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Roma. La fabbrica degli scandali
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E-book377 pagine4 ore

Roma. La fabbrica degli scandali

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Dalla Banda della Magliana alle speculazioni edilizie: la Capitale disonesta

Il malaffare, a Roma, non nasce certo con Mafia Capitale. Corruzione, collusione, appalti truccati, sprechi enormi di denaro e racket non sono fenomeni recenti. Dal dopoguerra in poi, infatti, si sono avvicendati governi e partiti, amministrazioni nazionali e locali, sigle e nomi, ma non sembra essere mai cambiato il modo in cui politica e criminalità si sono intrecciati: dal caso Montesi, che fece tremare la Democrazia Cristiana, fino a quelli più recenti, clientelismo e malaffare paiono ormai essere diventati una costante della storia capitolina. E se nell’Urbe tanti criminali hanno trovato terreno fertile per le loro attività, come i personaggi della Banda della Magliana, anche nel campo dell’edilizia – degli appalti pubblici e delle grandi opere – non sono mancati esempi macroscopici di speculazione: mentre Roma cresceva a dismisura, è mancato un vero governo del territorio, e quello che oggi resta dell’enorme espansione della capitale molto spesso è solo abusivismo condonato. Per non parlare poi degli ultimi scandali, amplificati dai media e dalle condivisioni social: un “museo degli orrori” che sembra arricchirsi giorno dopo giorno, come se la Città Eterna si fosse trasformata nella città più degradata del mondo…

Corruzione, appalti truccati, sprechi di denaro e racket: tutto il malaffare della capitale

Tra i temi trattati nel libro:

La banda della Magliana
La banda è divisa, la guerra di mala è scoppiata
Italia ’90: Roma cantiere aperto
Dalla Variante delle certezze al Giubileo del 2000
Le tante ombre sulla Regione Lazio
Scoppia lo scandalo: “A Roma esiste la mafia”
Tutti gli affari di Mafia Capitale
Ignazio Marino, un sindaco senza pace
Martina Bernardini
Nata a Roma, sta conseguendo la laurea in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Roma Tre. Da alcuni anni collabora con testate online locali capitoline, tra le quali «Il Quotidiano del Lazio», «Romait» e «Urlo» in qualità di redattrice e cronista. Roma. La fabbrica degli scandali è il suo primo libro.
LinguaItaliano
Data di uscita21 ott 2015
ISBN9788854186576
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    Anteprima del libro

    Roma. La fabbrica degli scandali - Martina Bernardini

    Disgrazia o delitto? Sesso, potere e morte nella Roma dell’affare Montesi

    La morta di Torvajanica

    11 aprile 1953, Sabato Santo. La Pasqua è vicina, e anche a Roma, come nel resto d’Italia, ci si prepara a festeggiare. Ovunque, tranne al civico 76 di via Tagliamento. Qui, insieme alla sua famiglia, viveva Wilma Montesi, scomparsa da molte ore.

    Quando sulla spiaggia di Torvajanica viene ritrovato il cadavere di una ragazza, riversa nel mare a faccia in giù – senza calze, reggicalze, scarpe e gonna – Wilma manca da casa da oltre un giorno. Un medico, giunto sul posto per accertare il decesso di quella giovane donna ancora senza identità, sostiene che il corpo rinvenuto a riva sia morto per annegamento, probabilmente nel pomeriggio di venerdì perché il cadavere non si presentava eccessivamente gonfio.

