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Una famiglia per Natale
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E-book335 pagine4 ore

Una famiglia per Natale

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Romance - romanzo (276 pagine) - La magia del Natale può contribuire a rinsaldare l'amore, anche nei confronti della propria famiglia?


Dopo dieci anni passati in Canada, Camilla Temple, ex campionessa olimpica di pattinaggio su ghiaccio, rientra in Inghilterra con un figlio. Dovrà affrontare i fantasmi del passato: il padre del bambino Andrew Farley, futuro duca di Northfield, che era stato il suo grande amore, e i suoi genitori, che non avevano digerito quella gravidanza senza un adeguato matrimonio. Natale potrebbe rimettere a posto tutti i pezzi del puzzle, ma si deve credere nella sua magia…


Pandora Brown nasce a Edimburgo, dove  a vent'anni conosce il futuro marito, un italiano, che la convince a lasciare la nativa Scozia per la più calda Toscana. Oggi, a sessant'anni, vive in Transilvania. Innamoratasi della regione romena, ha deciso di viverci in pianta stabile, traendone ispirazione per i suoi romanzi d'amore, nel cuore di una regione resa famosa da ben altro genere letterario. Con Vlad Dracul, meglio conosciuto come il Conte Dracula, condivide solo il rosso e la Transilvania!

LinguaItaliano
Data di uscita18 dic 2018
ISBN9788825407723
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    Anteprima del libro

    Una famiglia per Natale - Pandora Brown

    9788825405361

    Prologo

    Sarebbe stata la mia ultima passeggiata da residente in Canada.

    Dopo quasi nove anni, avevo deciso di fare ritorno nel mio paese d’origine: l’Inghilterra. Era lì che viveva la mia famiglia, anche se i rapporti erano ormai ridotti al lumicino. Era arrivato il momento di tornare a casa. D’altro canto, avevo sempre saputo che l’avventura canadese un giorno avrebbe avuto fine. Mi ero ripromessa di compiere quel passo solo quando fossi stata certa che le cicatrici si fossero del tutto rimarginate. Non erano ferite fisiche, a quelle il mio fisico avrebbe saputo reagire molto più rapidamente, si trattava di lacerazioni interiori, qualcuno si era preso il mio cuore, riducendolo in mille pezzettini.

    Mi aggiravo con tanta malinconia per il vecchio centro di Montreal. Cercavo d’immagazzinare i tanti piccoli dettagli, che nel corso delle passeggiate domenicali, erano stati miei compagni di spensieratezza e svago. Tutto, da lì a poco, sarebbe diventato un ricordo. Sia ben chiaro, nessuno mi stava obbligando a farlo, ma sapevo che fosse la scelta migliore. Daniel aveva compiuto otto anni e gli echi dello scandalo si erano ormai affievoliti. Potevano tranquillamente fare ritorno in madre patria e vivere una vita nella totale discrezione, senza fari puntati addosso e con le persone che nonostante le incomprensioni degli ultimi anni, facevano parte della mia famiglia. Visto il cognome che portavo, qualche giornale di gossip avrebbe provato a ritirare fuori le vecchie chiacchiere, ma sapevo come gestirle. Buona parte della mia vita era stata, per anni, tra le colonne di giornali sportivi più importanti del mondo.

    Due ori olimpici conquistati nel pattinaggio artistico di figura, mi avevano trasformato in un’icona sportiva internazionale. Al mio ritiro ero talmente stanca di ghiaccio e lamine, che preferii abbandonare del tutto le piste di pattinaggio. Tanti miei compagni d’allenamento e gare, lasciata la carriera agonistica, si erano dedicati alle esibizioni, lo show business però non entra nelle mie corde. Oltretutto l’inatteso arrivo di Daniel aveva messo la parola fine a ogni altra possibilità.

