Il ciclo delle persone che sentono
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Anteprima del libro
Il ciclo delle persone che sentono - Roberta Sciuto
raccontarvi.
Francesco
Si svegliò di soprassalto. Dio, che freddo. Si guardò: era mezzo nudo, parzialmente coperto dal lenzuolo; il piumone era in terra. Sudava come un mulo sotto sforzo e il cuore pompava violentemente sangue caldo. Nonno…
sussurrò terrorizzato, ricoprendo in fretta le membra traumatizzate; l’aveva sognato ancora, e ancora una volta l’aveva visto irrigidirsi e spalancare gli occhi. Lui era piccolo, piccolo perché in quel sogno non sarebbe mai cresciuto e il nonno sarebbe sempre tornato in vita, per poi morire nuovamente, in quel modo atroce. Il chiaro di luna lo accecava e le cose iniziavano a mormorare: le sentiva destarsi sonnolente, accendersi delle prime luci fioche. Nella loro glaciale immobilità iniziarono timidamente a fremere, tornare loro stesse e sussurrare i soliti, vecchi segreti; i soliti, perché erano i suoi. Nessuna novità da parte delle sedie, delle mura e di quel promiscuo letto; come una scossa sentì l’amore provato per Lucia, Margherita e sentì la vergogna, vergogna per la sua prima volta con Benedetta e si sentì, come sempre, sporco, orribile. Ed ecco che era di nuovo pieno, pieno di quel respiro grave, lento, della sua casa. Che storia quella della sua casa, quanto dolore! I suoi non l’avevano capito. Non avevano mai capito niente di lui e si erano rifiutati, inizialmente, di fargliela costruire; ma come potevano capire. Si raggomitolò dolorante, abbracciato al cuscino, vulnerabile. Respirava affannosamente e sentiva freddo, sentivi freddo anche tu, nonno?
respirò, con le labbra schiacciate al materasso.
Una cosa amava di quella piccola, scomoda dimora, e vi rimase incollato, aspettando l’alba. Levigò con le dita la sua cornice e, con la condensa del respiro, ne offuscò il vetro, in attesa, per un tempo interminabile. Guardava quell’angolo di città che conosceva a memoria: con le solite macchine vecchie dei vicini pensionati, i soliti lampioni desolati e malinconici, la solita strada scorticata e quei palazzi tristi e spenti; di cui conosceva nei minimi dettagli le decadenti, decennali storie. Poi, repentinamente, tutto si fece più chiaro e il sole iniziò a colare tra le pieghe di cielo che lasciavano scoperte le case, gli alberi. Amava guardare fuori, attraverso quella finestra che aveva poco da raccontare; lì, lontani dal vetro, gli oggetti erano quelli che erano: muti, imperturbabili. Allora riusciva ad avere un silenzio vicino a quello della sua infanzia, dove solo le parole musicali di nonno Giò avevano il diritto di romperne l’armonia. Ricordava quei giorni a fatica, con tremenda fatica. Intrecciò nei lunghi capelli biondi e asciugò con la manica del lenzuolo una lacrima di stanchezza. Ormai la luce del giorno s’imponeva sulle ombre e le scacciava via, con forza; quelle svanirono passando tra gli anfratti del suolo. Si alzò. Una volta in piedi chiuse gli occhi e si lasciò guidare in bagno. Ecco il frenetico computer, abbandonato su quella disordinata scrivania, urlava incompiutezza e stava lì, sospeso: il suo romanzo, quello mai terminato; ed ecco l’armadio, chiuso e impassibile, pieno di persone. Pieno zeppo di quella gente che si era interessata a lui, e poi l’aveva piantato, confusa; e lui indossava quei jeans, quelle camicie, quelle magliette colpevoli, macchiate. Vicino stava appesa, dignitosa e imponente, la sua laurea in lettere. Sentiva la sua gravità, quasi accusatoria. Ricordava gli anni dell’università e quelle aule, urlanti, gremite, affollate di fantasmi.
