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Falsi di stampa: Eternit, Telekom Serbia, Stamina
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Falsi di stampa: Eternit, Telekom Serbia, Stamina
E-book191 pagine2 ore

Falsi di stampa: Eternit, Telekom Serbia, Stamina

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Info su questo ebook

A invocare la libertà di stampa e a denunciarne la mancanza è sempre più, nel nostro Paese, chi quella stampa pesantemente condiziona e delle conseguenti carenze informative si giova a livello politico, economico e di potere. Basta guardare i pacchetti azionari dei principali giornali o prestare attenzione ai meccanismi di funzionamento dell’informazione televisiva. I falsi di stampa sono all’ordine del giorno e la libertà di informazione è sempre più una favola… Il libro di Alberto Gaino parte da qui. Ma non si ferma alle enunciazioni generali o ai fatti più eclatanti e conduce il lettore dietro le quinte dell’informazione. Il viaggio si avvale di tre ordinarie vicende (la questione dell’amianto, il complotto di Igor Marini ai danni del Governo Prodi e l’imbroglio di Stamina) che hanno occupato per mesi le pagine della carta stampata. Gaino le percorre utilizzando anche materiali inediti e, avvalendosi della lunga esperienza di cronista giudiziario, svela una sequenza di condizionamenti impressionante e istruttiva.
LinguaItaliano
Data di uscita13 giu 2017
ISBN9788865791394
Falsi di stampa: Eternit, Telekom Serbia, Stamina

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    Anteprima del libro

    Falsi di stampa - Alberto Gaino

    www.museoluzzati.it)

    Il libro

    A invocare la libertà di stampa e a denunciarne la mancanza è sempre più, nel nostro Paese, chi quella stampa pesantemente condiziona e delle conseguenti carenze informative si giova a livello politico, economico e di potere. Basta guardare i pacchetti azionari dei principali giornali o prestare attenzione ai meccanismi di funzionamento dell’informazione televisiva. I falsi di stampa sono all’ordine del giorno e la libertà di informazione è sempre più una favola… Il libro di Alberto Gaino parte da qui. Ma non si ferma alle enunciazioni generali o ai fatti più eclatanti e conduce il lettore dietro le quinte dell’informazione. Il viaggio si avvale di tre ordinarie vicende (la questione dell’amianto, il complotto di Igor Marini ai danni del Governo Prodi e l’imbroglio di Stamina) che hanno occupato per mesi le pagine della carta stampata. Gaino le percorre utilizzando anche materiali inediti e, avvalendosi della lunga esperienza di cronista giudiziario, svela una sequenza di condizionamenti impressionante e istruttiva.

    L’autore

    Alberto Gaino, giornalista. Ha lavorato per Stampa Sera e La Stampa. Negli ultimi ventiquattro anni di professione si è occupato di cronaca giudiziaria seguendo le maggiori inchieste della magistratura torinese. Dal 2013 è in pensione. è autore di Il manicomio dei bambini. Storie di istituzionalizzazione (Edizioni Gruppo Abele, 2017).

    Indice

    Introduzione

    Il contesto. Quattro passi nell’informazione

    Prima storia. Il caso dell’amianto

    Seconda storia. La Commissione Telekom Serbia

    Terza storia. Stamina e il dottor Vannoni

    Introduzione

    Il 23 dicembre 1984, a pochissime ore dall’ultima delle grandi stragi del tempo (quella del treno di Natale), mi trovai a scriverne sul posto per Stampa Sera: la bomba scoppia sotto la galleria più lunga d’Italia (dieci anni dopo l’Italicus); il Rapido 904 Napoli-Milano arriva piano piano nella stazioncina di San Benedetto Val di Sambro con il suo carico di 15 morti, 269 feriti (di cui due deceduti in seguito) e di lamiere divelte.