    I

    Tenevo per mano mio figlio, assaporando ogni passo di quell’ultima tranquilla passeggiata canadese. A molti potrebbe suonare strano, ma volevo immagazzinare il ricordo di quel freddo rigido, che era stato il mio fedele e inseparabile compagno, durante i lunghi inverni nel Québec. Gli odori del freddo sono qualcosa di veramente unico e indescrivibile, solo chi riesce a percepirne l’essenza, può comprendere le sensazioni che provocano. Camminavo, rispondendo distrattamente alle tante domande di mio figlio Daniel. Era curioso di sapere ogni possibile cosa sull’Inghilterra, nello stesso tempo io cercavo di capire quale fosse stato l’elemento scatenante che mi aveva portato a una decisione tanto improvvisa, quanto inaspettata. Soltanto un mese prima, se qualcuno mi avesse chiesto quando avrei fatto ritorno in Inghilterra, la mia risposta sarebbe stata un secco mai. Non riuscivo a capacitarmi di come avessi ceduto tanto rapidamente alla flebile richiesta di chiarimenti. I miei genitori desideravano mettere la parola fine a quella separazione, a loro dire insensata e dolorosa. Senza dubbio, molto aveva pesato la stanchezza per la solitudine forzata che mi ero imposta. Sì, non c’erano altri motivi che mi avrebbero potuto convincere, aspettavo solo una banale scusa. Mia madre l’aveva offerta, servita su un piatto d’argento, per quale motivo non cogliere l’occasione al balzo? Ero partita quasi dieci anni prima da Londra, piantando tutto e tutti, in sole ventiquattro ore. All’epoca avevo appena acquistato una casa a Hampton Court, non lontano da Londra, ma poco importava. Non era il caso di rimanere, non in quelle condizioni, la casa poteva anche aspettare, non sarebbero stati quattro mattoni a tenermi ancorata in un posto. Se avessi dovuto affrontare la gravidanza da sola, tanto sarebbe valso farlo lontana dai ricordi e da chi non mi accettava. Mio padre era stato molto chiaro, non era in alcun modo disposto ad affrontare uno scandalo di tale portata. Se fossi voluta rimanere, mi sarei dovuta liberare di quel fardello imbarazzante. Non era immaginabile che quel bambino vedesse la luce senza un padre. Non ebbi alcuna esitazione. Non avevo bisogno dell’appoggio finanziario della mia famiglia. I milioni guadagnati con gli sponsor, nel corso degli anni, mi avevano già da qualche tempo resa completamente indipendente dalle risorse della famiglia. Ero libera di scegliere e muovermi nella più completa autonomia. L’opzione ottimale mi era sembrata il Canada. Un posto al quale ero ormai abituata, per via dei lunghi periodi d’allenamento passati in quello sconfinato paese. Senza l’aggravante d’impegni sportivi e con tutto il tempo che volevo a mia disposizione, conseguii la laurea di lingue e letteratura straniera all’università di Montreal. In breve tempo intrapresi quella che a tutt’oggi è ancora la mia attività professionale, la traduttrice. Ero sempre stata portata all’apprendimento di altre lingue. Mio nonno si divertiva parlandomi anche in latino e greco antico. Trovavo facile entrare nella logica e nella struttura di diversi idiomi. Da qualche anno ero riuscita a crearmi una buona credibilità nel settore delle traduzioni di opere letterarie straniere e, cosa ancora più importante per una mamma single, potevo svolgere tutto il mio lavoro da casa. Avessi voluto, avrei potuto trasferirmi nell’arco di ventiquattro ore, anche a Katmandu. L’importante era essere raggiungibile da una semplice connessione internet. Ero talmente assorta nei miei pensieri da non sentire mio figlio, che continuava a ripetermi la stessa domanda.

    – Mamma, mi sento quando parlo? I nonni sono cattivi?

    – No! Come ti salta in mente una cosa del genere? – La terza volta non potei fare a meno di rispondergli.

    – Non siamo mai andati a casa loro. In tutti questi anni non sono mai venuti a trovarci qui a Montreal, perché ci andiamo proprio questo Natale? Che cosa è cambiato?

    Aveva ragione, anche se piccolo, aveva bisogno di spiegazioni plausibili, non potevo trattarlo come un pacco.