    Wilma era scomparsa il 9 aprile. Quel pomeriggio aveva deciso di uscire da sola, senza indossare gli abituali gioielli e senza portare con sé la foto del suo fidanzato, lasciando che sua madre e sua sorella, Maria e Wanda, andassero al cinema. In serata però non aveva fatto rientro a casa: l’ora di cena era passata da un bel po’ quando i genitori di Wilma avevano deciso di denunciarne la sparizione. Era stato Rodolfo, il padre falegname della ventunenne di via Tagliamento, a recarsi in commissariato. Poi, aveva informato Angelo, il fidanzato di sua figlia, della scomparsa. I due, Wilma e Angelo, avrebbero dovuto convolare a nozze di lì a qualche mese, ma il loro non era un grande amore. Si erano incontrati e conosciuti in una sala da ballo, quando Angelo prestava servizio a Marino come poliziotto. Aveva poi chiesto il trasferimento a Roma, quando si erano finalmente fidanzati, e invece era stato spedito a Potenza; da allora si vedevano poco, ma si scrivevano spesso. «Prevedesi suicidio. Stai calmo. Vieni subito»¹, aveva scritto Rodolfo ad Angelo in un telegramma per fargli ottenere il permesso e per farlo partire alla volta di Roma. Quando Angelo arriva nella Capitale è da poco scattata la mezzanotte; in quelle stesse ore, il corpo di Wilma viene rimosso dalla spiaggia e trasferito in obitorio².

    La morta di Torvajanica fa ormai notizia: ne parlano i giornali, il caso è sulla bocca di tutti. Wilma non è ancora stata rintracciata e, temendo il peggio dopo aver appreso del ritrovamento di quel cadavere su quella spiaggia così lontana da via Tagliamento, Angelo, Rodolfo, Maria e Sergio, l’ultimo dei figli della famiglia Montesi, si dirigono in obitorio dove riconoscono quel cadavere ancora senza identità che ora ha un nome e un cognome. Gli uomini della famiglia si improvvisano detective e iniziano a cercare indizi che possano dare delle risposte alle domande suscitate dal mistero della morte di Wilma, una ragazza come tante degli anni Cinquanta, in procinto di sposarsi, ancora vergine. E che soprattutto non aveva mai passato una notte fuori casa. Mai, prima di essere ritrovata morta. Il mistero della sua scomparsa si infittirà nel tempo, si intreccerà con altre storie, e coinvolgerà sempre più persone, tra politici e faccendieri, attrici in cerca di successo e altre già famose. «Un giallo italiano», lo definirà Carlo Lucarelli, un piccolo caso di cronaca all’apparenza, destinato a diventare non solo il «primo grande scandalo della Repubblica italiana»³ ma anche «El escándalo del siglo», lo scandalo del secolo, secondo Gabriel Garcìa Marquez, che allora scriveva per «El Espectador» di Bogotà.

    In questo caso enigmatico, un ruolo fondamentale lo giocherà anche la tenuta di Capocotta, o meglio tutti i personaggi che attorno a questa tenuta, per le più svariate ragioni, ruotavano. È a pochi passi da qui che Wilma è stata ritrovata ed è per questo che, nella speranza di ricevere un aiuto, i familiari della ventunenne di via Tagliamento – ancora ignari dei segreti che lì vi si nascondono – bussano ai cancelli della tenuta. La moglie di uno dei guardiani, tale Anastasio Lilli, sostiene di aver visto nei giorni precedenti una ragazza su una macchina di lusso, una berlina, insieme a un uomo; la donna, però, non può affermare con certezza che si trattasse di Wilma Montesi. Sicuro di averla riconosciuta è invece Mario Piccinini, un meccanico che pochi giorni prima aveva aiutato «un giovanotto» al quale la macchina si era insabbiata «con le ruote posteriori nella spiaggia di Castelfusano». L’auto era una 1900 e al suo interno era seduta anche una giovane. «Quando vennero pubblicate sui giornali le fotografie di Wilma, non ho avuto dubbi: la ragazza era quella»⁴, affermerà Piccinini. A smentirlo, sarà invece Alfonso Di Francesco, un ferroviere che aveva preso parte alle manovre di recupero di quella macchina arenata. Interrogato a sua volta, escluderà che la ragazza potesse essere Wilma Montesi⁵.

