romantici. Queste due ragazze, che conoscevo e che avevano frequentato le scuole medie con me, erano persone con le quali non avevo legato per niente. Loro erano state sempre compagne di banco, molto unite, forse fin dalle scuole elementari; ed invece io, tolte le cinque ore che, forzatamente, dovevo trascorrere insieme a loro e agli altri compagni, preferivo poi, dedicare il mio tempo libero, i miei sabati, le mie domeniche, le festività ed i miei giorni di vacanza, alle amiche del paese dove ero nata, anche se ormai erano parecchi anni che mi ero trasferita in città. Continuava ad esserci un legame molto forte con il mio paese d’origine. Un senso di appartenenza e di sicurezza, un cordone ombelicale, che non volevo, né riuscivo a spezzare. Con le mie amiche eravamo lontane, seppure di pochi chilometri, in scuole diverse; ma erano loro il mio gruppo, la mia seconda famiglia. Non erano amiche di scuola, ma amiche di infanzia, di esperienze extra-scolastiche, molto più costruttive ed intense delle esperienze scolastiche… almeno fino ad allora… 

    La distanza tra città e campagna era abbastanza sentita. Poi questa distanza si andò affievolendo con il passare degli anni. Come se, crescendo, si vedessero le cose da un’ottica diversa e tutto diventasse più piccolo. Percezione diversa dello spazio in base al cambiamento di ottica. Mi è capitato di provare una sensazione simile, guardando l’albero di Natale, intorno ai tredici anni. Me lo ricordavo più grande, ma l’albero era sempre lo stesso. In città si correva troppo, il tempo non bastava mai per fare tutto quello che si sarebbe voluto fare. Al paese, era tutto più lento e anche le tradizioni e i legami erano più lenti a scomparire. La voglia di gioire per le cose semplici era più accentuata. Ci si accontentava di ciò che si aveva e si viveva all’aria aperta, sotto lo stretto controllo degli occhi vigili di un paese che ci aveva visto nascere.

    Ed anche quell’estate, ovviamente, l’avevo passata insieme a loro: con l’Eva, la Linda, la Gabriella, l’Angelica, la Silvia, la Serena e tanti altri ragazzi e ragazze, che si aggiungevano strada facendo e che, poi, sparivano e magari riapparivano, dopo essersi resi conto che senza di noi non ci si divertiva. Le giornate volavano tra bagni in piscina, gite in motorino, picnic al fiume e feste organizzate all’ultimo momento in qualche casale di campagna, che apparteneva a qualche amico. Puro divertimento, fantasia, spontaneità, libertà di esprimersi e di agire, che non avevo mai trovato tra le vie della città o tra i compagni di scuola. Ma torniamo a quel giorno al Liceo. Alice ed Ivette mi fecero un cenno di saluto con la mano, ma non si avvicinarono a me, né io andai verso di loro. Su un lungo tavolo di legno massiccio, in fondo alla stanza, era seduta la Preside con altre persone, di cui ignoravo nome e ruolo, ed accanto a questo tavolo infinito, vi era un’urna piena di fogliettini, che si presumeva racchiudesse tutti i nomi degli iscritti al primo anno, compreso il mio. Dietro il tavolone ottocentesco, spiccava una tradizionale lavagna nera, grande quanto metà parete, dove con il gesso, sarebbero stati scritti i nomi degli estratti e delle rispettive classi assegnate. Nonostante l’estrazione, al momento dell’iscrizione, ci avevano chiesto di esprimere una preferenza e la mia preferenza era stata per la sezione B, consigliata dalle voci di corridoio e da alcune amiche di mia madre, come la sezione più buona e giusta del Liceo, quella dove si studiava, ma senza esagerazioni. Insomma, la sezione più equilibrata. Apro una parentesi: il concetto dell’EQUILIBRIO è il filo portante di questa storia ed è per questo che sarà nominato spesso e che mi piace scriverlo mettendolo bene in evidenza… Chiudo la parentesi, ma non dimenticate quello che ho appena detto!

    Furono chiamati, a caso, alcuni ragazzi, incaricati alla pesca dei nomi per la formazione delle classi. Mi sembrava di sentire la formazione delle squadre di calcio. Si iniziò dalla sezione A per poi procedere fino alla sezione N. Quindi, vi lascio immaginare come fosse piena l’Aula Magna, considerando che ogni classe sarebbe stata composta da circa 20/24 persone.

    Io sentii rimbombare il mio nome e poi ne ebbi la conferma, vedendolo scritto alla lavagna, quando stavano estraendo i nomi per la sezione B. Il destino per ora era dalla mia parte, anche se, alla fine, il mio nome era in mezzo a tanti altri nomi sconosciuti, se non fosse per la presenza di quello di Alice ed Ivette, che già avevo sentito pronunciare tante volte durante gli appelli alla scuola media: eravamo nella stessa classe.

    Mia madre ammiccò soddisfatta. 

    Alice ed Ivette mi guardarono meno soddisfatte, forse solo rassegnate di avermi ancora con loro, senza che fossi una di loro.

