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Il Diamante e la Rosa del Deserto
Il Diamante e la Rosa del Deserto
Il Diamante e la Rosa del Deserto
E-book207 pagine3 ore

Il Diamante e la Rosa del Deserto

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Info su questo ebook

Questa è la storia di una bambina nata nel deserto dell’Iran, e di un padre rivoluzionario alla perenne ricerca della vita perfetta per lei e la sua famiglia. È la storia di Rosa, ventottenne, che decide di raccontare di quei viaggi della speranza che hanno divorato la sua infanzia, di quel padre disposto a rischiare tutto pur di portare i propri figli nella desiderata Europa, di quella madre che di fronte alle prime difficoltà abbandona la famiglia, della fame, della paura e della rabbia.

È un’autobiografia nuda e cruenta, lucida e forte come un pugno nello stomaco, forte come la protagonista del libro.
Questo libro dà speranza a chi attraversa difficoltà nella vita e dona la forza di reagire, di non fermarsi davanti agli ostacoli, di non accettare dei “no, non si può!”.

Perché un fiore può crescere anche sull’asfalto e nel deserto.
LinguaItaliano
Data di uscita29 nov 2017
ISBN9788827524688
Il Diamante e la Rosa del Deserto

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    Anteprima del libro

    Il Diamante e la Rosa del Deserto - Roza Vahabi

    forza

    Una nuova vita

    Dicono che gli occhi degli uomini siano lo specchio della loro anima. L’anima non sa parlare, e io tanto meno scrivere: questo è il binomio dannatamente perfetto per iniziare a scrivere un libro!

    Incollatevi al letto gente, disdite tutti i vostri appuntamenti per la serata perché non ci sarà tempo di fare altro, e vi prego, gentili professori e professoresse, non soffermatevi sul punto e sulla virgola sbagliata, non soffermatevi sulle parole: io non so scrivere, ma se me lo lascerete fare, io so trasmettere.

    Che le telecamere si accendano, che lo show abbia inizio.

    Mi chiedo quante volte mio padre si svegli durante la notte facendosi la domanda – dove ho sbagliato? – e se solo potesse tornare indietro nel tempo, lui cosa rifarebbe, e cosa non rifarebbe.

    Avevo 6 anni quando mi svegliai durante la notte a causa del rumore, corsi in corridoio e vidi sulla porta di casa un uomo con valigie e lacrime agli occhi. Quegli occhi e quello sguardo mi fecero provare per la prima volta un’emozione completamente nuova, che nasceva dal profondo dello stomaco e si diramava su tutta la superficie del corpo, tra le dita delle mani e la punta della lingua. Non avevo provato quella sensazione nemmeno quando mi arrampicavo sui rami degli alberi tra le urla di mia madre che mi incitava a scendere, ed io, non consapevole di quella sensazione, mi arrampicavo sempre più in alto. Come si fa a spiegare ad una bambina un’emozione, una sensazione? Lo sguardo di quell’uomo quella notte fu il modo in cui mi fu insegnato cosa fosse la Paura. Quell’uomo era mio padre. A notte fonda lui se ne stava andando. Stava partendo, senza una parola né a me, né ai miei fratelli. Aveva fatto i suoi calcoli e concluso che i suoi bambini avrebbero sofferto meno scoprendo la sua mancanza indirettamente, piuttosto che direttamente. A 32 anni, 3 figli ed una moglie bellissima, come quella casa a Teheran, un lavoro e tanti famigliari, un po’ di guadagni messi da parte, una vita costruita con il sudore, mattone su mattone, lui aveva deciso di andarsene. Abbandonare tutto. Lui aveva deciso di abbandonare quel paese povero, più socialmente che economicamente, e cercare fortuna all’estero, mollando Tutto per riuscire a portare quel Tutto in un posto migliore. Lui e l’amore per i suoi figli. Lui e l’amore per sua moglie.

    Chi sarebbe disposto a rischiare tutte le proprie certezze in cerca di un’incognita? Chi riuscirebbe ad amare a tal punto la propria famiglia da sacrificare il tempo che potrebbe passare con loro, pensando solo che in un posto altrove nel mondo quella famiglia potrebbe vivere meglio? Chi avrebbe questo coraggio?

    Certo, si dice che tutti i genitori amino i propri figli più della loro stessa vita, ma chi di loro sarebbe veramente disposto a morire per loro, chi sul serio? Chi punterebbe tutte le ragioni della propria vita sui propri bambini senza neanche una punta di egoismo? Se un uomo puntasse una pistola alla testa di vostro figlio e alla vostra e chiedesse: chi vuole morire per primo?, beh, siete certi che non trascorrerebbe almeno un minuto prima che rispondiate?

