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I terroristi della porta accanto
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E-book801 pagine11 ore

I terroristi della porta accanto

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Info su questo ebook

Una storia del terrorismo nero: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, dai NAR all’ergastolo per la strage di Bologna

Una gioventù bruciata negli scontri di piazza, nelle rapine, negli omicidi.
La storia di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, dalla militanza nei NAR – la più agguerrita formazione del terrorismo nero – agli ergastoli, fino alle polemiche per la condanna quali responsabili della strage di Bologna del 2 agosto 1980, è un paradigma di una generazione che ha segnato la storia del nostro Paese e uno spaccato sulla realtà della destra eversiva italiana. Tra inchiesta e indagine psicologica, giornalismo investigativo e ricostruzione di un’epoca, I terroristi della porta accanto scandisce la cronaca nei ritmi serrati della contemporaneità, in un racconto sospeso tra la drammaticità del passato e il dolore del presente. Ma soprattutto, l’indagine rigorosa e la verifica dei documenti processuali ripropongono tutti i dubbi suscitati dalla sentenza per l’eccidio di Bologna e gli interrogativi ancora irrisolti sul crimine dell’Italia repubblicana.
Il libro è aggiornato e rivisto fino al giugno del 2020.

Chi c’era davvero dietro la strage di Bologna del 2 agosto 1980?

Dopo quaranta anni, il libro inchiesta che racconta i depistaggi, le indagini e i processi fino alle ultimissime rivelazioni

«La prima cosa che colpisce in Valerio Fioravanti è la freddezza nei suoi occhi: paiono senza vita. O forse è la facile suggestione di quel che scrivono su di lui, e che mal si aggiusta su quel viso da bambino cresciuto. Francesca Mambro ha un aspetto più nervoso, si capisce che è una donna di temperamento, che si è sempre aperta la strada da sola; eppure, da qualche parte, la sua apparente carica di aggressività sembra alludere ad un’incertezza, ad una fragilità nascosta. Con lei, Fioravanti è gentile, premuroso, l’aiuta a togliersi il cappotto, le prende i pacchi. È, in tutto e per tutto, il bravo ragazzo di buona famiglia. Il ragazzo della porta accanto.»
Piero A. Corsini
Giornalista professionista, in RAI del 1986. Con Giovanni Minoli, ha lavorato tra l’altro a Mixer, Format, Un posto al sole, La Storia siamo noi, Rai Storia, e ha scritto i volumi Eroi come noi e Quella maledetta estate. Suoi articoli sono stati pubblicati su «Epoca», «L’Europeo» ed «Esquire». Docente di Storia Contemporanea, Storia del Giornalismo, Reportage Televisivo e Inchiesta Giornalistica, ha inoltre pubblicato Lo sbirro. Vita e indagini di Umberto Improta.
LinguaItaliano
Data di uscita16 giu 2020
ISBN9788822748065
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    Anteprima del libro

    I terroristi della porta accanto - Piero A. Corsini

    Introduzione

    Quando ho cominciato ad occuparmi della vicenda di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, nel 1988, mai avrei pensato che questa storia mi avrebbe accompagnato per oltre trent’anni.

    Questo libro, infatti, presenta l’edizione aggiornata (alla primavera 2020: quella del Coronavirus…) di un testo pubblicato dapprima nel 1999, poi riproposto con varie modifiche nel 2007. Al di là dei fatti storici, dunque, c’è in filigrana il racconto di una ricerca che non si è mai interrotta, e che da quei due protagonisti principali si è allargata, com’era forse inevitabile, alla strage di Bologna del 2 agosto 1980, per la quale Fioravanti e Mambro sono stati condannati all’ergastolo in via definitiva come esecutori materiali.

    Sul finire degli anni Ottanta, i testi disponibili sui Nuclei Armati Rivoluzionari e sul terrorismo nero erano pressoché inesistenti, così come scarsa era la pubblicistica sugli anni di piombo, eccezion fatta per alcuni volumi usciti nell’immediatezza dei fatti, o per qualche studio sociologico.

    Oggi, s’intende, tutto è cambiato: tra storia e cronaca, i titoli si contano a decine. Il tempo, grande scultore, ha cesellato ricostruzioni di quel periodo che, condivise o meno, propongono a chi voglia addentrarcisi molteplici chiavi di lettura.

    C’è stata, da principio, la discreta fortuna di quel genere particolare che è la memorialistica del terrorismo: un profluvio autobiografico (con una schiacciante prevalenza degli ex-terroristi di sinistra: segno, a quanto pare, di una maggior familiarità con le belle lettere) che, a sua volta, nel corto circuito mediatico tipico della modernità, ha prodotto un’assidua presenza dei protagonisti della lotta armata nei vari programmi televisivi di ogni rete.

    Si è corso così il rischio che a scrivere la Storia fossero gli sconfitti: il che potrebbe parere perfino un estro tutto italiano, non fosse per il fatto che questa storia è lastricata di vittime innocenti.

    Per ulteriore paradosso, una significativa correzione di rotta si è avuta proprio dal piccolo schermo: né sarà forse un caso che, ad iniziare un lavoro sistematico di recupero e di testimonianza del dramma di quelle vittime e dei loro familiari, sia stato un programma televisivo, La Storia siamo noi, di cui ho avuto la fortuna di essere tra gli autori.

    Proprio da quel programma avemmo modo di lanciare la proposta di individuare una data ufficiale per il ricordo delle vittime del terrorismo: l’appello non cadde evidentemente inascoltato se, nel 2007, il Parlamento votò infine la legge n. 57, che fissa al 9 maggio tale Giornata della Memoria.

    Quanto a La Storia siamo noi, nei suoi dieci anni di trasmissione abbiamo ripercorso, tra le altre, le vite e gli omicidi di Vittorio Occorsio, Guido Rossa, Emilio Alessandrini, Walter Tobagi, Mario Amato, Guido Galli, Carlo Casalegno e degli agenti della scorta di Aldo Moro, spesso a partire dai loro figli. Ragazzi e uomini che, ancora oggi, si domandano il motivo di un’assenza così assurda, repentina, violenta.