    Passi che il direttore di quel periodo mi avesse risposto al telefono che non interessava che Stefano Delle Chiaie comparisse sul manifesto dei più pericolosi latitanti, affisso anche nella stanzetta della Polfer della stazioncina, come morto e quindi non più da ricercare. Avrà colto nel trambusto della telefonata il riferimento alle protezioni di cui godeva uno dei capi dell’eversione nera? Una settimana dopo, era una domenica, la folla di Bologna radunatasi in piazza Maggiore per la commemorazione ufficiale delle vittime fischiò a lungo e interruppe l’intervento dal palco di Bettino Craxi, presidente del Consiglio. Per l’edizione di Stampa Sera del lunedì (che sostituiva La Stampa) non mi posi neppure il problema se riferire o no di quei fischi. Al contrario dei tg Rai che li silenziarono e dell’inviato (un craxiano di ferro) del Corriere. Il mattino seguente, di buon’ora, quest’ultimo mi affrontò a muso duro nella hall dell’albergo, dove alloggiavo. Aveva già ricevuto o temeva di ricevere una dura telefonata dalla direzione del giornale. Anch’io, poco dopo, ne ricevetti una, uguale nei toni, dal mio direttore: per non essermi allineato alla cancellazione della protesta di piazza. Mi fu ordinato di ripartire immediatamente per Torino, dove la redazione si riunì altrettanto rapidamente in assemblea – erano altri tempi – e minacciò di bloccare l’uscita del giornale se io non fossi tornato con altrettanta velocità sul posto. Quel giorno fu un radioso andare e venire sull’autostrada Torino-Bologna.

    Racconto l’episodio solo per l’invito che trovai al mio ritorno a Bologna: era di alcuni pistaioli, come sprezzantemente erano chiamati i giornalisti d’inchiesta. Fra loro vi era il più celebre, Ibio Paolucci de l’Unità. Strinsi tre quattro mani. E ascoltai le novità sui possibili scenari delle indagini sulle stragi. Anche la magistratura, dopo la Commissione Anselmi, si stava orientando sul Supersismi del generale piduista dei carabinieri Giuseppe Santovito e del suo braccio destro, l’allora colonnello dell’Arma Giuseppe Belmonte, che avrebbe incontrato un capo brigatista in una stazione di provincia. Sembrava che tutto si tenesse e un filo comune, da un mistero d’Italia all’altro, è regolarmente spuntato se non altro nel ruolo svolto dai soliti servitori dello Stato nel proteggere gli stragisti, deviare l’attenzione, manipolare l’informazione.

    Tutto ciò che è stato scritto contro è il nostro patrimonio. Non lo è per tutti i giornalisti e non tutti i giornalisti sono interessati a decostruire i meccanismi di informazione approfondendo l’uso che si può fare della libertà di stampa. In questi anni la mia generazione di giornalisti è stata in larga parte prepensionata. Ho pensato che potesse essere utile spendere una parte del mio nuovo, tanto, tempo libero dedicandomi a una ricerca sull’informazione condizionata. Qualcosa di molto diverso (ovvio) dalla censura tout court. Qualcosa di molto più ambiguo. Ho riflettuto su come avrei potuto fornire un contributo. E ho scelto di ricostruire tre fatti di cui mi sono occupato a lungo, diversi per scenari, personaggi e interessi in gioco, ma che in comune hanno espresso la scelta dei protagonisti di usare i media ai loro fini: la strategia dei padroni dell’amianto, lo scandalo Telekom Serbia nelle mani del centrodestra e il caso Stamina e di Davide Vannoni, specializzato in comunicazione persuasiva e non nella cura con le staminali di gravissime malattie.

    La scelta di questi casi giudiziari è maturata anche in relazione ai diversi sistemi di condizionamento rintracciabili dietro alle cronache che li hanno raccontati, ai silenzi e alle ambiguità di certa informazione: classici per Eternit (uno studio di pubbliche relazioni, che va molto oltre il proprio ruolo professionale, spia, analizza i limiti strutturali di giornali e tv italiane, si attiva e disinforma); eccezionali perché intrecciati ai conflitti di interessi dell’editore e capo del Governo nel caso Telekom Serbia, con impatto devastante su gran parte del mondo dell’informazione e sulle istituzioni repubblicane; infine, molto più proiettati nel futuro dei social network e delle fonti facilitatrici con la storia di Stamina e la comparsa sulla scena mediatica di un comunicatore professionale come Davide Vannoni, che in un suo studio sull’argomento ha approfondito il ruolo del play maker delle notizie, da lui definito il guardiano delle informazioni.