    Queste sono solo alcune delle incongruenze di tutta la vicenda. Pochi indizi e confusi, la risoluzione al mistero della morte di Wilma sembra essere lontana e inarrivabile. Perché una ragazza – promessa sposa e vergine – era rimasta una notte fuori casa, un gesto ritenuto intollerabile nella Roma degli anni Cinquanta? Era sola, quella notte? La sua scomparsa è una disgrazia o un delitto? È proprio su quest’ultimo interrogativo che si gioca la partita della morte di Wilma. Inizialmente si pensò a una tragica fatalità, tesi sposata ufficialmente anche dagli inquirenti. Il suggerimento arriverà invece da un incontro proprio in casa Montesi. A suonare al campanello di via Tagliamento è la signora Rosa Passarelli, una trentacinquenne impiegata al ministero della Difesa. È presente anche un funzionario della Squadra Mobile. Sebbene la Passarelli non conosca il volto di Wilma – la stampa, anche se ha dato notizia della sua morte, non ne ha ancora diffuso le foto – l’impiegata sembra non avere dubbi: il giorno della scomparsa della ragazza aveva visto sul trenino diretto a Ostia una giovane donna con indosso gli stessi vestiti che, secondo le informazioni trapelate dai giornali, aveva Wilma nel momento in cui il suo corpo, ormai senza vita, è stato ritrovato in riva al mare. Stando alla testimonianza dell’impiegata al ministero della Difesa, quindi, Wilma sarebbe salita, in quel 9 aprile, sul trenino delle 17:30 diretto a Ostia. Circa mezz’ora prima, come poi testimonierà la portiera dello stabile, era uscita di casa⁶. E perché Wilma avrebbe dovuto correre contro il tempo, prendere quel mezzo e recarsi così lontano da casa? E perché avrebbe deciso di andare da sola a Ostia, in un pomeriggio d’aprile ancora non caldo, per di più mentre il giorno volgeva al termine?

    Questi interrogativi irrisolti rischiano di minare, all’esterno, il buon nome della famiglia Montesi. C’è solo un modo per dissipare ogni dubbio: far credere che Wilma sia morta a causa di una disgrazia. La testimonianza della Passarelli, che aveva visto una ragazza con indosso vestiti simili a quelli che portava la Montesi, spingerà Wanda a ricordare che la sorella soffriva di un eczema ai talloni, un’irritazione che solo l’acqua di mare, contenente iodio in grandi quantità, avrebbe potuto guarire. Wanda dice anche che le due sorelle avevano già parlato di un’escursione a Ostia, che però non era mai avvenuta e allora Wilma, che soffriva di questa irritazione, doveva aver deciso di andare da sola per curarla. Qualcosa, poi, doveva essere andato storto: forse si era sentita male, era caduta, e quindi annegata. Insomma, una disgrazia, una morte accidentale. La tesi del pediluvio, suggerita dall’incursione della Passarelli in casa Montesi e ricostruita davanti al funzionario della Squadra Mobile, diventa quindi la versione ufficiale, difesa a denti stretti dalla Questura. Solo più tardi si scoprirà che Rosa soffriva di miopia e che, poco tempo dopo aver incontrato i Montesi, aveva acquistato un appartamento dal valore di 5 milioni. «Una coincidenza», dirà la Passarelli⁷.

    La tesi della disgrazia

    Wilma era una ragazza tranquilla e serena. Era fidanzata con un agente di polizia e doveva sposarsi a dicembre. Tutto era pronto per il matrimonio, anche la casa a Foggia (città natale di Angelo), dove la coppia si sarebbe trasferita subito dopo le nozze. Wilma aveva solo ventun’anni, la vita le sorrideva, un avvenire di felicità l’attendeva. Non aveva nessun motivo per rinunciare alla vita. Del resto non aveva mai dato segni di depressione, di sfiducia. Non ha lasciato nemmeno una riga di spiegazione. Noi siamo sicuri che Wilma non si è uccisa⁸.