    A molte di queste puntate ho lavorato personalmente: e mi è pure capitato, nell’arco delle stesse ventiquattr’ore, di intervistare il parente di una vittima e l’assassino che l’aveva centrata con un colpo in fronte. Un’esperienza umanamente e psicologicamente complessa; un rischio del mestiere che ha lasciato in me un segno profondo e una diversa consapevolezza.

    Per quel che può valere, continuo a pensare che gli ex-terroristi abbiano diritto di parola, e che la loro voce, purché inserita in una accurata contestualizzazione, sia addirittura necessaria. È del resto giunta ormai all’età adulta un’intera generazione che, degli anni di piombo, non sa assolutamente nulla.

    Al difetto anagrafico (i loro genitori erano adolescenti quando Moro fu rapito) s’è aggiunta infatti una ostinata opera di rimozione; per molti, troppi anni, della lotta armata in Italia nessuno voleva più sentir parlare. Altre le emergenze del Paese, troppo doloroso ripercorrere quell’epoca. E quando poi il terrorismo si è fatto globale, quella vicenda è divenuta preistoria.

    Ma se qualche giovane – come pure sarebbe mio auspicio – sfogliasse queste pagine, è bene che sappia che le parole degli assassini hanno sempre un peso diverso da quelle delle vittime, e che il terrorismo in Italia ha segnato in modo irreversibile non solo chi impugnò la pistola, ma anche e soprattutto quanti caddero sotto i suoi colpi e, a seguire, chi li aveva cari.

    Ha detto il figlio di Carlo Casalegno: «Si può essere ex-terroristi, ma non si può essere ex-assassini».

    La storia criminale di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e dei

    NAR

    copre un arco di tempo relativamente breve. Quale siano stati la genesi del terrorismo, il suo sviluppo e infine il suo epilogo, è perciò materia che esula da questo libro.

    I pochi riferimenti storici, sociali e politici vanno perciò intesi, nella loro necessaria frammentarietà, solo come un ausilio offerto al lettore per orientarsi a ritroso nel tempo. Allo stesso modo, è stato inevitabile soffermarsi con più attenzione sull’ambiente della destra che su quello della sinistra.

    Per altri versi, sin dal 1988, la storia di Fioravanti e Mambro m’è parsa – e continua a parermi – un paradigma di una generazione di fuoco. Dunque un caso da studiare per provare a capire il percorso di due ragazzi della porta accanto, né meglio né peggio di tanti altri, che imboccarono la via estrema, bruciando la propria vita e quella delle loro molte vittime. C’è, tuttavia, la strage di Bologna.

    Secondo alcuni, Fioravanti e Mambro sono solo due mostri, due assassini sanguinari che, insieme a Luigi Ciavardini, quel sabato d’agosto hanno fatto esplodere una bomba che ha provocato 85 morti (o meglio, come si vedrà, 86), e oltre 200 feriti. Benché condannati all’ergastolo, sono oggi liberi; eppure, si dice, non contenti d’essersela cavata a buon mercato, hanno mobilitato ingenui intellettuali e mistificatori di professione che, nel tentativo di nascondere la verità, continuano a sostenere la loro innocenza.

    Pare insomma impossibile ragionare con pacatezza su quell’eccidio. Se n’è avuta riprova all’ennesimo processo su quell’eccidio (salvo errore di calcolo, il sedicesimo) che in primo grado, il 9 gennaio 2020, ha condannato all’ergastolo Gilberto Cavallini, loro complice in molte azioni

    NAR

    , per concorso in strage.

    In una mole sterminata di atti processuali, restano comunque le lacune di una verità giudiziaria che, per stessa ammissione di quanti non hanno dubbi sulla colpevolezza di Fioravanti, Mambro, Ciavardini e Cavallini, non ha ancora fornito risposte su alcuni punti fondamentali: il movente della strage, ad esempio; oppure i mandanti; o, ancora, chi sia stato a fornire dell’esplosivo.

    Le sentenze vanno rispettate: ma sono atti pubblici, pronunciamenti in nome del popolo italiano, e ciò vuol dire che possono essere lette e che ognuno se ne può fare un’idea.

    Allo stesso modo, mi sembra abbia davvero poco senso, come talvolta avviene, rispondere a quei dubbi richiedendo indizi e prove di una diversa ricostruzione, di uno scenario alternativo. Non è compito del cronista, o dello storico, individuare responsabilità e colpevoli.

    Il tentativo di queste pagine, semmai, è quello di proporre delle vie di accesso ad una materia così difficile, affinché la certezza di quei verdetti possa essere messa a confronto – com’è giusto, com’è legittimo – con la verifica di una differente prospettiva, con il dubbio, con le domande rimaste inevase.

    PIERO A. CORSINI

    Roma, giugno 2020

    Rallegrati, o giovane,

    nella tua giovinezza.

    Ecclesiaste

    Uno

    Signor giudice, vorrei tanto che un uomo, un uomo solo mi capisse.

    E desidererei che quell’uomo fosse lei.

    Georges Simenon, Lettera al mio giudice

    Bologna, 17 novembre 1989

    Fa impressione, un essere umano chiuso in gabbia.

    Chi non abbia consuetudine con le aule di tribunale dove si celebrano i processi per terrorismo – ammesso che anche chi ce l’abbia riesca infine ad affrontarlo con disinvoltura – prova un fastidio e un disagio terribili nel vedere gli imputati dietro quelle sbarre.

    Come gli animali allo zoo, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro si aggirano invece dentro la gabbia con naturalezza, ormai avvezzi alla condizione di reclusi, e senza alcun imbarazzo, anzi sorridendo, salutando attraverso le inferriate chi si avvicina loro.

