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Trilogia Passioni Lesbiche: Slabbrami - Titillami - Cunnilinguami
Trilogia Passioni Lesbiche: Slabbrami - Titillami - Cunnilinguami
Trilogia Passioni Lesbiche: Slabbrami - Titillami - Cunnilinguami
E-book84 pagine1 ora

Trilogia Passioni Lesbiche: Slabbrami - Titillami - Cunnilinguami

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Info su questo ebook

Questo ebook raccoglie i tre capitoli delle avventure saffiche di Jessica in unico volume scontato.
A causa del linguaggio e delle scene esplicite si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

Slabbrami
Jessica è una studentessa svogliata che dalla Calabria si trasferisce a Pisa per fare contenti i genitori, i quali la vorrebbero laureata e col futuro assicurato.
Una volta lì, esplorerà le molteplici possibilità che la città offre per sperimentare il sesso lesbo.

Titillami
Proseguono le avventure saffiche di Jessica in quel di Pisa, ma stavolta la sua intraprendenza le giocherà un brutto scherzo.
Questo la costringerà a rivedere i suoi programmi per il futuro, che nell’immediato prevedono una pausa di riflessione in Calabria, sua terra d’origine, dove non si lascerà sfuggire l’occasione per rifarsi.

Cunnilinguami
Dopo aver tentato invano di dare una svolta alla sua carriera universitaria, Jessica cambierà drasticamente vita e metterà su casa a Portovenere, nel Golfo dei Poeti, crocevia marittimo perfetto per prendere all'amo le sue prede.

LinguaItaliano
EditoreDeborah C.
Data di uscita23 apr 2017
ISBN9781370885046
Trilogia Passioni Lesbiche: Slabbrami - Titillami - Cunnilinguami
Autore

Jessica Taddei

Autrice lesbica

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    Anteprima del libro

    Trilogia Passioni Lesbiche - Jessica Taddei

    A scuola mi vestivo come un maschiaccio. Anfibi, jeans strappati, magliette extra-large. Quei vestiti urlavano la mia insofferenza verso il mondo che mi circondava. La mia crociata personale contro l’ipocrisia di una società che mi costringeva nei suoi parametri di pubblico decoro. Mi vestivo male anche per fare un dispetto a mia madre, che fino a quel momento mi aveva fatto andare in giro come un’educanda.

    Appena iscritta al primo anno di Ragioneria, guardavo alle ragazze di 5ª come a delle eroine. Erano state capaci di arrivare fin lì nonostante gli insegnanti di merda, i bulli, le prese in giro, le prime delusioni amorose. Nonostante l’adolescenza, il che è tutto dire.

    Wow, mi sorprendevo a pensare, sono a tanto così dal salto che le renderà libere. Indipendenti. Adulte.

    Ricordo che un giorno di fine settembre, durante la ricreazione ‒ che passavo perennemente appoggiata a una colonna portante del secondo piano ‒, due ragazze della 5ª C bighellonavano a pochi metri dal mio angolino per sfigati. Il viso della ragazza più alta brillava di luce propria: le ridevano perfino gli occhi, che traboccavano di gioia di vivere, curiosità, voglia di conquistare il mondo. Mi ritrovai a invidiarle quei capelli così folti e ricci da sembrare cotonati, e quella pelle ancora abbronzata, apparentemente immune all’acne che affliggeva noi comuni mortali. La sua personale forma di ribellione consisteva nell’indossare calze a righe dei colori più disparati, infilate in un paio di anfibi con i lacci penzoloni, e una minigonna di jeans con un teschio cucito sulla piega sinistra. La osservai girarsi verso la compagna di classe e ridere di gusto a una sua battuta, che purtroppo non riuscii a cogliere, imbambolata com’ero a guardarla. Tutto sul suo viso sorrideva: le labbra lucide di burro cacao, il naso che si arricciava leggermente, gli occhi piccoli che scomparivano fino a diventare due fessure brillanti. Superandomi, si lasciò dietro una scia di profumo dozzinale, che in quel momento avrei pagato qualsiasi cifra per avere.

    Bisogna credere ai colpi di fulmine? Lesbiche si nasce o si diventa? Non lo so e non mi interessa.