    Alla fine dell’estrazione per la classe IV B del Liceo Ginnasio Statale Svetonio, la signora Preside lesse tutti i nomi a partire da Agostinelli fino ad arrivare a Zampini, passando per Rossi Giulia, che ero io. Non avevo niente a che fare con il mitico Vasco Rossi, né con gli altri Rossi, famosi o meno, sparsi in tutta Italia che erano parecchi, tra calciatori, allenatori, giornalisti, piloti, scrittori e attori. Purtroppo, non avevo niente a che fare con quello che mi premeva maggiormente, perché per me il Blasco era un mito, il mio cantante preferito, anzi, cantante è davvero un termine riduttivo per descrivere le sensazioni che mi trasmettevano le sue poesie. Rossi Giulia: persona normale, che non aveva lasciato alcuna traccia significativa in questo mondo. Rossi Vasco: persona speciale, un grande cantautore, che di tracce ne lasciava, ogni volta che prendeva un foglio per scrivere le sue poesie fatte di musica e parole. E qui il concetto di equilibrio non c’azzeccava molto, perché Vasco era tutto meno che equilibrato. Apparentemente, almeno, era così. Se non che, credo, anche lui ricercasse un suo equilibrio, come tutti prima o poi. Si vive in bilico, si oscilla, ci si perde, ci si ritrova, ma alla fine si cade nella confortevole rete dell’equilibrio. 

    L’agognato equilibrio: la nostra àncora di salvezza, la pace dei sensi, la chiave della serenità. Sperando che non sia mai troppo tardi per raggiungerlo. Sarebbe passato del tempo prima di sentire le parole «la vita è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia», il tempo mi avrebbe dato ragione anche con Vasco.

    Le sue canzoni: la colonna sonora delle mie giornate. Era l’interprete immediato e reale delle mie emozioni. Capace di accarezzarmi la pelle e l’anima e di tirare fuori rabbia, amore ed altre centomila sfaccettature e sensazioni diverse. Come era possibile che sapesse interpretare così bene i miei pensieri? Avevo conosciuto Vasco per caso. Avevo trovato una musicassetta intitolata Bollicine, tra gli scatoloni, dove mio fratello aveva riposto gli oggetti che non usava più, e me ne ero appropriata ed innamorata a primo ascolto, pur avendo solo dieci anni. Una canzone per te (…ma le canzoni son come i fiori nascono da sole, sono come sogni che a noi non resta che scriverle in fretta perché poi svaniscono e non si ricordano più…) e Giocala (…che cosa c’è ti sei pentita vorresti ritornare indietro e dirgli cosa, che sei cambiata, che sei diversa, che in questi quattro soli giorno sei cresciuta, ma c’è qualcosa che ti frega, si chiama orgoglio quello che ti frena…) erano sicuramente quelle che avevano raggiunto il mio cuore. Colpito e affondato. Compagne delle mie notti solitarie, fatte di confessioni e riflessioni sulle quotidiane esperienze. Sottofondo delle mie lacrime e dei miei sorrisi. Ne andavo orgogliosa, perché era stata una mia scelta. Solo mia. Nessuno mi aveva influenzato, né persuasa ad ascoltarlo. Mi era entrato subito dentro. Mi era piaciuto a pelle. Era scritto nel mio destino. Vasco aveva deciso di entrare dentro di me e di accompagnarmi nel corso della mia vita, in modo spontaneo ed irrazionalmente passionale. 

    Impronta fondamentale nella mia crescita e nella costruzione della mia anima.

    Con un flash, immaginai il mio futuro nella classe IV B. Mi vidi esclusa ed isolata dai vari gruppetti, che si erano formati all’interno dell’aula. Cercai di scacciare questi pensieri. Tornai a casa piena di speranze e compiaciuta, per aver visto accontentate le mie richieste di appartenere a questa famosa sezione B, che era tanto agognata. E poi, ancora non ci volevo pensare troppo, del resto mancava quasi un mese all’inizio della scuola.

    Mi rifugiai al sicuro, tra le mie amiche, tra le strade del mio paese, che conoscevo perfettamente a memoria nei colori e negli odori. Le mie bimbe, a cui ogni tanto facevo da baby sitter, mi regalarono attenzioni e spensieratezza infinite. Disegni e manine appiccicose che giocavano alla parrucchiera con i miei capelli. Ancora qualche festa, un giro di bottiglia per decidere a chi dare baci o schiaffi, un’escursione nella campagna circostante con il motorino appena ricevuto in regalo… Il mio mitico e bellissimo motorino della Piaggio, color antracite, con casco aperto bianco, che noi chiamavano alla Chips (serie televisiva ambientata a Los Angeles, in cui, appunto, i due protagonisti erano dei poliziotti che indossavano un casco aperto), desiderato da morire ed ottenuto senza troppa fatica, per la fortuna di avere dei genitori fantastici, che avevano abbracciato la teoria del meglio cadere da sola che dietro al motorino di un’altra. In quanto, ero già caduta due volte: la prima, attaccata con la bici al motorino di una

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