    Ma non è solo questo che suscita disagio. A Bologna è un novembre freddo, umido, in bocca è restato l’amaro del caffè e il dispiacere d’aver lasciato troppo presto il tepore del letto; e l’aula della corte di assise sembra un po’ sbilenca, con le gabbie a destra e a sinistra, i tavoli per gli avvocati, le seggiole per il pubblico, e quell’assurdo palco lassù in cima che guarda in basso, verso lo scranno della giuria, che è intagliato in un legno scuro, severo, perché così dev’essere la Legge, e qui si giudica un fatto orribile e tremendo, una bomba che il 2 agosto 1980 ha provocato 85 morti e 200 feriti.

    In prima fila, dietro la staccionata che separa appunto la zona riservata al pubblico da quella per gli avvocati e la corte, c’è Torquato Secci, presidente e instancabile motore dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage. Nell’eccidio di Bologna ha perso suo figlio Sergio, che aveva 22 anni. È un signore distinto, vestito di grigio, i capelli bianchi e i baffetti che spiccano su un viso risucchiato all’indietro, gli occhi scuri che sporgono appena.

    Lo si riconosce facilmente, perché è apparso in televisione e sui giornali; ma accanto a lui, con un volto anonimo e un dolore che non passa mai, ci sarà anche chi ha perso un marito, chi una madre, o una sorella. Tra loro non si parlano, non dicono nulla; non tradiscono neppure un moto di indignazione per quei due imputati – che sono qui per esser giudicati da una corte di assise di appello, dopo che in primo grado sono già stati condannati all’ergastolo come esecutori materiali della strage – che continuano a sorridere e a scherzare tra loro.

    La prima cosa che colpisce in Valerio Fioravanti è la freddezza nei suoi occhi: paiono senza vita. O forse è la facile suggestione di quel che scrivono su di lui, e che mal si aggiusta su quel viso da bambino cresciuto.

    Francesca Mambro, invece, ha un aspetto più nervoso, si capisce che è una donna di temperamento, che si è sempre aperta la strada da sola; eppure, da qualche parte, la sua apparente carica di aggressività sembra alludere ad un’incertezza, ad una fragilità nascosta. Con lei, Fioravanti è gentile, premuroso, l’aiuta a togliersi il cappotto, le prende i pacchi. È, in tutto e per tutto, il bravo ragazzo di buona famiglia. Il ragazzo della porta accanto.

    Roma, autunno 1988

    Ogni storia ha un inizio. Questa storia – la storia di questo libro – ha inizio su un articolo di giornale, letto chissà dove e chissà quando, che però s’è piantato nel cervello e non se n’è più andato.

    L’infanzia televisiva di Fioravanti, il Giusva dello sceneggiato La famiglia Benvenuti, il terrorismo di strada dei suoi Nuclei armati rivoluzionari, così diverso da quello, tutto ideologico, delle Brigate rosse; il fatto che accanto a Valerio, in molte azioni, ci fosse il fratello più piccolo, Cristiano, e che questi, appena arrestato, si sia pentito, tradendolo ed accusandolo anche di delitti non commessi; l’amore per la Mambro, la donna della sua vita, che ha sposato in carcere. Sembra una tragedia greca, e invece è una storia tutta italiana, un paradigma di una generazione.

    Ha vissuto una brutta gioventù, quella generazione. «Erano anni in bianco e nero», dirà Fioravanti ai giudici di Bologna; e del resto così li ricorda anche chiunque li abbia vissuti in una grande città come Roma o Milano. In bianco e nero come i telegiornali dell’epoca, che all’ora di pranzo e all’ora di cena snocciolavano il rosario quotidiano dei morti, degli attentati, delle dimostrazioni violente di piazza; in bianco e nero come le fotografie sui giornali, che ancora non usavano il colore, e quelle immagini erano spesso una poltiglia indefinita di grigi, però si riconoscevano le macchie più scure del sangue, le sagome dei cadaveri sotto i lenzuoli bianchi, e c’era sempre quella sensazione strana, per cui istintivamente, senza neppure rendersene conto, per giorni e per settimane ci si teneva a distanza dal quartiere dov’era avvenuto un fatto violento, dove dopotutto poteva succedere ancora qualcos’altro. Non c’era il colore, in quegli anni, ma c’era già il sonoro: il suono delle sirene e degli elicotteri, e l’intensità e la frequenza delle une e degli altri davano la misura della gravità di quello che era capitato quel giorno.

    La generazione della guerra è rimasta segnata per sempre dagli allarmi antiaerei. Quando sono arrivati sul mercato i primi antifurto a sirena per automobili, molti, dopo averli installati, li hanno subito disattivati, perché quel suono risvegliava in loro il ricordo di una infanzia fatta di fame e di parenti morti sotto le macerie. Allo stesso modo, anche la generazione degli adolescenti degli anni Settanta avrà i suoi suoni e i suoi grigi da cui fuggire, nella inutile speranza che altri rumori, ed un mondo di colori, possano cancellare l’angoscia dei pomeriggi pieni di urla e di furore, la violenza dell’odio per l’avversario politico, la ferita mai rimarginabile dell’addio ad un amico.

    Anche qui è l’inizio di questa storia.

    Bologna, 17 novembre 1989

    Prima dell’apertura dell’udienza, Valerio Fioravanti parlotta con il suo difensore, Adriano Cerquetti. Un profilo da moneta romana, un boxer dall’aria mite che spesso porta a passeggio nelle vie vicino a casa, Cerquetti è uno degli avvocati storici della destra eversiva. Anche lui ha una storia da raccontare, e a tempo debito andrà raccontata.

    Cerquetti si allontana quando lo squillo della campanella annuncia l’ingresso della corte. Viene chiamato a deporre Fioravanti Valerio Giuseppe, nato a Rovereto (Trento), il 23 marzo 1958.