Era stato costretto dai suoi a continuare gli studi, nonostante si fosse opposto con fermezza. I genitori, che solitamente parlavano a malapena tra di loro, si trovarono nell’unanime accordo di negare a Francesco la casa che tanto desiderava, se si fosse rifiutato. E quindi, dopo lunghe giornate di silenzi e furiose litigate, aveva scelto Lettere. I primi giorni da matricola li aveva passati cercando di abituare il proprio corpo alle continue scariche elettriche torturatrici, le voci incessanti e la costante presenza di fantasmi, del passato, presente e futuro. Anche il viaggio con i mezzi era intollerabile e, una volta tornato a casa, i colori, anche violenti, che l’avevano assalito durante il giorno si sommavano alle prediche della madre. Mesi orrendi, eterni. Passò oltre e si trovò nel corridoio, e qui ebbe paura. E infatti eccole: tutte riunite, appoggiate alle pareti, impazienti di entrare. Ombre eccitate di donne che l’avevano desiderato anche solo per una notte. E in terra i loro passi, e nell’aria il loro odore. Le loro voci impregnate nella carta da parati. Affrettò il passo.
Passato il primo semestre, riusciva a distinguere le sagome sbiadite dei professori e dei compagni di studi e presto si fece degli amici. Amici, ma era solo per convenzione che li chiamava così; erano più delle voci e dei corpi che, più di altri, si rivolgevano a lui. Sulle ragazze, in particolare, esercitava un’attrazione magnetica che lui stesso non riusciva a spiegarsi; era irascibile, scostante, a tratti quasi violento. Francesco!
urlavano quelle ombre disperate Francesco mio... non sarò mai un peso per te ti prego tienimi qui ti prego! Non sai quanto ti amo… non sai quanto!
e si aggrappavano come se l’aria che respiravano venisse da lui, dalla sua pelle. Cercava di non essere un peso per nessuno e si allontanava, cercando di troncare qualsiasi rapporto. Ma niente. Quelle si avvicinavano, gli parlavano, cercavano di compiacerlo sempre e comunque. Erano disposte a tutto pur di ottenere da lui anche solo una carezza, un gesto affettuoso. All’inizio cercò di rispondere a dovere a quelle manifestazioni penose d’affetto, ne portò a letto più di quante avrebbe voluto e arrivò a odiarle per questo. Tuttavia più ne scacciava e più se ne ritrovava attorno, arrivò persino a insultarle e dire loro parole deplorevoli, che non gli appartenevano, pur di essere lasciato in pace; ma quelle guaivano ferite, e poi tornavano da lui, a implorarlo di dare loro una possibilità.
Francesco…. Lo volevano curare.
FRANCESCO!". La maggior parte, almeno, sentiva di doverlo guarire per riuscire a ottenere la grazia del suo amore. Francesco non avrebbe mai conosciuto l’amore, mai. Ricordò la rabbia con la quale strappava loro i vestiti di dosso, per farli tacere una volta per tutte; per avere un momento di pace e silenzio. Ansimava: il respiro del padre gli riempiva i polmoni; nel petto batteva vitale il suo disgustoso cuore. Che schifo.
Era giunto in bagno. Aprì gli occhi e la luce riflessa dai mobili bianchi, lo accecò. Si avvicinò alla finestra e socchiuse la serranda, con uno scatto. Nella penombra scrutò la propria immagine riflessa nello specchio: i chiari occhi paterni lo fissarono di rimando. Doveva radersi. Doveva sistemare la propria vita, doveva finire il romanzo. Fece scorrere l’acqua nel lavandino e poi la raccolse nelle mani: lentamente immerse il viso nella piccola pozza d’acqua bollente. Lo faceva sempre da bambino e ancora adesso non riusciva a dimenticare quella sciocca, rilassante abitudine.
Giò diceva che era importante sapersi ritagliare delle piccole oasi d’intimità, degli spazi confortevoli dove sedere, sdraiarsi o anche solo chiudere gli occhi a riflettere; se riesci a sentirti isolato nella folla
diceva non sarai mai veramente solo
. Francesco non l’aveva capito e, quando nonno Giovanni aveva lasciato questo mondo proprio davanti ai suoi occhi atterriti, una sola grande certezza era piombata su di lui, come un gigantesco schiaffo divino: lui era solo. Era solo, e la morte di Giò gliel’aveva provato. Per una settimana si era raggomitolato sulla vecchia poltrona del nonno, e per una settimana si era rifiutato categoricamente d’abbandonare il