    – Quest’anno il nonno ha deciso di ritirarsi a vita privata, dopo tanti anni di lavoro è finalmente andato in pensione. La sua occupazione l’ha portato a girare in lungo e largo per il mondo e questo gli ha impedito di avere una vera e propria casa. Ora che finalmente può rilassarsi e ha più tempo da dedicare alla famiglia, ha chiesto di conoscerti. – Si trattava di una mezza verità, ma sarebbe stata sufficiente per un bambino di nove anni. Nel corso della sua carriera, mio padre era stato ambasciatore inglese a Parigi, New York e Mosca, La casa, che lui e la mamma si erano costruiti nel tempo, era rimasta disabitata per lunghi anni. Speravo che quella spiegazione potesse essere sufficiente, a un bambino con un’intelligenza superiore alla media.

    – Non riesco comunque a capire per quale motivo non abbia mai trovato il tempo di scriverci. Non mi ha mai mandato gli auguri di compleanno. I miei amici passano il Natale e le feste con zii, cugini e nonni, noi invece, siamo sempre stati da soli. Ogni volta che ho provato a chiederti qualcosa, mi hai risposto che tu ed io eravamo una piccola grande famiglia. Perché adesso loro mi vogliono conoscere? – I suoi occhi poi s’illuminarono. – Questo vuol dire che conoscerò anche le tue sorelle! Ho anche dei cugini, vero?

    Già, le mie due care sorelle. Non avevano esitato un attimo a mettermi da parte. La figlia perfetta aveva finalmente compiuto il passo falso, quello che probabilmente si auguravano da anni. Più di una volta, arrivata in Canada, avevo provato a ristabilire con loro un rapporto, ma invano. Le mie telefonate erano sempre accolte con freddezza e totale distacco. Passati i primi due anni, ci misi una pietra sopra e rinunciai anch’io a ricucire un rapporto, per altro mai stato buono. In cuor mio, per un po’ di tempo sperai che fossero loro a cercarmi, ma fu una vera e propria illusione. Intendiamoci, non mi aspettavo un atteggiamento diverso. Vivono in funzione di ciò che appare, poca sostanza e tanta, tantissima forma. Avevano basato l’intera esistenza, sul ruolo da ricoprire in società. Era di vitale importanza essere considerate negli ambienti giusti e soprattutto che fosse tributata la giusta reverenza a persone del loro rango. Non potevano permettersi il lusso di avere una sorella single, con un figlio a carico. I primi tempi furono veramente duri, il tempo però è il medico migliore che si possa avere. Con lo scorrere degli anni ero riuscita a distaccarmi definitivamente da loro, non avevamo più nulla da spartire. Paradossalmente, a dispetto del salto generazionale, era molto più moderno il padre di mia madre, che non mi aveva mai giudicato ed era stato l’unico a mantenere un rapporto d’affetto con me. Purtroppo, come tutti i nonni, se ne era andato in punta di piedi. Ci rendiamo conto troppo tardi, di quanto siano stati importanti nella nostra vita e quando vorremmo restituirgli tutto l’amore che ci hanno dato incondizionatamente, si congedano, lasciandoti con il nodo alla gola e il rimpianto di non avergli dimostrato che tutto il loro amore era ricambiato.

    Daniel stava crescendo e come ogni bambino della sua età, faceva tutte le domande possibili che gli balenavano per la testa. Avrei dovuto trovare le parole giuste, per dare delle risposte adeguate. Non potevo semplicemente dirgli che suo nonno non aveva accettato la nascita di un nipote, senza padre legittimo.

    – Perché non finisci il tuo panino? L’hot Dog rischia di diventare ancora più freddo di quello che in realtà sia. Se ti sbrighi, possiamo andare a sistemare le ultime cose.

    – Non torneremo più a Montreal? – Era piacevole sentirlo parlare, con quel suo delicato modo di pronunciare le parole in francese.

    – Non si sa mai, questa rimarrà sempre casa nostra e se avremo nostalgia delle nostre passeggiate, potremo tornare di tanto in tanto, per adesso pensa che andremo a vivere in un posto meraviglioso, dove c’è la regina! Non eri tu che volevi fare il cavaliere?

    – Andremo a conoscere la regina? Ci inviterà nel suo castello?

    Questo andava notevolmente oltre l’immaginario. Avevo incontrato la regina Elisabetta, tre volte per riconoscimenti sportivi e una sola volta per motivi diplomatici, nel corso del ricevimento dato a Buckingham Palace, in occasione dell’investitura di mio padre ad ambasciatore britannico negli Stati Uniti.