    Sulle prime, quasi gli trema la voce; ma poi subito s’insinua quel suo piglio, ora ironico, ora quasi sarcastico, ora amarissimo. Premette: «Io e Francesca non ci aspettiamo giustizia, da questo processo. Sappiamo bene quanto e in che modo sia condizionato dal fatto che si tenga a Bologna. Ma appunto per questo vogliamo testimoniare: per non essere complici passivi della mistificazione in atto». Il presidente della corte, Pellegrino Iannaccone, lo riprende con garbo: «Fioravanti, non è che lei dia molto credito a questa corte…».

    Il suo eloquio intreccia espressioni tipiche del gergo terroristico con altre che rimandano ad una padronanza della lingua che è propria di una classe colta: a parte la quasi totale assenza di inflessioni dialettali, si affacciano termini come «continuum» e «diacronica». Nella sua esposizione, è lucido, preciso, disinvolto: ogni tanto Iannaccone lo ferma per riassumere e far verbalizzare, la Legge vuole così, e poco importa se le sfumature, i toni di voce, le virgole del pensiero andranno irrimediabilmente perdute nel compito di burocratizzare una vita.

    La vita che Fioravanti racconta è lontana anni luce da quest’aula: nei volti dei giudici popolari, uomini e donne qualsiasi, che di qui a qualche mese smetteranno la fascia tricolore per tornare alle loro vite di sempre, affiora talvolta l’interesse, più spesso l’indifferenza, ma soprattutto una volontà ostinata di allontanare da sé il clangore insopportabile di quegli anni.

    A questo, invece, li riportano le parole di Fioravanti: e non danno tregua. Del resto, dice lui, rievocherà «gli episodi come li ho vissuti e capiti all’epoca, senza aggiungere le analisi successive, le correzioni, gli ingentilimenti a posteriori. Magari poi domani, sui giornali, scriveranno come al solito che sono freddo e cinico. Io invece credo che sia solo il rispetto delle regole del gioco. Questo è un tribunale, a voi devo raccontare i fatti, non i pensieri, le intenzioni, le filosofie e i sentimenti». Lamenta una certa confusione di date e avvenimenti – «Dovete chiedere a Francesca, è lei il mio archivio» – eppure è chiarissimo, puntiglioso, pedante fino al punto di correggere il cancelliere che verbalizza su un computer portatile.

    È una strategia precisa, quella di Fioravanti e Mambro. Dopo neanche dieci anni di carcere (lui è stato arrestato nel 1981, lei nel 1982), sono già stati condannati a vari ergastoli a Roma, a Bologna e a Venezia. Hanno accettato un confronto con tutti i magistrati che li hanno giudicati: sin dal primo interrogatorio dopo la cattura, entrambi hanno contribuito a ricostruire per i giudici la loro storia e quella del loro gruppo, i

    NAR

    . Si sono sempre rifiutati di fare i nomi e attribuire le responsabilità penali a chi era ancora latitante, ma hanno ammesso senza difficoltà tutti i reati commessi. Non si sono mai pentiti né dissociati: ma hanno sempre negato, da subito, ogni addebito relativo alla strage del 2 agosto.

    Solo con i giudici di Bologna, dopo che i loro avvocati avevano fallito nel cercare di far spostare il processo per legittima suspicione (com’era avvenuto per la strage di piazza Fontana, quando per ragioni di ordine pubblico il dibattimento era stato trasferito da Milano – sede competente – addirittura a Catanzaro), hanno mantenuto un ostinato e polemico silenzio. E quando qualche giornalista contattava Cerquetti per chiedere, suo tramite, un’intervista con loro, il difensore rispondeva, a stretto giro, che i suoi clienti, per il momento, non erano interessati.

    Ora, nell’autunno 1989, è tutto cambiato. Fioravanti e Mambro affrontano la corte di Bologna: guardano i giudici negli occhi, senza paura, e accettano addirittura due interviste televisive – una per La notte della Repubblica, la monumentale inchiesta di Sergio Zavoli sugli anni di piombo in Italia, e una per Mixer, in un faccia a faccia con Giovanni Minoli.

    Spiega Fioravanti: «Dopo il processo di primo grado per la strage sapevamo che cosa avevano in mano i giudici, e cioè niente di niente. Ciononostante, pur non avendo niente in mano, erano riusciti a vincere a man bassa. A quel punto, era necessario fare qualcosa: bisognava reagire, anche perché altrimenti, di fronte al nostro silenzio, avrebbero potuto continuare a dire qualunque cosa su di noi, senza alcun contraddittorio. Era venuto il momento di far sentire la nostra voce ai giurati popolari e all’opinione pubblica, di raccontare la nostra storia per come era realmente avvenuta».

    Maggio-luglio 2007

    Saranno gli unici giudici che li assolveranno dalla strage di Bologna, quelli del processo di appello. Mentre la Cassazione annullerà la sentenza, rinviando ad un nuovo grado di appello, che si concluderà con un ergastolo divenuto definitivo il 23 novembre 1995.

    Con quest’ultima sentenza, la strage di Bologna diventa così la sola strage italiana di cui si conoscano i nomi dei responsabili. A Fioravanti e Mambro si aggiungerà poi anche Luigi Ciavardini, che l’11 aprile 2007 la Cassazione sancisce essere il terzo esecutore di quell’eccidio.

    Tre mesi dopo il pronunciamento definitivo contro Ciavardini, arrivano in libreria due libri assolutamente opposti. Il primo in ordine di pubblicazione è Storia nera. Bologna, la verità di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti: a scriverlo è Andrea Colombo, giornalista dapprima di «il manifesto» e poi di «Liberazione», insomma uno che grandi simpatie per il terrorismo nero non le ha mai avute. È in chiusura del volume che Colombo riassume in modo più netto la sua posizione:

    Debolissime quanto a prove, fatti, riscontri, testimonianze, quelle sentenze [di condanna per la strage di Bologna] utilizzano una fortissima e indebita politicizzazione come scudo e strumento di ricatto sopra○ttutto nei confronti della sinistra. In gioco, infatti, non c’è più una specifica sentenza, ma il giudizio storico sullo stragismo e sul ruolo dei servizi segreti, la posta è addirittura la vittoria o la sconfitta del revisionismo storico. Messe così le cose, diventa ben difficile per chiunque sia di sinistra assumere una posizione critica troppo aperta. Tanto più che il ricatto in questione si aggiunge a una disposizione che a sinistra è ancora molto diffusa: «Colpevoli o innocenti importa poco, dal momento che sono stati terroristi fascisti e nemici». Ma una sinistra che non avesse a cuore la giustizia per tutti, anche per gli avversari, avrebbe poca ragione di esistere ¹.

