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Nero chic - Ho sete di te (Racconti gay)
Nero chic - Ho sete di te (Racconti gay)
Nero chic - Ho sete di te (Racconti gay)
E-book131 pagine2 ore

Nero chic - Ho sete di te (Racconti gay)

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Info su questo ebook

Questo libro raccoglie le due novelette gay pubblicate singolarmente nel 2012: Nero chic, le confessioni choc di un gigolò di colore superdotato, e Ho sete di te, il diario di un ragazzo gay dipendente dal sesso orale.

Nero chic

Diop è un ragazzone di colore alle prese con un problema piuttosto "ingombrante": è superdotato e la sua dote salta agli occhi anche in condizioni di "riposo". Verrà in Italia in cerca di lavoro e di fortuna, e qui da noi troverà l'America, quella dei sogni che si avverano.

Ho sete di te

Dopo la seconda denuncia per atti osceni in luogo pubblico, Samuele si rende conto che è arrivato il momento di farsi aiutare: la sua dipendenza da sesso rischia di costargli caro la terza volta.
Condividere la sua storia senza filtri né inibizioni gli varrà quel distacco obiettivo necessario per ammettere di avere un problema?
Tra flashback piccanti e ammissioni neanche tanto velate, Samuele si metterà coraggiosamente a nudo, affrontando argomenti tabù senza peli sulla lingua.

Si prega di notare che i temi trattati e il linguaggio usato non sono adatti ai lettori più suscettibili.

LinguaItaliano
EditoreSamuele D.
Data di uscita8 ago 2016
ISBN9781370219896
Nero chic - Ho sete di te (Racconti gay)
Autore

Samuele D.

Gay Erotica writer

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    Anteprima del libro

    Nero chic - Ho sete di te (Racconti gay) - Samuele D.

    Nella vita ognuno ha la propria croce. Chiamatela pure palla al piede, peso sul groppone, come volete. Il significato pragmatico varia di poco, trattasi sempre di condanna con cui convivere.

    Io sono uno dei pochi che è riuscito a trasformare la sua in una benedizione. In una vera e propria manna dal cielo. Anzi, diciamo che ne ho fatto un business a tutti gli effetti.

    La mia croce è una dote. E di quelle fuori dal comune.

    Il mio pene misura ventidue centimetri a riposo e trentatré sull’attenti.

    Perché mai sarebbe una croce, potrebbe obiettare qualcuno di voi.

    Per lavoro, a volte capita che debba spostarmi in aereo per raggiungere un cliente che ha richiesto i miei servizi. E puntualmente vengo fermato al check in, sospettato di nascondere qualcosa di pericoloso in mezzo alle gambe. È frustrante dover subire ogni volta la stessa umiliazione di fronte a decine di persone, per non parlare delle guardie che diventano subito tutte rosse in faccia, preda di una sorta di attrazione-repulsione che li spinge a guardarmi . E a sentirsi inevitabilmente inferiori e un po’ sfigatelli.

    Mi portano in uno stanzino e mi invitano a mostrare che non nascondo un corpo estraneo, là sotto. O magari un pacco bomba. Quando mi calo i pantaloni fino al ginocchio e sfoggio la protuberanza mostruosa che spinge contro l’elastico degli slip, il rossore sulle loro guance diventa fuoco. Gli occhi si spostano fulminei da un’altra parte, prima che un collega li becchi a fissare con la bocca aperta come allocchi. Non sia mai che lo stupore venga scambiato per ammirazione.

    Alcuni di loro trattengono a stento risatine nervose quando mi giro verso l’agente che mi deve ispezionare. Il controllo per fortuna dura il lasso di un’occhiata: verifica che quella è effettivamente carne, la mia carne, e non esplosivo o cocaina pressata, e si allontana. Non si scusa nemmeno, biascica solo qualcosa sull’intensificazione delle misure di sicurezza dopo l’11 settembre. Sarà, ma io sono convinto che sia anche per il fatto che sono nero.