    Con questa nota, la famiglia Montesi si rivolge alla stampa per chiarire che Wilma non si era suicidata, né che era stata uccisa, ma che era morta per altre cause, ancora da accertare. L’autopsia, eseguita tre giorni dopo il ritrovamento del corpo, ribadirà che la ragazza era ancora vergine e che non erano stati rinvenuti segni di violenza o tracce di droga nello stomaco ma solo resti di un gelato⁹. Nessun particolare segno di irritazione ai talloni, però. Nonostante questo, il questore di Roma Saverio Polito ha in mano elementi a sufficienza per archiviare il caso. Settant’anni compiuti e un passato nella polizia segreta del fascismo, l’OVRA, Polito aveva avuto anche l’incarico di scortare, dopo il 25 luglio, il Duce fino all’Isola della Maddalena, nonché di vigilare sulla famiglia Mussolini. Aveva quindi scortato donna Rachele alla Rocca delle Caminate; in quell’occasione, sembra che Polito avesse tentato di usarle violenza: arrestato e condannato a ventiquattro anni di reclusione, aveva ottenuto la revoca della pena al termine del conflitto e nel 1946 era stato riammesso alla Questura. Nel 1953, l’anno della morte di Wilma, Polito è Questore di Roma¹⁰. A lui spetta il compito di indire una conferenza stampa e fare il resoconto sulla «morta di Torvajanica»: Wilma era immersa in acqua a Ostia per curare la sua irritazione quando la marea l’aveva travolta, risucchiata e uccisa; in seguito, la corrente l’aveva trasportata fino a Torvajanica, dove era stata ritrovata senza vita.

    Una volta accertato che Wilma non si è uccisa, come pure si era temuto in un primo momento, ma che la sua morte è legata solo a una disgrazia, si possono celebrare i funerali e dare degna sepoltura alla ragazza; la cerimonia si svolge il 16 aprile nella basilica di San Lorenzo fuori le Mura. Wilma ha indosso una veste nuziale, comprata appositamente in alcuni grandi magazzini di Roma. Nell’articolo Wilma Montesi sepolta con l’abito da sposa, si legge su «l’Unità» del 17 aprile 1953:

    Rivestita di un candido abito da sposa, la salma di Wilma Montesi, la ragazza tragicamente annegata nel mare di Ostia, ha lasciato ieri pomeriggio alle 15 la camera mortuaria dell’Obitorio, per essere trasportata nella sua ultima dimora al Verano. Sulla sua lapide viene scritto: «Creatura di pura rara bellezza, il mare di Ostia ti rapì per portarti, sulla spiaggia di Torvajanica. Sembrava che dormissi nel sonno del Signore, bella come un angelo. La mamma, il tuo papà, tua sorella tuo fratello, ti sono vicini nel loro grande amore, nel loro immenso dolore».

    Dopo i funerali, Angelo Giuliani uscirà stranamente di scena¹¹. La Questura e i Montesi sono sempre più convinti della versione del pediluvio. Ma non per tutti il caso è chiuso, non per tutti la verità è stata accertata. «Wilma Montesi è stata uccisa prima di essere gettata in mare?», si chiede «Il Messaggero». Nel 1953 l’Italia era da poco uscita dalla guerra, e i giornali tornavano a scrivere e parlare liberamente dopo il ventennio fascista. Solo a Roma si contavano più di 25 quotidiani. Anche nella redazione de «Il Tempo» i dubbi erano tanti: «Molte domande sulla morte della Montesi rimangono senza risposta».