    Il libro di Colombo contiene un messaggio implicito assai inquietante. Se Fioravanti, Mambro e Ciavardini sono colpevoli d’ufficio, condannati senza darsi troppo pensiero del reale fondamento delle accuse, ciò vuol dire che la sinistra (il

    PCI

    egemone a Bologna?) ha, di fatto, ottenuto il risultato di coprire l’ennesima, impunita strage di Stato – quel che insomma, da piazza Fontana in poi, ha sempre avversato. Quello per la strage di Bologna, dunque, sarebbe stato un processo esclusivamente politico che, lasciando impuniti i veri colpevoli, ha finito per portare beneficio proprio agli avversari (la

    DC

    al governo nel 1980? Gli interessi stranieri in Italia?), sacrificando due capri espiatori di comodo. Se così fosse, il revisionismo avrebbe ben altra materia su cui applicarsi che non il solo processo per l’eccidio del 2 agosto.

    Anche il libro Tutta un’altra strage, di Riccardo Bocca, caporedattore del settimanale «l’Espresso», si chiude con la sintesi della posizione del suo autore. Riferendosi alle dichiarazioni di Francesco Cossiga (che ha dichiarato pubblicamente la sua convinzione dell’innocenza di Fioravanti e Mambro), al lavoro di alcuni consulenti della Commissione Mitrokhin (i quali, come si vedrà nel dettaglio, hanno prospettato uno scenario del tutto diverso per la strage di Bologna) e, in generale, a tutti quanti hanno espresso dei dubbi sul verdetto di condanna, Bocca scrive:

    Quella che Cossiga e la Commissione Mitrokhin, come pure Mambro e Fioravanti, politici e opinionisti di destra e sinistra, per non dire degli ex-terroristi, stanno porgendo in questi anni alla pubblica opinione, è una singolare versione dei fatti. Tutta un’altra storia, rispetto alle indagini dei magistrati bolognesi; tutto un altro canovaccio rispetto alle centinaia di documenti e indizi sui quali sono stati costruiti prima i processi e poi le condanne. Una ricostruzione che spesso stride con i riscontri. In buona fede, a volte. Altre volte, per superficialità. Altre ancora, per cancellare deliberatamente i fatti ².

    Ma la vera novità del libro di Bocca è la rivelazione clamorosa con cui si apre: esiste una testimone oculare, una donna, che sostiene di aver visto la Mambro sul piazzale della stazione di Bologna, pochi minuti prima dell’esplosione. La donna, anche a ventisette anni di distanza da quella tragedia, vuole rimanere nell’anonimato: «Perché sono persone spietate, quelle, che non perdonano», confida a Bocca ³. Ne aveva parlato nel 1982 con Torquato Secci (scomparso nel 1996), con Paolo Bolognesi, l’attuale presidente dell’Associazione tra i familiari e con l’avvocato Laura Grassi, legale della stessa associazione: su loro consiglio si era rivolta agli inquirenti, ma al momento di firmare il verbale s’era tirata indietro. Spiega Bolognesi: «Non se l’è sentita. O almeno questo è ciò che noi dell’Associazione abbiamo saputo tempo dopo, da altre fonti» ⁴.Di questa testimonianza, ovviamente, si dovrà tornare a parlare.

    Quel che più conta, però, è che già dal 1982 qualcuno sapeva dell’esistenza di una testimone oculare. Eppure, chi sapeva ha taciuto per venticinque anni.

    Ha taciuto nel corso del processo di primo grado. Ha taciuto quando Fioravanti e la Mambro sono stati assolti, nel 1990. Ha taciuto quando la procura di Bologna e le parti civili sono ricorse in Cassazione contro quell’assoluzione, nel 1992. Ha taciuto nel corso del secondo processo di appello. Ha taciuto quando, nel 1994, si è costituito il comitato E se fossero innocenti?, che sosteneva pubblicamente, con interventi sui giornali e in televisione, l’innocenza appunto di Fioravanti e Mambro. Ha taciuto quando i difensori dei due imputati si sono battuti in Cassazione affinché quella condanna non diventasse definitiva. Ha taciuto nell’aprile 2007, all’uscita del libro Storia nera di Andrea Colombo, e mentre sulle colonne de «l’Unità» Furio Colombo (nessuna parentela tra i due) è tornato, tra gli altri, a sostenere la loro innocenza. Ha taciuto quando, il 24 maggio 2007, la trasmissione televisiva La Storia siamo noi, ancora di Giovanni Minoli, ha presentato la testimonianza di Stefano Sparti, il figlio del testimone-chiave contro i due ex-terroristi, che smentiva decisamente quanto sempre affermato dal padre Massimo. Un silenzio inspiegabile e incomprensibile.

    Ignorando il quale, Riccardo Bocca incalza:

    Dopo avere letto gli atti, o almeno svariate decine di migliaia delle pagine che li compongono, il problema è che molte cose non tornano. Non torna l’atteggiamento strafottente di Fioravanti e Mambro in aula, nei confronti sia dei giudici sia dei parenti; non convince l’alibi che hanno presentato per la mattina della strage di Bologna, modificato più volte nei suoi dettagli cruciali; non è trasparente il modo in cui si sono difesi, tra omissioni, ripensamenti o deboli verità. E nemmeno sono convincenti gli attacchi rivolti al testimone chiave, quel Massimo Sparti a cui il 4 agosto [1980, due giorni dopo la strage, n.d.a.] avrebbero chiesto nuovi documenti ⁵.