    Per Paolo questo non valeva, lui era diverso. Paolo non amava la sua vita, Paolo amava solo la vita dei propri figli.

    Quella sera fu il mio primo vero abbandono. E per quanto mia madre cercò di spiegarmi disperatamente che papà lo aveva fatto per il nostro bene, che lo avrei capito con gli anni, per una bambina di 6 anni era troppo difficile da digerire. Il primo vero abbandono di una lunga serie a venire.

    Le giornate trascorrevano ed in un paese come l’Iran non si può affermare in giro che il proprio padre è da qualche parte del mondo, perché nel caso migliore saresti solo il figlio abbandonato, il così detto bastardo, e nel peggiore cercherebbero di capire dove si è nascosto quel lurido traditore che non ama il proprio paese! Per queste ragioni, nessuno doveva sapere della sua partenza e mancanza. Per quasi un anno, alle domande degli amici sul dove fosse mio padre avevo imparato a rispondere: a comprare lo yogurt!. Sì, per l’intera durata di questo tempo gli amici vennero trattati come gli orologi svizzeri e puntualmente trovavano il momento giusto in cui mio padre era andato a comprare lo yogurt. Ai più curiosi venne il dubbio che si trattasse di un inganno piuttosto che di una coincidenza, ma la mia lingua è sempre stata più veloce a controbattere e la mia faccia sempre più di bronzo rispetto alle persone comuni. Non volevo passare per la bastarda di turno! Avevo imparato una regola fondamentale della sopravvivenza: nella vita bisogna imparare a dire le bugie. Non vi ingannerò ripetendovi quello che mia madre diceva a me, che erano solo bugie a fin di bene e in quanto tali non dovevano essere ritenute vere bugie. Che fossero vere o a fin di bene non aveva importanza, ciò che contava era aver imparato a mentire.

    La casa era diventata improvvisamente vuota senza di lui, anche se ci abitavamo ancora quattro persone. Tutto il carico delle responsabilità paterne era passato sulle spalle di suo figlio maggiore. A soli 9 anni Pupone era diventato l’uomo di casa, e credetemi, quel Pupone di 9 anni era più saggio di un uomo di 40!

    Andavamo a scuola, ingannavamo il tempo giocando con gli altri bambini e intanto passavano i mesi. Il babbo mandava lettere, noi mandavamo disegni… e intanto passavano i mesi! Arrivavano telefonate solo di rado, purtroppo non era ancora l’era della telefonia mobile, e a mio padre mancavano anche quei pochi spiccioli richiesti dalle cabine telefoniche.

    Non ho molte notizie di lui in quell’anno e mezzo che passò, so solo che girò il mondo in cerca di fortuna, dormendo a casa di chi capitava e passando le giornate nei vari comuni e ambasciate richiedendo asilo e ricongiungimento famigliare. Ricordo una sua fotografia dalla Norvegia, con fiocconi di neve che scendevano e lui che faceva la linguaccia. Dietro vi era scritto: ragazziiiii, vorrei tanto che foste qui a vedere quanta neve scende!!! Presto vi porterò con me.

    Aveva nevicato solo una volta a Kerman da quando io ero nata, ed io ero fortunata, perché dopo non nevicò per altri 16 anni. Ancora ora guardo i fiocchi di neve che scendono con gli occhi di una bimba, ed il mio primo pensiero è giocare a palle di neve e costruire un enorme pupazzo, di quelli che neanche dopo 1 mese si sono sciolti.

    Papà girò il mondo in lungo ed in largo, chiese rifugio ad alcuni amici, chiese asilo ad alcune nazioni, e finì il suo tragitto laddove aveva iniziato: nel sud Italia, Bari. Era ormai a corto di soldi, i suoi risparmi di una vita si erano volatilizzati nell’arco di quel solo anno. Tutti gli amici che possedeva nei vari paesi del mondo erano svaniti come l’acqua nel deserto arido di Kerman. Quell’anno di esperienza aveva formato Paolo più che mai ed era venuto a conoscenza di tante verità a lui fino a quel momento ignote: l’amicizia dura fino al momento in cui non si ha bisogno di una mano, il matrimonio si sfalda di fronte alle difficoltà, la gente aiuta finché non si rischia di diventare un loro problema. Capì che le persone indossano una irriconoscibile maschera di gentilezza, benevolenza e bontà per gli ospiti. Ma se si supera quella soglia in cui la permanenza appare anche solo lontanamente stazionaria, più che temporanea, allora tolgono quella maschera e fanno vedere esattamente cosa si nasconde sotto. Paolo non aveva mai conosciuto questa vera faccia delle persone, e non perché non avesse mai stretto forti amicizie o che non si fosse mai trovato in difficoltà serie, ma semplicemente perché non aveva mai chiesto aiuto a nessuno. Con il suo orgoglio e la sua testardaggine, era sempre riuscito a girare intorno ai problemi e a trovare quella piccola miccia nascosta, che accesa, faceva esplodere in tanti piccoli frammenti l’enorme ed ingestibile problema. Lui era l’eccezione in questo mondo di apparenze, dove le facciate brillano come diamanti, ma dentro si nasconde solo del grezzo carbone. Lui era un vero diamante, od un vero carbone se preferite, ma lui era Vero.