    – Non credo abbia il tempo per riceverci, ma ti porterò a visitare il palazzo reale! Sai che alcune sale sono aperte al pubblico?

    Daniel era sempre stato affascinato da storie e racconti di re e regine e contavo di poterlo distrarre in quel modo. Dovevo porre fine a quell’interrogatorio, che si stava rivelando un vero e proprio supplizio.

    – Mamma, che ne dici se prima di andare a casa, passiamo a visitare per un’ultima volta la chiesa di Notre Dame?

    – Bellissima idea! – Non mi sembrava vero, in quel momento avrei ceduto a qualsiasi richiesta pur di fargli cambiare argomento. Trascorremmo in totale serenità le ultime ore a Montreal, città che fino a quel momento, aveva rappresentato il nostro rifugio.

    Rientrammo a casa nel pomeriggio, esausti per la camminata e il gran freddo. I ricordi immagazzinati nei nostri cuori, sarebbero stati sufficienti fino al nostro prossimo viaggio. Non c’erano dubbi sul fatto che, di tanto in tanto, saremmo tornati da queste parti. Feci appena in tempo a chiudermi la porta alle spalle, che il telefono iniziò a squillare. Guardai lo schermo del cellulare, nel tentativo di capire chi fosse. Non ero dell’umore adatto per rispondere a telefonate poco gradite. Il numero mi era familiare, Risposi, sollevata dall’identità del mio interlocutore, era Luise Williams. Per tutto il periodo della mia assenza si era trasformata nella mia persona di fiducia in Inghilterra, prendendosi cura della mia proprietà a Hampton court. Più di una volta avevo affidato la casa in gestione a un’agenzia immobiliare, con lo scopo di venderla e liberarmene. Non aveva senso tenerla se mi ero ormai sistemata in Canada. Quando però che ero sul punto di terminare una trattativa, presa da uno strano presentimento, mandavo a monte la vendita. Non riuscivo a liberarmi di quel filo invisibile con la mia patria. Sapevo che un giorno avrei fatto ritorno dove tutto era iniziato, mi mancava solo il coraggio di ammetterlo e metterlo in pratica.

    Risposi al quarto trillo. – Buongiorno Signora Williams, tutto bene? – Sorridevo come se lei fosse in grado di vedermi.

    – Sì, signora Temple, volevo solo dirle che oggi sono arrivati gli ultimi scatoloni. Il corriere internazionale li ha scaricati qualche ora fa. Ho fatto del mio meglio per sistemare quanta più roba possibile. I mobili del bambino e della sua camera, sono già stati disposti, spero le piaccia il risultato. Per ogni altra cosa, reputo opportuno sia lei a sceglierne la dislocazione, Ho arieggiato le stanze. La casa è in ottime condizioni, ma può bene immaginare che, dopo essere stata disabitata per tanto tempo, avesse bisogno di un intervento.

    – Non poteva fare cosa migliore, Williams. È tutto funzionante?

    – Ho fatto del mio meglio. Mancate solo voi due!

    – Grazie mille, signora Williams. Conto di essere lì per domani sera. Posso chiederle la cortesia di accendere il riscaldamento sin dalla mattina? Non vorrei trovare la casa ghiacciata.

    – Non si preoccupi, è già stato tutto programmato. Abbiamo fatto installare un sistema automatico di accensione. Troverà una casa caldissima, pronta ad accoglierla. Non mi chieda però di spiegarle il funzionamento di questo marchingegno, avrei grandi difficoltà! Ci penserà mio figlio, io sono veramente negata per tutto quello che significhi tecnologia, so solo accendere e spegnere!

    – Non oso immaginare, come sia cresciuto suo figlio Kieran! – Consideravo il figlio della Williams, un nipote acquisito. Gli ero molto affezionata.

    – Si è fatto uomo, senza che me ne accorgessi! Avremo tutto il tempo di parlarne da domani, ora finisca di prepararsi. Sarò qui ad aspettarla.

    – A domani signora e ancora grazie. – Chiusi la telefonata e rivolsi nuovamente le attenzioni a mio figlio. Era malinconico e non potevo dargli torto. Gli stavo chiedendo molto. Daniel era nato e cresciuto in Canada. L’inglese ero io, per lui la Gran Bretagna era un paese straniero, dove al massimo avrebbe pensato di visitare per una vacanza.