    Quella di Bocca è una posizione assolutamente legittima: del resto, ricalca pressoché alla lettera le requisitorie dei pubblici ministeri nei vari processi per l’eccidio alla stazione. Tuttavia, è anche una posizione abbastanza inutile, nel senso che ci si trova pur sempre di fronte ad una condanna definitiva, e che tanto la magistratura di Bologna quanto l’Associazione tra i familiari respingono con fermezza qualunque dubbio avanzato su quella sentenza. Ma perché, allora, tanta acredine verso chi quei dubbi ha pur il diritto di nutrirli?

    Anche sul libro di Bocca occorrerà tornare in modo approfondito. Ma, da subito, appare evidente che le polemiche che hanno accompagnato l’uscita di questi due libri rendono chiaro – se mai ce ne fosse bisogno – che questa non è, e non può essere, solo la storia di Valerio Fioravanti e di Francesca Mambro, dei loro amici, dei loro nemici, del loro tempo e della loro vicenda di terroristi della porta accanto.

    È anche la storia della più grave strage mai avvenuta in Italia.

    Due

    I cozzi delle giovani menti tra loro hanno questo di ammirevole:

    che non si può mai prevedere la scintilla né indovinare il lampo.

    Victor Hugo, I miserabili

    Rebibbia, 17 ottobre 1994

    «Io credo che, per me almeno, l’intervista sia per certi versi il grido della mortificazione. Quello che per un cattolico è la confessione privata, o per un protestante – il che mi affascina molto di più – la confessione pubblica. Credo che oggi come oggi l’intervista, specie se televisiva, risponda a quel bisogno psicologico primario di ogni essere umano di farsi riaccettare da quella comunità da cui è stato espulso. Come un figliol prodigo che chiede di tornare a casa, e per questo si umilia davanti a tutti raccontando i propri errori, nella speranza che gli vengano perdonati».

    Due righe partono, a scendere in obliquo, dal limite esterno dei suoi occhi: il solo segno del tempo che passa. Per il resto, a parte l’abbronzatura – che sorprende un po’ in un detenuto (ma lui, puntuale, spiega: «Ogni mattina corro per un’ora in cortile»), Valerio Fioravanti è praticamente identico a com’era cinque anni prima, in quell’aula di Bologna.

    «In quel momento, diciamo fino a tutto il primo processo di appello, l’intervista era per noi uno strumento di guerra: il giornalista era il nemico che ci attaccava, facendoci delle contestazioni, e noi dovevamo difenderci. E però, mentre te ne stai sulla difensiva, cominci a riflettere: Allora non è vero che questa storia non si può raccontare, non è vero che è una storia maledetta, che tutti vogliono dimenticare. Ti chiedi se quello che è accaduto non possa essere in qualche modo recuperato, se possa tornar utile; ti senti insomma come uno sfasciacarrozze, che da un ammasso di rottami si impunta a voler ricostruire qualcosa».

    Per questo Fioravanti ha accettato ancora una volta di sedersi di fronte ad un registratore: «Io voglio fare un discorso sincero su come nasce la violenza all’interno della società moderna; e allora parto dal caso mio, che è quello che conosco bene. I tempi cambiano: ma quello che è successo a me, quello che è successo a noi, può succedere di nuovo. La violenza nasce, ed è, e ci accompagna, ed è accanto a noi. Allora perché non parlarne? Io credo si debba costringere la gente a parlarne, ed è quello che voglio fare. O meglio, che sono disposto a fare, se capisco che può servire. Anch’io preferirei dimenticare, far finta di niente come fanno tutti gli altri: ma sono disposto a pagare parte del mio debito con la società anche in questo modo, compiendo questo lavoro – così faticoso e doloroso – nella memoria».

    Ma dove comincia, davvero, la storia di Valerio Fioravanti e di Francesca Mambro?

    In una città impazzita, si capisce: «Se noi, come dice mia sorella, invece di essere a Roma, eravamo a Firenze o a Napoli, non succedeva assolutamente niente», ha detto Fioravanti a Mixer. All’incrocio tra l’insofferenza del singolo e una velleità rivoluzionaria generica e generalizzata, diffusa come un male di cui non si conoscano cause né antidoti: forse. O forse ancora prima, tra le mura di una famiglia come tante. La famiglia della porta accanto.

    Roma, 1960-1965

    Nascono il 19 febbraio 1960, i due gemelli Fioravanti, Cristiano e Cristina. Ma neppure la loro nascita rasserena il clima in casa. Da tempo, ormai, il rapporto tra Mario Fioravanti e sua moglie Ida non è più sereno. Un matrimonio sbagliato. Capita.

    Si sono sposati nel dopoguerra, lei di buona famiglia, proprietaria del miglior albergo di Riva del Garda, educazione dalle Orsoline, molte letture, che per gioco s’iscrive al concorso di bellezza e vince il titolo di Miss Lago di Garda 1937, una ventenne che vuole fuggire dalla provincia. Lui è di nove anni più grande: coltiva una carriera da presentatore di avanspettacolo, e sembra poterle offrire l’evasione, il brivido di una vita anticonformista. Un’illusione che dura poco.

    Una prima figlia, Geraldina, muore a due anni, per un soffio al cuore. Nel 1958 arriva Valerio Giuseppe, ma la madre vive quella nascita come un nuovo trauma: non si sente ancora pronta, quel bambino le sembra una imposizione del marito e della vita, che le negano la libertà che ha sempre sognato.

    I rapporti tra Mario e Ida sono molto tesi, del piccolo Valerio si prende cura il padre, con le prime confezioni di latte in polvere importate dagli Stati Uniti e i primi omogeneizzati. Poi arrivano i gemelli, e l’unità familiare sembra ricomporsi sul compromesso tra una moglie che avrebbe voluto rivendicare maggiore autonomia e un marito che accetta, non senza rimpianti, di lasciare le tournée in giro per l’Italia per un lavoro più normale: annunciatore in

    RAI

    .