    Ecco, questa è la seconda croce che mi porto appresso.

    Ho un fallo enorme e sono nero.

    Madre Natura ripete i suoi cliché all’infinito, non trovate?

    Sono arrivato in Italia nel 2008 in cerca di fortuna, come tanti altri senegalesi che partono verso quella che definiamo l’America più vicina.

    Trovai lavoro a Prato come addetto alla sicurezza in una sala giochi, un casinò in miniatura in pratica, con la licenza per le slot machines e il poker online.

    L’aspetto fisico fu il biglietto da visita che mi fece guadagnare punti agli occhi del responsabile, malgrado non avessi la minima esperienza. Madre Natura mi ha fatto alto 1.90, magro, asciutto ma muscoloso dove serve. Ho spalle ampie, pettorali definiti e bicipiti allenati da anni passati a trasportare secchi d’acqua avanti e indietro dal pozzo comune giù a casa, a Tatadem, a cento chilometri da Dakar. Dicevo che la mancanza di esperienza nel settore della sorveglianza non deve aver giocato un ruolo decisivo per la mia assunzione. È anche vero che un addetto alla security in un locale da gioco in Italia, per di più in una cittadina come Prato, è più una figura simbolica che effettivamente operativa. Nei mesi in cui lavorai lì non dovetti mai intervenire, non successe assolutamente niente che giustificasse la presenza di un gorilla all’entrata. Meglio così.

    Feci il colloquio rispondendo a monosillabi perché non padroneggiavo ancora bene l’italiano e annuendo convinto col capo anche quando non afferravo il discorso. Dopo soli due giorni mi richiamarono, firmai il contratto e iniziai a lavorare.

    Fare servizio di sorveglianza al nulla non solo è noioso, è anche snervante. Non puoi nemmeno leggere il giornale o ammazzare il tempo giocando col cellulare. Devi star lì in piedi, vigile, sempre all’erta, e tenere d’occhio le macchinette e l’erogatore degli spiccioli. Tutto qui.

    Per non annoiarmi, l’unica cosa che potevo fare era lasciar vagare la mente lontano, il più lontano possibile. Sin dai primi giorni mi resi conto che non volevo marcire lì dentro. Ero venuto in Italia a cercare fortuna e mille euro al mese non si possono davvero definire fortuna. Per lo meno non quella che avevo in mente io.

    La svolta che tanto sognavo arrivò poche settimane dopo che ero stato assunto. Prima dell’inizio del turno mancavano ancora quaranta minuti, perciò decisi di fare due passi in centro. Capitai di fronte a una vetrina su cui era affisso un cartello che recitava Casting e book fotografici, e rimasi lì impalato a fissarlo per un paio di minuti. Non sono bello ‒ è arduo che un ragazzo di colore lo sia nel senso più classico del termine ‒ ma il fisico per fare il modello ce l’ho eccome e poi, cosa avevo da perdere?

    Ma sì, mi dissi, tentare non costa niente.

    Entrai nel locale e mi misi in fila dietro a sei-sette persone, tutte molto giovani. Il caso volle che non avessi ancora indossato la giacca da lavoro, che faceva parte del completo fornito dalla compagnia e che tenevo invece sottobraccio, godendomi la splendida giornata di primavera solo con la camicia bianca infilata nella cintura dei pantaloni. Purtroppo (o per fortuna, a posteriori) il cavallo era alto e piuttosto stretto, e così il pene mi era finito tutto a sinistra, oltre l’inguine, sul quadricipite della coscia. E naturalmente saltava all’occhio. Io non c’avevo fatto caso, non si può mica pretendere che mi metta a controllarlo ogni minuto. In Senegal non mi capitava mai di doverlo nascondere o avere quel tipo di accortezza, con le maglie africane lunghe fino al ginocchio il problema non si poneva in partenza. Insomma, mentre ero in fila e aspettavo il mio turno cominciai a registrare qualche risatina nervosa, un paio di ragazze si coprivano gli occhi, la bocca, per soffocare smorfie e sghignazzi, ma più che altro sentivo una signora anziana borbottare sgomenta: «Oh, per l’amor di Dio!». A quel punto collegai la cosa, feci due più due e mi fiondai fuori come un fulmine. Mentre in preda al nervoso macinavo metri su metri per raggiungere la sala giochi, mi infilai la giacca del completo abbottonandola fino in fondo, maledicendo la croce che la natura mi aveva affibbiato e che mi era appena valsa quella figura di merda. Tutt’a un tratto qualcuno dietro di me, con una vocina acuta, spezzata da pause obbligate per riprendere fiato, urlò: «Africa! Ehi, giovaneee!»