    Nelle redazioni dei giornali si faceva fatica a credere alla morte accidentale, una versione considerata così assurda che addirittura un comunicato dell’«Ansa» aveva chiarito: «Risulta che l’autorità giudiziaria si sta ancora attivamente occupando del caso Wilma Montesi». Era stato il Procuratore Capo Angelo Sigurani, infatti, a riaprire le indagini¹⁰² «per dissipare ogni dubbio», dirà poi anche «La Stampa»¹³. E di dubbi e di domande ve ne erano davvero tanti: perché Wilma avrebbe dovuto togliersi gli indumenti più intimi per bagnarsi i piedi? E come avrebbero fatto le correnti a portare il corpo di quella ragazza in un luogo distante 20 chilometri dal punto in cui sarebbe annegata? E quella macchina avvistata dalle parti di Torvajanica nei giorni precedenti la sua morte? E chi era la ragazza su quella macchina: la Montesi o un’altra? Sul «Corriere della Sera», il 4 maggio ’53 si legge che sono state «riaperte le indagini sulla morta di Torvajanica» e che c’è la «diffusa convinzione» che Wilma non fosse sola il giorno della sua scomparsa. Insomma, nessuno sembrava credere alla versione fornita pubblicamente dalla polizia. Il quotidiano di Napoli, «Il Roma», di proprietà del sindaco del capoluogo partenopeo Achille Lauro, in un pezzo firmato da Riccardo Giannini, addirittura chiede: «Perché la Polizia tace sulla morte di Wilma Montesi?». Pietro Ingrao su «l’Unità», in un articolo dal titolo Questione morale del 7 febbraio 1954, scriverà che «attorno alla morte misteriosa della giovane Wilma Montesi si è avuta la chiara sensazione che le autorità inquirenti avessero condotto indagini superficiali, limitate, accreditando una versione impossibile». Anche «Paese Sera», quotidiano indipendente di sinistra e quindi collocato politicamente agli opposti de «Il Roma», sembra sposare l’ipotesi che la soluzione del mistero della morte di Wilma non sia quella annunciata per le vie ufficiali. Pochi giorni prima erano stati rinvenuti dei vestiti di donna sulla spiaggia e, secondo «Paese Sera» (in un pezzo del 5 maggio), l’uomo che aveva fatto il ritrovamento e quello che era in compagnia di Wilma – un «biondino» – erano la stessa persona. Solo in un secondo momento quegli indumenti non verranno riconosciuti come appartenenti a Wilma. Ciò nonostante, dopo «Paese Sera», anche «l’Unità» sostiene che ci fosse un giovane indiziato per la morte della ragazza e che fosse «alto e biondo»¹⁴.

    I piccioni… viaggiatori

    Dissoluzione dei costumi e della morale, altro che disgrazia; politica e malaffare, altro che pediluvio. Tra i giornalisti comincia a circolare la voce del coinvolgimento del figlio di un politico di spicco, qualcuno davvero importante. Il Palazzo inizia a tremare. È nella redazione de «Il Tempo» – fondato dall’allora senatore uscente del Partito Liberale Renato Angiolillo, che ne era anche proprietario e direttore – che si fa per la prima volta il nome di Piero Piccioni, figlio del vicepresidente del Consiglio Attilio Piccioni, uomo di punta della Democrazia Cristiana tanto da meritarsi, sulle pagine del «Corriere della Sera» del 1° marzo 1953, la definizione di «delfino» di Alcide De Gasperi. Vista la delicata posizione di Angiolillo, ovvero quella di avversario politico di Piccioni, si decide allora di procedere con cautela e di non divulgare a mezzo stampa nessun nome che non sia prima stato confermato dagli inquirenti. La ghiotta occasione non sfugge invece al settimanale satirico «Il Merlo Giallo», diretto e fondato da Riccardo Giannini, il giornalista che aveva siglato quell’articolo su «Il Roma» nel quale si sollevavano molti dubbi in merito all’operato della polizia. Sul «Merlo Giallo» Giannini firma una vignetta che raffigura un piccione viaggiatore con in becco un reggicalze. La didascalia recita: «Dopotutto le note personalità cui allude Il Roma non sono poi tante e non possono nemmeno sparire senza lasciare tracce, come piccioni viaggiatori»¹⁵.