    «Diciamo che, in nome dei figli, si sono arresi entrambi: una volta che si è trovata con tre figli, anche mia madre si è calmata. Anche se poi la tensione c’era sempre, magari sotterranea. Nostro padre era molto geloso, ci scrutava sempre per verificare da certi piccoli dettagli se fossimo davvero figli suoi. Più che altro era un modo per far innervosire mamma. Per lui quello più sospetto era Cristiano: ma se c’è qualcuno, tra noi figli, che gli somiglia di più fisicamente è proprio lui, perché hanno le stesse gambe arcuate, la stessa andatura, la stessa pancia – sono due gocce d’acqua. E invece mio padre giù con le stilettate: Questo ragazzino come mai è biondo? Com’è che ha gli occhi azzurri?. Piccole cattiverie che erano rivolte a mia madre, solo che, intanto, chi ci andava di mezzo era Cristiano. Ad un certo punto, abbiamo addirittura cominciato a sperare che tutti questi presunti tradimenti fossero veri, se non altro perché riconoscevamo a nostra madre il diritto di difendersi in qualche modo dalla mania ossessiva di papà di gestire e controllare la vita di tutti noi. Anche se poi, onestamente, devo dire che non ci ha mai fatto mancare niente. In fondo, la loro era soltanto una guerra psicologica, i litigi non hanno mai superato il livello dello scontro verbale, per di più sempre dopo che noi bambini eravamo andati a letto. Dopo, poi, mamma passava sempre a rimboccarci le coperte, a tranquillizzarci: Papà è solo un po’ nervoso, lavora troppo…. A quell’epoca nostro padre stava fuori due notti alla settimana, perché conduceva Notturno dall’Italia, una trasmissione radiofonica per gli italiani all’estero, e di giorno, con tre ragazzini che giocavano a pallone in corridoio, non è che dormisse molto».

    Se anche non gli somiglia, il preferito del padre è proprio Valerio: «in modo spudorato, lo ammetto. Per lui ero quello intelligente, che andava bene a scuola, tutto bravino, pulitino». A Mario Fioravanti così piacciono i figli: bravi. Puliti. Rispettosi. Temprati alla vita. Senza troppi grilli per la testa. Quando vanno alle elementari, alla scuola pubblica statale Pistelli, i tre bambini vedono i compagni che arrivano in

    BMW

    o in Mercedes, mentre loro vanno a piedi o, al massimo, se proprio piove forte, con la

    FIAT

    125 di famiglia: «Papà, perché noi non abbiamo una macchina così bella? E perché gli altri papà guadagnano più di te?»; e il padre: «Perché a me non interessa far carriera, o avere una macchina costosa. A me basta fare l’annunciatore alla

    RAI

    , io voglio stare più tempo possibile in famiglia, con voi».

    «Ecco, mio padre ci ha educati come se fossimo già grandi, già in grado di capire. Non dico che sbagliasse: anzi, molti di quei valori me li sono ritrovati più avanti, e li ho anche apprezzati. Ad esempio l’assoluto disinteresse per il riconoscimento sociale, per gli status symbol, o per il denaro. Forse il suo errore è che non ci spiegava bene quello che stava facendo. Tu ci porti a vivere in Prati, in un quartiere borghese di Roma, e poi ci metti un gradino sotto gli altri. È un po’ brutale, come metodo pedagogico. Ma lui lo faceva per quello che credeva essere il bene della famiglia e nostro».

    Padova, aprile 1981 - gennaio 1982

    Ne discuterà a lungo, Valerio Fioravanti, dei metodi educativi di suo padre. E gli psichiatri, chiamati in carcere dalla difesa e dall’accusa a valutare la capacità di intendere e di volere dell’imputato, confronteranno l’esito della loro perizia.

    Ma, avvertono tutti concordi: «Il contributo della psicanalisi serve meglio a

    COMPRENDERE

    i motivi di reato ed il modo di agire del suo autore, ma ciò

    NON

    significa pervenire ad una sistematica dichiarazione di non responsabilità» ¹.

    Eppure, a dispetto di tutti i luoghi comuni sulla psicanalisi, l’infanzia di Fioravanti e il suo rapporto con i genitori merita, in quelle perizie, una menzione fugacissima. Molto più interessante, al contrario, appare ai medici la sua esperienza di attore in La famiglia Benvenuti.

    Roma, 2 aprile 1968

    È ormai un uragano, il vento della contestazione che soffia nella primavera del ’68. La guerra del Vietnam, a questo punto, ha assunto le dimensioni di una tragedia collettiva, che non riguarda più soltanto l’America: dai campus d’oltreoceano alle università europee, gli studenti gridano forte, come in un coro senza contrappunto, la disperazione di una generazione mandata a morire nel sud-est asiatico.

    La protesta, s’intende, si carica anche di significati altri, che non hanno nulla a che fare con il Vietnam. A Berkeley, in California, dove tutto è cominciato nel settembre 1964, gli universitari hanno iniziato a scendere in piazza per rivendicare il diritto di associazione e di parola.

    Gli studenti lanciano slogan non solo contro l’industria del sapere: la loro contestazione è globale, mette insieme classi, ceti, gruppi, investe la morale e i rapporti umani, sovverte un modello culturale, sconvolge un costume, rifiuta uno stile di vita ².

    Intanto, però, il processo di omologazione giovanile è inarrestabile. È iniziato negli anni Cinquanta, con il rock e certo tipo di cinema, e negli anni Sessanta arriva direttamente dentro casa, con la televisione e con la sempre maggiore alfabetizzazione (che significa maggior accesso all’informazione). Il risultato è una sorta di globalizzazione della disobbedienza, un’aggregazione del dissenso che non ha precedenti nella storia dell’Occidente: a venir travolta è innanzitutto l’autorità – delle gerarchie militari, dei genitori, dei professori – ma poi, a seguire, l’intera società. E in Italia, secondo lo storico Paul Ginsborg, il ’68 assume i contorni di «una rivolta etica, un rilevante tentativo di rovesciare i valori dominanti dell’epoca» ³.