    Mi girai di scatto e vidi un ometto sulla cinquantina, basso, tarchiato, con una camicetta stile hawaiano, che si sbracciava e mi veniva incontro zampettando.

    «Aspetta un attimo... aspettami, no?!»

    Lo guardavo incuriosito e al tempo stesso ansioso di liberarmi in fretta di una probabile seccatura. Speravo che non fosse uno che volesse informazioni stradali ‒ non possedendo una macchina e viaggiando in autobus non conoscevo molte vie di Prato ‒ o, anche peggio, che non si trattasse di qualche fanatico religioso e/o razzista. Mi ci mancava solo quello. Quando fu più vicino lo riconobbi: era seduto a una delle scrivanie dell’agenzia di scouting.

    «Eeee, come corri! Mica ti scappa il treno!»

    «Come, scusa?»

    Mi prese per un braccio, sopra il gomito, come fossimo amici da una vita, e imboccammo un vialetto che divideva due palazzi. Una volta lontani da occhi indiscreti, riprese a parlare.

    «Sei già legato a qualcuno? Hai già fatto dei film? Eh, con un talento così fai bene, sai?, anche se devi sempre valutare i pro e i contro...»

    «Non capisco, capo...» replicai con una mimica facciale inequivocabile e un gesto rassegnato con la mano. Chiamavo capo un po’ chiunque, lo avevo sentito dire a un uomo che chiedeva informazioni a un vigile e avevo adottato quell’appellativo anch’io, abusandone spesso e volentieri.

    «Dicevo che dovresti valutare bene perché il porno è un’industria piena di arpie. Ci sono certi agenti che ti succhiano il sangue, capisci? Con una dote del genere dovresti tirare sul prezzo più che puoi, comprì? Ti farebbe comodo la mia consulenza...»

    «Porno?» ‒ questo è uno di quei termini internazionali che si capiscono ovunque ‒ «No, no, io non faccio quella roba! Ho già lavoro, buon lavoro...»

    «Ah, scusa, ho dato per scontato che con un arnese del genere... ehm, vabbè! Tieni, guarda... non si sa mai nella vita, no? Se cambiassi idea, o ti venisse anche solo voglia di fare un provino, ti lascio il mio biglietto da visita. Ho lo studio qui a Prato. No, non lì dove sei appena stato, un’agenzia mia. Vieni a trovarmi quando vuoi, okay?»

    Così dicendo, mi rifilò due o tre pacche sulla spalla, arricciando il naso soddisfatto, e girò i tacchi. Io rimasi lì imbambolato per un minuto buono, spostando lo sguardo da lui al cartoncino laminato che mi aveva appena sbolognato. Mi riscossi subito al suono delle campane della cattedrale, guardai l’orologio e macinai i restanti duecento metri fino al locale.

    Per tutta la durata del turno rimuginai su quel bizzarro incontro. Il furbacchione mi aveva messo una bella pulce nell’orecchio. Come dice DiCaprio nel film Inception?

    Un’idea è come un virus. Una volta che s’impianta nella mente, continua a crescere...

    L’idea in effetti mi frullò nella testa per un paio di giorni.

    Sono cresciuto in una famiglia cristiana e conosco bene il senso del pudore. Senza contare che di carattere sono

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