    A Bari si trovava uno dei suoi migliori amici che conosceva sin da bambino, Rezza. Era più grande di Paolo di 4 anni, ma nonostante la differenza d’età, che generalmente nell’infanzia risulta importante, erano cresciuti insieme nelle piccole viuzze di Rasht, dove erano nati. I due erano l’uno l’opposto dell’altro caratterialmente, ed è probabilmente per questo motivo che rimasero sempre dei veri amici. Rezza era un ragazzo quieto, tranquillo. Non gli piaceva immischiarsi nei discorsi delle persone, prendere posizione, far valere le proprie ragioni. Quando parlava sembrava in un mondo parallelo, dove le cavallette fluttuavano, le persone si prendevano per mano tutte appassionatamente e facevano il girotondo. Non fraintendetemi, non era né hippy né fumato, aveva solo una calma interiore da sopraffare ogni cosa animata od inanimata a lui vicina. Paolo, il ragazzino che non sarebbero riusciti a fermare nemmeno con 10 carri armati in fila indiana, aveva scelto bene il suo compagno di giochi e scherzi. Se lo scherzo riusciva bene, Paolo sapeva che il merito era metà del suo migliore amico, il quale aveva l’inequivocabile ruolo di palo. Rezza era capace, con la sua sola presenza nel luogo dell’accaduto, di non fare ricadere sui due la colpa: chi mai poteva anche solo immaginare che uno con la faccia di Rezza avesse potuto prendersi gioco delle persone, deridendole? In effetti, soffermandoci ai veri fatti, lui non aveva nessuna colpa, si può semplicemente dire che si trovava nel posto giusto al momento giusto.

    Rezza era sempre stato un bel ragazzo, sin da bambino. Aveva il viso squadrato, con i lineamenti della mascella ben in risalto, ed il fatto che fosse molto magro in viso contribuiva a rendere ancora più evidenti i suoi lineamenti da uomo. Il suo sguardo nascondeva il suo fascino, così distante e così perso, così nascosto che molte donne se lo contendevano solo per scoprire dove era destinato, quale era il punto in cui finiva, perché quel punto doveva essere veramente magico, uno sguardo del genere non poteva finire nella normalità. Le sue sopracciglia erano folte e scure, disegnate con un pennarello come una linea, e gli occhi semichiusi con un’espressione quasi assente, ed allo stesso tempo intrigante. Il suo naso era lungo e con una piccola gobbetta in prossimità della fronte tipicamente medio-orientale, ma ciò rendeva Rezza sempre più uomo. Aveva dei bellissimi capelli folti e bruni, che gli arrivavano lisci sulla fronte, e che lui, con una netta linea sul lato sinistro, ordinava elegantemente sulla destra. A parte le spalle larghe, il suo corpo non era di sicuro da Mister Universo. Era semplicemente magro e 1,75 di altezza, questi forse i motivi per cui non divenne mai un attore del cinema. Rezza aveva trovato un lavoro in nero per mio padre come parcheggiatore. Lo aveva chiamato in fretta e furia ed in un lampo Paolo era tornato in Italia. Non poteva perdere questa opportunità, era ormai al verde ed aveva sulle spalle il peso di quattro persone da sfamare dall’altra parte del mondo. Al telefono non gli aveva nemmeno chiesto di che lavoro si trattasse, non era importante. Quello che contava era solo racimolare di nuovo un po’ di soldi, per poi ripartire alla ricerca della vita perfetta.

    Il padrone del garage aveva accettato di assumere l’extracomunitario appena arrivato da terre lontane per il turno pomeridiano che iniziava dalle ore 13 e finiva verso mezzanotte, con la chiusura del garage. Il garage si estendeva solo al piano terra con una capienza che poteva contenere fino a 100 macchine. Era buio, umido, e non filtrava nemmeno un raggio di sole. Per la maggior parte del tempo solo la guardiola di Paolo era illuminata, con la stessa luce color blu Neon caratterizzante tutti i garage. Il ruolo di Paolo era chiaro ed inequivocabile: restare in guardia nella guardiola, farsi notare appena avvistava una macchina dirigersi nel garage, prendere le chiavi e posteggiare la macchina del cliente senza farle alcun graffio. Aveva una clientela per lo più benestante: avvocati, medici e commercialisti. E così, un uomo con neanche una lira in tasca, senza un tetto sulla testa e senza un vero completo di Armani negli armadi (diciamo pure senza neanche gli armadi!) poteva permettersi di avere tra le mani le macchine più costose e belle del mondo, e sentirsi per quei pochi secondi nella vita qualcuno di importante.