    Qualche psicologo da strapazzo potrebbe tirare fuori la storiella che io abbia idealizzato Katia, la ragazza della 5ª C, idolatrandola al punto da annullare me stessa per assomigliarle. Che abbia proiettato sulla sua figura tutti i miei sogni e aspettative di adolescente confusa e combattuta.

    Cazzate.

    È vero che volevo essere come lei, ma non per una misera compensazione psicologica. Volevo essere Katia Corsini perché era bellissima, aveva due tette che parevano due siluri pronti a sparare e un culo a mandolino nel quale sarebbe stato meraviglioso naufragare.

    Quell’anno mi mandarono in presidenza due volte. Rubavo dal registro di classe di Katia le sue giustificazioni per le assenze, e quando tornavo a casa le pinzavo come un cimelio alle pagine del mio diario segreto, disseminate di cuoricini sulla lettera i del suo nome.

    Alla fine del secondo quadrimestre mi bocciarono. Nella mia testa non c’era spazio per materie e interrogazioni.

    La mia mente era interamente occupata da Katia Corsini, classe 1976. Alta 1,70, mora, occhi d’ambra.

    La mia prima cotta saffica.

    Come ogni infatuazione che si rispetti ‒ e complice il tempo che sbiadisce i ricordi e lenisce il dolore ‒ anche l’ossessione per Katia andò rapidamente scemando durante l’estate della mia bocciatura e del suo diploma. Quando a settembre riprese la scuola, i contorni del suo viso erano già sfocati.

    Non mi capitò più di perdere la testa per una ragazza nei restanti cinque anni che passai a Ragioneria, durante i quali le malelingue non mi risparmiarono battute e frecciatine, non vedendomi mai correre dietro ai ragazzi né tantomeno fare apprezzamenti sul più figo della classe.

    Alla fine riuscii a cavarmela e a uscire indenne dalle scuole superiori. Ero libera finalmente, anche se si rivelò una libertà effimera e illusoria. I miei genitori volevano che andassi all’università e prendessi una laurea – fondamentale, a loro dire, per entrare nel mondo del lavoro ‒, così mi iscrissi a Lingue e Letterature Straniere, il male minore. Pensai che il primo anno avrei potuto sbattermene alla grande e ciondolare per Pisa facendomi i cazzi miei. Quando fosse sopraggiunto il momento di dare gli esami, mi sarei inventata qualcosa, tanto poi sarebbe iniziata l’estate, sarei tornata giù a casa in Calabria e tanti saluti.

    Per ottenere la borsa di studio, bisognava rientrare in un certo range reddituale e dichiarare gli introiti familiari dell’anno precedente nell’apposito modulo di richiesta. Per fortuna mio padre aveva sempre fatto il contadino in vita sua, quindi fu un gioco da ragazzi aggiudicarsi la borsa di studio da due milioni e quattrocentomila lire, corredata anche di un posto letto in un alloggio universitario a disposizione degli studenti fuori sede. Mi consegnarono le chiavi di una stanzetta che sembrava la cella di un convento di monache di clausura. Soffitto ad arco altissimo, pareti di un bianco ospedaliero e una rete cigolante con tanto di materassino di cinque centimetri che doveva aver fatto la guerra. Il giorno che mi fecero entrare per prendere possesso della camera, dovetti armarmi di scopa, stracci e candeggina per rimetterla a nuovo. L’inquilina precedente evidentemente aveva un’idiosincrasia per l’igiene domestica. Quando cominciai a togliere palle di polvere, intonaco e calcinacci caduti sul pavimento, mi resi conto di aver dimenticato il Quasar per pulire i vetri dell’unica finestra e il ripiano della scrivania. Stavo già imprecando per la mia stupidità al pensiero di dover di nuovo uscire per andare a comprarlo quando mi venne in mente che potevo chiedere alla ragazza della camera accanto. Magari per pulire usava qualcos’altro che poteva lo stesso fare al caso mio. Bussai annunciandomi e mi ritrovai davanti una ricciolona dallo spiccato accento sardo. Mi sfoderò un sorriso di solidarietà inquadrandomi all’istante come una matricola al primo giorno di insediamento, e alla mia richiesta rispose prontamente allungandomi il Cif, l’unico affidabile per pulire sul serio, aggiunse a mio beneficio. Dopodiché ci salutammo, previa la mia

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