    – Stai tranquillo tesoro, sono sicura che farai tanti nuovi amici e avrai modo di divertirti dove andremo a vivere. Te lo prometto

    – Billy non ci sarà. – Era il suo migliore amico e lasciarlo in Canada, rappresentava l’unico vero grande dolore per Daniel.

    – Sì, ma ti ho promesso che verrà a trovarci quest’estate, come terminano le scuole. Quando arriverà, tu lo porterai a visitare le tante belle che nel frattempo avrai scoperto.

    – Come un esploratore?

    – Esatto, farai come Indiana Jones.

    Daniel annuì più per stanchezza che per convinzione.

    Cenammo velocemente con dei panini, che avevo comprato poco prima di salire, non avevo voglia di mettere in disordine la cucina. L’indomani un’agenzia immobiliare, si sarebbe presa cura di trovarmi un affittuario. Non volevo tagliare di netto il mio legame con il Canada. Avevo fatto tesoro della mia precedente esperienza con la casa di Hampton e non escludevo un ritorno a Montreal. Se le cose non fossero andate per il verso giusto, Daniel ed io avremmo nuovamente fatto i nostri bagagli.

    – Giovanotto, credo sia ora di andare a fare la ninna. So che ti sembra strano andare a letto tanto presto, ma domani mattina ci dovremo svegliare all’alba, per andare in aeroporto!

    Gli occhi di Daniel brillarono. Non era la prima volta che prendeva un aereo, ma sapere che fosse tanto grande e a due piani, lo eccitava. Avrebbe avuto tante cose da raccontare ai suoi vecchi e nuovi amici.

    – Vado a lavarmi! – Corse via.

    – Bravo il mio piccolo cucciolo, tra un po’ vengo a darti la buonanotte! – Mentre il bambino era in bagno, ne approfittai per controllare gli ultimi bagagli. Feci un rapido giro tra le stanze di casa, assicurandomi di avere lasciato solo lo stretto necessario.

    – Mamma! Sono a letto, vieni a darmi il bacio della buonanotte?

    – Arrivo!

    Lo trovai in pigiama, coperto fino al collo e con il suo piccolo orsacchiotto di pelouche tra le braccia.

    – Teddy sarà felice di venire in Inghilterra? Lui è un orso bianco e ha bisogno del ghiaccio e della neve, – mi disse sconsolato.

    – Certo tesoro, a lui basta sapere che ci sei tu, il resto non conta e poi non credere, l’inverno è freddo anche in Inghilterra, non stiamo mica andando in Italia!

    – Che ne dici, se gli prendessimo un amichetto? Forse soffrirebbe di meno.

    – Credo sia una fantastica idea. Come arriviamo a Londra andiamo a cercare il giusto compagno per Teddy! Sai, c’è un meraviglioso negozio di giocattoli vicino a Piccadilly Circus, lì potremmo trovargli la giusta compagnia.

    – Perché non domani in aeroporto? Non ci sono anche lì dei negozi?

    – Perché il posto di cui ti ho appena parlato, è uno dei più famosi al mondo. Comunque, se domani al duty free trovassimo quello che cerchiamo, lo prendiamo e lo portiamo via con noi. Ora dormi!

    Lo guardai negli occhi, blu come il mare. Ogni volta che mi soffermavo ad ammirarne il colore ero assalita dai ricordi. Erano identici a quelli del padre, non solo il colore, ma anche il taglio con le lunghe ciglia. In ogni sua semplice espressione riuscivo a cogliere l’espressione di Andrew. Dopo tutti quegli anni, si trattava di un dolore con il quale avevo silenziosamente imparato a convivere. Daniel era anche suo figlio, anche se lui ne ignorava l’esistenza.

    Andrew rappresentava il mio grande problema irrisolto. A causa sua, ero fuggita in Canada. Non volevo fargli sapere che fosse diventato padre. Mi aveva profondamente deluso, rivelandosi un ragazzo viziato e immaturo. Non meritava la paternità allora, tantomeno adesso che il bambino era cresciuto e si era rivelato una creatura meravigliosa. Speravo solo di non vedermelo apparire davanti e che avesse scelto di vivere a Londra e non a Hampton Court. In fondo quel piccolo villaggio avrebbe avuto ben poco da offrire a uno dei rampolli più ambiti dalle ragazze di tutto il Regno Unito. Ma sì, di cosa avevo paura? Certamente un amante della bella vita come Andrew, doveva trovarsi più a suo agio nella vita mondana e caotica della capitale.