    L’onorabilità, il buon nome, la promettente carriera politica di Attilio Piccioni: tutto rischia di crollare sotto i colpi di una semplice vignetta. Il vicepresidente del Consiglio pensa allora di rivolgersi al ministro dell’Interno, Mario Scelba, chiedendogli di ritirare le copie del settimanale. Costretto a dire di no – la censura non è ammessa nell’Italia repubblicana – Scelba, come scriverà poi nelle sue memorie, consiglia a Piccioni padre di rivolgersi al capo della polizia Tommaso Pavone. Cinquantaquattro anni, da due alla guida del Corpo e già impiegato presso le Prefetture fiorentina e meneghina, Pavone dopo l’armistizio era stato costretto alla clandestinità per essersi opposto ai nazisti, pur avendo lavorato negli ambienti fascisti come assistente del sottosegretario Buffarini Guidi, nel febbraio del 1943¹⁶. Sarà proprio lui a occuparsi di incontrare personalmente il figlio di Piccioni insieme, secondo quanto una teste accuserà in seguito, a Ugo Montagna: siciliano di nascita, si fa chiamare anche marchese di San Bartolomeo, uno di quei titoli nobiliari concessi da Umberto di Savoia. È amministratore della società venatoria di Sant’Uberto e gestore della riserva di caccia di Capocotta. Possiede un appartamento al centro di Roma e una tenuta a Fiano Romano. Era arrivato a Roma quando aveva all’incirca venticinque anni, dopo un’infanzia trascorsa tra Grotte, in provincia di Agrigento, dov’era nato, e Palermo, dove poi si era trasferito con la famiglia. Nella capitale era riuscito a introdursi negli ambienti del regime. Oltre alla famiglia del Duce, conosceva anche quella di Claretta Petacci. E aveva stretto anche amicizia con don Galeazzo Lisi, l’archiatra di papa Pio XII¹⁷. L’ultimo degli incontri tra il capo della polizia, il giovane Piccioni e Montagna si era tenuto il 10 maggio. Polito, nel frattempo aveva annunciato l’intenzione di querelare i giornali che avessero «propagato notizie false e tendenziose»¹⁸ ma, nonostante la vignetta, Piero Piccioni non querelerà mai Riccardo Giannini. La miccia accesa dal «Merlo giallo», infatti, non era deflagrata e per un periodo di tempo i Piccioni potranno tirare un sospiro di sollievo. Ma la bonaccia non durerà a lungo. È il 13 maggio e alla «Kronos», agenzia di stampa guidata da Felice Fulchignoni e nota per avere simpatie tra le fila dei socialisti, si fa il nome di Piero Morgan, ovvero il nome d’arte con cui Piero Piccioni, musicista, è conosciuto nel suo ambiente. Poi è Marco Cesarini Sforza, del giornale di sinistra «Vie Nuove», a tornare sul tema e a firmare un lungo reportage dal titolo «Troppe voci sul caso Montesi ci fanno pensare che devono contenere qualche verità». Nel suo articolo, Cesarini Sforza chiede chiaramente: «Piero Piccioni ha un alibi?»¹⁹. Sotto pressione e indotto a ritrattare, e dal momento che non aveva voluto rivelare le sue fonti, Sforza il 31 maggio è costretto a smentire il suo precedente articolo e ad ammettere l’«assoluta infondatezza» delle sue accuse. Il clima di quei giorni, d’altra parte, era rovente: l’appuntamento elettorale di giugno si avvicinava. Il 1953 è l’anno della cosiddetta legge truffa, quella che assegnava il 65% dei seggi al partito che ottenga il 50,1% dei voti; la Democrazia Cristiana però non ce la farà e perderà il governo. De Gasperi, seppur uscito perdente, ottiene comunque il compito di formare un nuovo governo, ma non incasserà la fiducia. La palla passa allora nelle mani del suo delfino ma, visto il coinvolgimento del figlio nell’affare Montesi, anche il suo tentativo di formare un governo fallirà. Arriverà quindi Giuseppe Pella. Ad affiancarlo al Viminale, Amintore Fanfani, che subito fa delle scelte innovative. In materia di ordine pubblico, ad esempio, Fanfani vieta l’intervento della Celere nelle manifestazioni di piazza, al contrario di quanto avveniva sotto la guida di Scelba. E, sempre contrariamente al suo predecessore, rimuove Saverio Polito dal suo incarico. La motivazione – almeno formalmente – è l’età: il funzionario aveva già superato i 70 anni e l’ora della pensione era giunta da un pezzo²⁰.