    Pagina dopo pagina, mi sono reso conto che in almeno due casi (Telekom Serbia e Stamina) mi sono fatto prendere la mano dal vizio del cronista di raccontare vicende mai interamente raccontate. In particolare, per Telekom Serbia, storia eccezionale di una commissione parlamentare d’inchiesta usata dalla maggioranza di governo per costringere la magistratura a indagare i leader dell’opposizione. Alla fine della parabola berlusconiana, raccontarne la sua versione più chiaramente eversiva è diventata una tentazione troppo forte. Anche perché disponevo da anni – e mai avevo potuto scriverne prima – di una memoria giudiziaria della Procura torinese che nessuno è andato a cercare negli atti di quell’indagine. Ne esce un autentico intrico di personaggi del centrodestra, faccendieri grandi e piccoli, e dell’estrema destra che si muovono apparentemente in modo indipendente l’uno dall’altro. Storia difficile da ricostruire e da raccontare: ho seguito il filo di Arianna dei magistrati torinesi e vi ho trovato anche altro. Come una strana interrogazione del 2001, a firma Bocchino-Gasparri. Strana perché i due chiedono conto dell’operazione Telekom Serbia facendo irritualmente nome e cognome di un funzionario del sismi, bruciandolo. Costui era all’epoca responsabile dell’intelligence italiana sulle armi di distruzione di massa. Era il tempo del cosiddetto scandalo Nigergate, in cui il sismi appena preso in mano dal generale della Guardia di finanza, Niccolò Pollari, ebbe un ruolo di rilievo. Il funzionario bruciato era Alberto Manenti, anni dopo, nella primavera 2014, posto a capo dell’aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna) come segnale di discontinuità con la gestione berlusconiana di Pollari. Nella vicenda compare anche la manina di Pio Pompa, l’uomo che nel sismi reclutava giornalisti per spiare le redazioni e che curava, dal 2001 al 2006 (quando fu scoperto), l’archivio riservato del sismi contenente centinaia di dossier su giornalisti, magistrati e personalità politiche, tutti ritenuti ostili al centrodestra. Sul far del declino berlusconiano, il suo ventennio diventa materiale per gli storici. Il caso Telekom Serbia, a lungo trascurato, è emblematico, per intrighi, strumentalizzazioni, dossier di fango e veleni tossici, di uno stile politico, che si tende a dimenticare, che ha caratterizzato un sedicente neorifondatore delle istituzioni e la sua variegata corte.

    Alla ricostruzione di queste tre vicende mi è parso comunque utile premettere qualche considerazione sullo stato dell’informazione e della libertà di stampa nel nostro Paese, avendo come riferimento l’esperienza maturata soprattutto come cronista giudiziario in un quarto di secolo.

    Torino, agosto 2014

    Il contesto. Quattro passi nell’informazione

    Paradossi italiani

    Fra i tanti paradossi italiani c’è la ricorrente invocazione della libertà di stampa, con diversità di accenti, non da parte di chi non trova ascolto per le proprie ragioni, sovente drammatiche, come accade, ad esempio, per operai senza paga o lavoro che si issano su gru altissime per diventare notizia.

    Il paradosso sta nel fatto che a dolersi di una libertà di stampa carente o inesistente sono personaggi sempre in prima pagina come Beppe Grillo, presentatosi il 19 novembre 2014 nella sala stampa di Montecitorio a dire, di fronte a una selva di telecamere, che «l’Italia è al settantesimo posto nel mondo per libertà di stampa».

    Silvio Berlusconi, padrone di tv e giornali, è dell’avviso opposto. Il 4 maggio 2010 dichiara (ripreso da Corriere della Sera e dalla Stampa di Torino) che «in Italia vi è fin troppa libertà di stampa». La figlia Marina, intervistata il 23 maggio 2013 da Panorama.it in occasione della condanna del direttore del settimanale di famiglia Giorgio Mulé a otto mesi di reclusione per il reato di diffamazione, vira su questo concetto: «La libertà di stampa non può essere rinchiusa in una prigione». L’uomo più potente d’Italia negli ultimi vent’anni, la figlia a capo del gruppo multimediale del padre e il leader del Movimento 5 stelle esprimono punti di vista diversi in circostanze diverse, ma comunque legati da un filo comune: la loro visione di un bene essenziale in un sistema democratico è dettata dalle rispettive convenienze.

    Per Berlusconi padre i giornalisti devono essere soldatini sull’attenti, se no sono comunisti. La figlia difende un dipendente con un’affermazione in linea di principio più che condivisibile. Ma l’informazione di giornali e tv di famiglia è stata largamente coinvolta nella lotta politica, spesso con servizi ben al di sotto del limite che un giornalista dovrebbe porsi: mai ledere la dignità di una persona, tanto meno farlo consapevolmente; soprattutto non farlo con notizie deliberatamente false.