    II

    Il volo della British Airways si rivelò molto piacevole. Sorvolammo l’Atlantico senza la minima turbolenza e Daniel fu coccolato dagli assistenti di volo. A turno passavano per accertarsi che la nostra permanenza a bordo fosse di nostro gradimento, offrendogli dolcetti e caramelle. L’eccitazione raggiunse il suo culmine, quando il responsabile di cabina lo prese per mano, conducendolo nella cabina di pilotaggio. Tornò dopo pochi minuti, la gioia era incontenibile, riversandomi addosso un fiume di parole per descrivere l’infinito numero di bottoni e leve.

    – Mamma, il capitano mi ha fatto prendere la cloche! Ho pilotato un Boeing 747!

    Guardai perplessa il capo cabina che mi tranquillizzò con un occhiolino. – È la magia del pilota automatico, Signora Temple!

    Conosceva il mio nome. Eppure, non mi sembrava il tipo che avesse potuto seguire le mie imprese sportive. Avevo oltretutto lasciato tutto dieci anni addietro.

    – Posso chiederle una grande cortesia?

    – Certo, mi dica pure

    – Mia sorella è stata una sua grandissima fan. Ora è sposata e ha perfino un figlio, ma se tornassi questa sera a casa con un suo autografo, sono certo scoppierebbe a piangere dalla gioia.

    – Sarà un vero piacere. – Ecco spiegato l’arcano. Presi il blocchetto e la penna che mi stava porgendo. – Se mi dice il nome di sua sorella, personalizzo la dedica.

    Il capo cabina mi sorrise e scrissi qualche riga di riconoscenza alla sorella, Jill.

    Atterrammo a Heathrow nell’orario previsto. Daniel, dopo l’avventura della cabina di pilotaggio, era caduto in un sonno profondo, dormendo per la rimanente durata del volo. Non impiegammo molto tempo a ritirare i nostri bagagli. Impilammo le valigie sul carrello e superammo il controllo passaporti, da lì a poco avrebbe avuto inizio la caccia al taxi.

    Tutto potevo immaginare, fuorché trovarmi davanti a mia madre. Lady Temple si era degnata di presentarsi in aeroporto. Non lo aveva mai fatto con nessuno, almeno in passato. La donna che ricordavo, si sarebbe limitata a inviare l’autista. Non era mai stata tipo da scomodarsi, troppo presa dai suoi impegni mondani. Persino ai miei ritorni dai giochi olimpici non si era fatta trovare in aeroporto C’era sempre stato l’autista, pronto a riportarmi a casa. Qualcosa di strano stava bollendo in pentola, avrei dovuto soltanto scoprirlo. Fu in quel momento che feci mente locale, realizzando che fossero passati ormai passati dieci anni dal nostro ultimo incontro. Conoscevo perfettamente i suoi cambi di look. Non c’era rivista di gossip, degna di potersi definire tale, che non annoverasse foto di Lady Temple, almeno una volta al mese. Era sempre impegnata a patrocinare ogni possibile evento benefico con la sua fondazione. Deglutii a fatica, dopo dieci anni, quella donna virago, riusciva ancora a incutermi un senso d’insicurezza e rabbia. Come avrei dovuto salutarla? Non aveva mai mostrato una propensione a manifestazioni d’affetto, sia un pubblico, sia in privato. Chiunque ci avesse visto in quel momento, a tutto avrebbe potuto pensare fuorché al fatto che fossimo madre e figlia, una di fronte all’altra dopo anni. Ero certa del suo affetto, ma non era tipo da rivelare emozioni. Che diamine, non era neanche inglese, nata in Francia, come la baronessa Mathilde Blancroix di Saint Pierre. Mio nonno, un barone dedito alla produzione di Champagne, durante una delle tante scorribande giovanili sulla Costa Azzurra, aveva conosciuto la nonna: una ricchissima ereditiera, che con il suo denaro gli aveva risparmiato la fatica di doversi cercare un vero e proprio lavoro. La mamma era stata l’unico frutto di quell’unione e crebbe coccolata e viziata. In uno dei suoi viaggi studio in Inghilterra conobbe mio padre, il secondo genito di Lord Norman Temple, undicesimo conte di Downwood. Da che si era sposata, non aveva più fatto ritorno in Francia. Manteneva i suoi affari e i suoi interessi per procura, pagando uno stuolo di avvocati. Si sentiva inglese, con tutti i vantaggi o svantaggi che quel passaporto potesse comportare.