    Il giornalista e il cigno nero

    Sono ormai passati molti mesi da quel 9 aprile, ma il mistero della morte di Wilma ancora non è stato risolto. A ottobre è una nuova rivista, «Attualità», a tornare sul caso. Il giornale è stato fondato da Silvano Muto, ventitreenne laureato in legge e aspirante cronista, e si propone di svelare fatti sorprendenti. Mister X e Mister Y: sarebbero questi secondo Muto i due personaggi colpevoli della morte di Wilma. In un articolo dal titolo La verità sulla morte di Wilma Montesi, si avanza l’ipotesi che questo Mister X sia il boss di un giro di stupefacenti, che gestisce in gran segreto nelle stanze della sua villa, proprio a Torvajanica; anche Mister Y, uomo di elevata estrazione sociale, è coinvolto in questo giro di droga e sesso. Di dettagli, Muto non ne fornisce: i nomi di Mister X e Mister Y rimarranno segreti e sconosciuti a tutti, finché una testimone-chiave non farà il suo ingresso nella storia. Né tantomeno è dato sapere dove si trovi con precisione questa villa dove Wilma si sarebbe sentita male la notte della sua scomparsa, anche se non è difficile sospettare che potrebbe trattarsi proprio di quella tenuta di Capocotta che, un tempo proprietà dei Savoia, è ora gestita da Ugo Montagna. Quella notte – sempre secondo l’articolo di «Attualità» – Wilma avrebbe quindi iniziato ad assumere stupefacenti ma, non abituata, si sarebbe sentita male. Al punto di morire, e la festa si era in un attimo trasformata in tragedia. Che farsene di quel cadavere scomodo? L’unica soluzione era toglierlo di mezzo. E in che modo? Abbandonandolo sulla spiaggia. «L’11 aprile del 1953 si apriva il primo grande scandalo della Repubblica: i festini, la DC, i nobili e i palazzinari» dirà molti anni più tardi, l’11 aprile del 1993, «l’Unità» in un articolo dal titolo Il caso Montesi. I sogni di Wilma, figlia di un falegname, annegati a 21 anni nel mare di Torvajanica²¹.

    Certo, col senno del poi è facile tirare le somme, ma quando Muto aveva azzardato quello scenario, si era giocato le sue carte rischiando tutto. E le conseguenze delle sue mosse non erano state di poco conto: il 24 ottobre il giornalista viene interpellato dal procuratore capo Angelo Sigurani e successivamente interrogato da un sostituto procuratore. Rischia una condanna, e su di lui viene esercitata una pressione così forte che alla fine il giornalista, complice anche una promessa di amnistia, ritratta tutto. Ironia della sorte, però, vuole che per un problema di date Muto non beneficerà mai di quest’amnistia, che sarà concessa solo ai giornali che hanno trattato il caso tra aprile e i primi di settembre. Niente cancellazione della pena, ma un rinvio a giudizio²².