    Il trattamento riservato ad avversari politici e a magistrati colpevoli di lesa maestà si è progressivamente affinato nel metodo Boffo, ma già prima, nell’estate 2003, si era cercato con un gran dispiegamento di forze e di energie di mettere nell’angolo Romano Prodi, commissario europeo e futuro candidato premier in alternativa all’allora Cavaliere, attraverso la montatura di uno scandalo ad hoc (Telekom Serbia) con seguito di avviso di garanzia e pesante attacco alla moralità dello stesso Prodi.

    Grillo ha da spendere qualche ragione rispetto a un certo tipo di giornalista che aspetta solo di coglierlo in fallo (esercizio da lui, peraltro, generosamente incoraggiato): l’informazione deve essere allineata. Poi, che sia proprio Grillo – quello delle liste di proscrizione dei cattivi giornalisti – a sostenere che non c’è libertà di stampa in Italia è paradossale, così come il contrario, sostenuto da Berlusconi.

    «Le parole possono uccidere»: a margine del caso Sallusti

    Reporters sans frontières ha indicato come elemento di progresso nella libertà di stampa la cancellazione nel nostro sistema della pena del carcere per i giornalisti condannati per diffamazione. Non c’è bisogno di essere corporativi per trovarsi d’accordo sulla sostituzione della pena detentiva con altre che escludano la limitazione della libertà personale e includano una reale ed efficace interdizione dall’attività giornalistica sino, nei casi più gravi, alla radiazione dalla professione.

    Ma, come ha detto Jorge Mario Bergoglio alla folla di piazza San Pietro domenica 16 febbraio 2014, «le parole possono uccidere». Figuriamoci le parole amplificate a mezzo stampa: pallottole di carta, o che viaggiano nella Rete o per l’etere. Ci se ne rende conto quando si è umiliato qualcuno. Nel mio caso, con la telefonata di una signora: tono cortese, un sentimento di pena che arrivava diretto al cuore, concetti chiari trasmessi sommessamente per comunicare che il marito, dirigente asl colto a lucrare sugli acquisti di generi alimentari per i pasti di un ospedale torinese (allora, prima metà degli anni Novanta, ancora organizzato con una cucina interna) e per questo arrestato. Si era in piena tangentopoli e pensai di poter spendere parole dure sulla scelta di farsi pagare tangenti per accettare, come contropartita, derrate alimentari di qualità scadente (o più scadente) destinate a persone in condizioni di salute precarie. La moglie mi disse che i figli non uscivano più di casa per la vergogna. Non avevo pensato alla famiglia di quel signore, non mi ero neppure posto il problema che vi fosse una famiglia. Prima il tono e la semplicità delle parole, poi il pensiero che avessi potuto far del male a degli innocenti mi mise nella condizione di cominciare a fare conti diversi con il mio lavoro e la responsabilità di gestirlo consapevolmente. Non divenni un santo. Nel mio piccolo ho conservato durezza negli argomenti. Ma ho imparato a essere più selettivo nelle definizioni, salvo nei confronti di certi politici che hanno esercitato il potere come un diritto e non un dovere.

    Nel ruolo di cronista giudiziario ne ho incontrati solo quando erano andati oltre la violazione del codice penale. Poche assoluzioni alla fine del percorso penale, parte per prescrizione; una scandalosa in primo grado, di un assessore regionale piemontese, corretta in appello, seguita da una seconda condanna per altra corruzione. Mai, sino al 2013, mi ero imbattuto in uomini politici con ruoli istituzionali che si vestissero da capo a piedi in boutique del lusso a spese dei contribuenti, imputati di peculato per rimborsi di ogni genere e tuttavia pronti all’ultimo colpo di mano, quando, inizio 2014, hanno trasformato i vitalizi destinati ai consiglieri regionali del Piemonte al compimento dei 65 anni in ricchi tfr da riscuotere subito. Una botta da 15 milioni (fonte la Repubblica) da riconvertire nel migliore dei casi in risarcimento delle parti lese (la stessa Regione in nome dei cittadini) allo scopo di beneficiare delle attenuanti generiche. La classe politica travolta da tangentopoli non era così intellettualmente mediocre e così senza vergogna.

    Forse il giornalismo di quegli anni era di qualità migliore; certo era inseguito dall’arma della querela strumentale e della causa civile miliardaria (in lire) al solo fine di fermarlo. Ciò non toglie che, allora come oggi, il ricorso alla giustizia contro un’informazione scorretta sia un contrappeso alla libertà di abuso, e non

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