    – Ciao mamma. – Non riuscii a dire altro.

    Mi sorrise e contrariamente al suo modo di fare, riuscì anche ad accennare un tiepido abbraccio. Non potei fare a meno di ricambiare con la stessa freddezza e formalità. Sembrava quasi un incontro di routine, come mi avesse salutato soltanto qualche giorno prima. Ammiravo e detestavo quella sua incredibile capacità di saper controllare ogni emozione. Io ero riuscita a farlo solo sulla pista di pattinaggio, ma nella vita ero un vero disastro d’emozioni. Si staccò velocemente da me e abbassò lo sguardo, degnandosi di studiare meglio il bambino.

    – Tu devi essere il piccolo Daniel.

    – Mes oui madame. – Rispose subito mio figlio.

    – Tesoro qui siamo a Londra, – gli rispose quasi seccata e con aria di sufficienza, – metti da parte il francese. – Nessuno sarebbe riuscito a farla cambiare. Mai le sarebbe entrato in testa, che non si poteva parlare a un bambino come fosse un adulto. Nonostante fosse nata francese, era ancora più formale di un inglese nato e cresciuto nel Surrey.

    – Sì, signora. – Rispose di nuovo il bimbo intimidito. Si era presentata rimproverandolo dal primo scambio di battute. Non era certo un buon inizio.

    – Daniel parla due lingue mamma, è nato e cresciuto in Quebec e a scuola fanno un uso indistinto di entrambe. – Cominciavo a perdere la pazienza

    Mia madre non prestò la benché minima attenzione a quello che stavo dicendole. M’ignorò, continuando a parlare con Daniel. – Qui non occorre che utilizzi il francese, comunque tesoro, giacché la tua mamma non ci ha ancora presentato, io sono tua nonna.

    Daniel mi guardò confuso, stava cercando nel mio sguardo il cenno di una conferma e soprattutto, non sapeva più come rivolgersi a quella donna. Aveva più l’aria di un’istitutrice tedesca che non di una nonna.

    – Sì Daniel, la signora è tua nonna, puoi salutarla con meno formalità.

    – Ciao nonna. – Gli regalò uno dei suoi tenerissimi sorrisi, ma non fece nulla per avvicinarsi e darle un bacio, come sarebbe stato naturale fare, in una situazione del genere.

    Lei d’altro canto, non era tipo da sciogliersi tanto facilmente, purtroppo ne sapevo qualcosa. Si limitò a sorridere al nipote appena conosciuto e a concedergli una veloce carezza sulla testa. Se non altro, era un approccio, vicino a quello che per i suoi standard, poteva definirsi un contatto fisico con un altro essere umano.

    – Mi hai colto di sorpresa, non credevo di trovarti qui in aeroporto, mamma. – Ero a dir poco stupita da quel gesto gentile. Nonostante stesse facendo del suo meglio per mostrarsi cordiale, le era impossibile celare la naturale glacialità e incapacità di comunicare emozioni; era inutile illudersi, non c’era la benché minima possibilità che gli anni avessero in qualche modo ammorbidito il suo carattere. Io stupidamente avevo continuato a chiedermi per quale motivo non fossimo riuscite a creare un legame affettivo. Con il suo modo di fare, pur con la sua totale assenza, era riuscita a condizionare la mia vita e il modo di relazionarmi con mio figlio. Io e le mie sorelle eravamo cresciute passando da una tata all’altra. Fu probabilmente per questo motivo che non avevo mai preso in considerazione l’idea di prenderne una per Daniel. Riversavo su lui, tutto l’affetto che avrei voluto ricevere

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