    Tuttavia in questa sua battaglia contro tutti, Muto avrà dalla sua la donna che avrebbe fatto parlare più di sé in quegli anni Cinquanta, presto ribattezzata il Cigno Nero: è Anna Maria Moneta Caglio, ventidue anni, giunta a Roma in cerca di successo nel mondo del cinema. È lei la testimone chiave, che per prima darà un nome e un cognome a Mister X, che altri non sarebbe se non Ugo Montagna. Apparentemente estraneo ai fatti in una storia che sembrava già aver trovato il suo colpevole in quel Piero Piccioni accusato da diversi giornalisti, Montagna diventerà invece l’uomo chiave di tutto l’affare Montesi. Anna Maria Caglio e Ugo Montagna si erano conosciuti al ministero delle Poste e Telecomunicazioni, all’epoca sotto l’egida di Giuseppe Spataro; questo dettaglio animerà un dibattito parlamentare dai toni aspri e accesi, che vedrà soprattutto la sinistra opporsi alla Democrazia Cristiana. La famiglia Caglio ha molte conoscenze all’interno delle fila degli scudocrociati e il padre di Anna Maria, seppur con qualche reticenza, acconsente a scrivere una lettera di raccomandazione per la figlia che vuole cercare la strada del successo nel mondo del cinema. Tra le lettere che Anna Maria ha in tasca, firmate da suo padre, anche quella per Giuseppe Spataro, appunto. Sfortunatamente per lei, però, il ministro non è a Roma: ricevuta da un suo segretario, il dottor Savastano, Anna Maria viene presentata a Ugo Montagna, un uomo che «conta più di un Ministro»²³ e che può senz’altro esserle d’aiuto. La testimonianza di Anna Maria sarà di fondamentale importanza: giurerà di aver visto Ugo Montagna e Piero Piccioni a colloquio con il capo della polizia il 29 aprile, ovvero dieci giorni prima dell’incontro del 10 maggio, confermato anche dagli stessi Montagna e Piccioni. Quello dell’incontro è un dettaglio fondamentale: il 29 aprile ancora nessun giornale aveva fatto il nome di Piero Piccioni. Perché allora lui e Montagna avrebbero dovuto incontrare Pavone? Questo, secondo la Caglio, confermerebbe il coinvolgimento dei due nella morte di Wilma Montesi.

    All’epoca del decesso della ventunenne, Anna Maria e Ugo sono ancora fidanzati. Ma il loro non è un rapporto sereno, litigano spesso e spesso si lasciano per poi riprendersi²⁴. Secondo la versione fornita dalla donna e da Muto, sarebbe stata proprio lei a cercare il giornalista, dopo aver letto l’articolo su «Attualità». I due, allora, si sarebbero incontrati, verso ottobre, in piazza Gentile da Fabriano, al bar Mille Luci. La stessa Anna Maria, sicura allora di avere la chiave della risoluzione del mistero Montesi in mano, si sarebbe rivolta poi anche al procuratore capo Angelo Sigurani per raccontargli tutto quello che sapeva, ovvero che Mister X e Ugo Montagna erano la stessa persona. Anna Maria viaggiava spesso tra Roma e Milano, e proprio qui ha un confessore speciale, tale padre Filippetto, un gesuita: anche a lui aveva raccontato la scottante verità di cui era venuta a conoscenza. Il consiglio del padre gesuita era stato allora quello di rivolgersi ai suoi fratelli della congregazione romana. Una volta rientrata nella capitale, la Caglio aveva incontrato i padri Alessandro Dall’Olio e Virgilio Rotondi. Ancora una volta, anche con loro, la donna è un fiume in piena: racconta di Wilma, del sesso, della droga e di come il collante delle malefatte fosse sempre lui, Ugo Montagna. I padri gesuiti credono sia il caso di informare qualcuno. Sì, ma chi? Non è certo Pavone, quello stesso Pavone visto a colloquio con Piccioni e Montagna, la persona giusta a cui raccontare tutto. Dai due padri gesuiti di Roma, viene fatto un nome, quello di Amintore Fanfani, che dopo le ultime elezioni era diventato

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