    Le prime notti Paolo dormì a casa di Rezza e moglie, e con il passare dei giorni non tentò di trovarsi un’altra sistemazione, decise semplicemente che il suo luogo di lavoro sarebbe potuto diventare anche il suo dormitorio. Era una guardiola di 2 metri quadrati, racchiusa da vetro su tutti e quattro i lati, con una luce ed un piccolo bagno, quindi con tutto ciò che bastava per un uomo disperato che tentava di mettere da parte più soldi possibile. Chiese al padrone del garage il permesso di alloggiare in quella stanzetta anche durante la notte, il quale, oltre ad assegnargli anche il turno del mattino mostrando il proprio carattere imprenditoriale, gli diede un materasso singolo vecchio ed usurato da appoggiare per terra, mostrando anche una briciola di umanità. Quel materasso grigio e puzzolente salvò la schiena di Paolo dal duro cemento della terra. Papà iniziò a dormire e a lavorare, lavorare e dormire, e certe notti anche solo lavorare e lavorare. La voce sulla sua guardiola casa si sparse in breve fra i clienti abituali del garage, e Paolo iniziò a guadagnare qualche spicciolo con i ritardatari che venivano a far posteggiare la macchina dopo mezzanotte. Era girata voce che bastava bussare sulla serranda, e Paolo, colui che non riusciva mai ad entrare nel sonno profondo, sarebbe accorso in loro aiuto, parcheggiando la loro auto al sicuro. E questo non era tutto: era anche girata voce che questo ragazzo 32enne, venuto dalla Persia, era un grande carpentiere. Da mezzanotte, quando si chiudevano le serrande del primo lavoro, iniziava per Paolo il suo secondo lavoro: aggiustare qualche buco o lavare a secco i tappeti persiani dei clienti. Si era comprato i detersivi necessari per la pulizia dei tappeti ed aveva racimolato dai clienti più generosi aghi, fili e forbici per il restauro. La voce che era girata era verità, il tappeto per un iraniano era come la pizza per un italiano, sarebbe stato impossibile trovare una persona che non lo sapesse fare. La vita notturna di Paolo era identica alla sua vita diurna, non vi filtrava mai un raggio di sole e lui spesso perdeva la cognizione del tempo lavorando fino al sorgere del sole, che riconosceva solo con il suono della sveglia. La guardiola possedeva solo un bagno ed un lavandino, lo stretto necessario ma non sufficiente per la permanenza di un lungo periodo. Senza poter fare una calda doccia dopo il lavoro, papà imparò a mettere da parte l’imbarazzo e l’orgoglio, così quell’uomo che fino ad allora nella vita girava con i pantaloni con la riga perfetta stirata dalla moglie, che andava sempre fuori con la camicia pulita, possedeva ora vestiti neri di lerciume, ed il sabato veniva ospitato a casa di Rezza per una vera doccia. Una scia di acqua nera scendeva dal suo corpo ogni weekend, tutto il nero che era stato accumulato durante quella settimana di lavoro in un garage non areato. In quella scia si confondevano le sue lacrime, ritenute troppo poco maschili per poter correre sulle sue guance ogni qualvolta fosse triste. Lui aspettava con ansia quella doccia, quando la sua anima avrebbe potuto essere triste liberamente, ed il suo corpo non avrebbe potuto distinguere una lacrima da una goccia d’acqua. L’acqua si portava via tutto il suo dolore accumulato nella settimana, tutta la sua ansia di non potercela fare e la sua paura di fallire. Usciva dalla doccia come rinato, e quando asciugava il suo viso dalle gocce d’acqua e lacrime salate, il suo sguardo tornava quello di un uomo deciso ad andare fino in fondo, non vi era più spazio per la paura per un’altra settimana intera.

    Paolo il rivoluzionario

    Figlio primogenito di sette figli, Paolo non se l’era passata male quando era bambino. Vigevano regole rigide e precise in quella casa colma di gente, in quanto suo padre era un generale dell’esercito, ma nonostante ciò al figlio maschio primogenito solitamente tutto era concesso. I privilegi erano tanti, così quanti erano i doveri: il padre passava lunghi periodi nell’esercito, lasciando il carico dell’intera famiglia a Paolo. E così, a quel giovane Paolo, come a quel giovane Pupone, era assegnato l’immancabile compito di badare a tre sorelle e tre fratelli. Siccome ad un ufficiale dell’esercito non mancano mai i soldi, possedevano una grossa casa con

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