    Anche nel nostro Paese, come già negli Stati Uniti, i primi segnali della ribellione si avvertono negli atenei: a partire dall’autunno 1967, vengono occupate le università di Pisa, Torino, Milano e Trento. A Roma, in febbraio, tocca alla facoltà di Architettura. Quando la Polizia sgombera con la forza gli studenti, il 1° marzo un corteo di protesta degenera negli scontri di Valle Giulia – 158 feriti tra le forze dell’ordine e 53 tra i dimostranti, con oltre 200 fermati. Scrive Roberto Massari:

    Il messaggio che da Roma si trasmetteva a tutte le facoltà occupate o da occupare era inequivocabile: per realizzare la benché minima parte del patrimonio di idee sviluppato dal movimento [studentesco], bisognava affrontare uno scontro complessivo con il sistema, scontro che sarebbe stato violento, ma nel quale si sarebbe potuto anche vincere ⁴.

    Nulla di tutto questo, sia chiaro, traspare da La famiglia Benvenuti, che debutta esattamente un mese più tardi, il 2 aprile 1968, sul canale Nazionale della

    RAI

    . Dopotutto, è solo uno sceneggiato televisivo.

    Dopo le lacrime di Dickens e le fughe impossibili del conte di Montecristo, approda sul piccolo schermo la realtà quotidiana delle famiglie di casa nostra. Una sit-com a metà strada con il reality, si direbbe oggi, ideata da artigiani di buon senso e straordinaria professionalità. Hanno pensato a tutto: c’è un padre un po’ burbero ma simpatico (ha il volto rassicurante di Enrico Maria Salerno); una madre comprensiva, che è la dolce Valeria Valeri; un figlio adolescente che sembra uscito dai film canterini con Gianni Morandi e Caterina Caselli (nella finzione scenica si chiama Ghigo, nella realtà Massimo Farinelli); e un figlio più piccolo, Andrea, ovvero Giusva Fioravanti, che gli spettatori italiani già conoscono come interprete di tante pubblicità dei formaggini Ramek.

    Anche Cristiano aveva debuttato in pubblicità: a lui, biondissimo e sorridente, era toccato pubblicizzare per qualche anno i detersivi Omo. Poi, stavolta con Valerio, era perfino apparso in una particina nel film Darling, di John Schlesinger (1965). La cosa era finita lì: mentre per Valerio era stato solo l’inizio.

    Ha cominciato prestissimo, il maggiore dei fratelli Fioravanti, e subito si è dimostrato serio, diligente, un professionista nato. Mai un bambino prodigio, sempre un bambino e basta: «l’ha fatto come un gioco qualsiasi, tranquillamente, serenamente, con una disciplina e una serietà che forse neanch’io mi sarei aspettato da un bambino» ⁵, dirà il padre allo psichiatra.

    De La famiglia Benvenuti, Andrea-Giusva diventa rapidamente il fulcro, il motore dei copioni, il punto focale dell’attenzione e dei sorrisi delle mamme e dei papà che si incollano al televisore. Andrea è il figlio che tutti vorrebbero avere: simpatico, disinvolto, spiritoso, tenero. E la popolarità dilaga ben oltre il piccolo schermo. La gente che ti ferma per strada, gli autografi, gli altri bambini che ti guardano strano.

    A Sergio Zavoli, Fioravanti confessa:

    Diciamo che [questa di farmi diventare attore] è stata un po’ una forzatura di mio padre, convinto che avessi un carattere come il suo e che avrei apprezzato la celebrità. Invece io ero assai timido, il fatto di essere riconosciuto per strada mi metteva molto in imbarazzo, e tutta la gente che avevo intorno, i miei coetanei, si dividevano in due grandi categorie: quelli che mi adulavano scioccamente e quelli che, invece, quando giocavamo a pallone, mi davano tripla razione di calci. Istintivamente, ho sempre provato più simpatia per quelli che mi prendevano a calci ⁶.

    E ancora, agli psichiatri: «non era una bella vita, soprattutto coi coetanei, è un po’ scomodo, sei al centro dell’attenzione, ti domandano quanto hai guadagnato, niente, non riesci ad essere normale. Io volevo solo giocare tra loro, volevo giocare a figurine e basta» ⁷.

    Una falsa timidezza che si rifa al crepuscolare, alla poesia di Sergio Corazzini ⁸ – ovvero, come recita il titolo di un film dell’epoca, L’impossibilità di essere normali.

    Per fortuna, a casa almeno, Giusva è solo Valerio, e non Andrea Benvenuti. Niente privilegi, niente corsie preferenziali; anche perché Valerio ha un rapporto particolarmente stretto con il fratello Cristiano, forse proprio per via di quelle che egli giudica le ingiustizie del padre.

    Alle quali Cristiano reagisce come può, ma già manifestando un’inquietudine che va stratificandosi. «Appena iniziata la prima elementare», ricorda Valerio, «Cristiano già non fa i compiti, già non va bene. Gli chiedono, Come mai? Cosa c’è che non va?, e lui risponde: Non vedo bene alla lavagna. Così ci portano tutti e tre a farci misurare la vista: solo che io e Cristina usciamo dall’oculista con la prescrizione degli occhiali da vista, mentre lui ha 10/10. Cristiano è fatto così: è sempre stato un furbastro, a suo modo simpatico, perché magari ti rubava la roba, poi ti guardava e rideva, e tu non gli potevi dire niente».

    Milano, 12 dicembre 1969

    Scoppia alle 16 e 37, la bomba di piazza Fontana. Una borsa piena di tritolo, collocata sotto un tavolo nel salone centrale della filiale della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, provoca 16 morti e 87 feriti. Quasi alla stessa ora, altre tre bombe esplodono a Roma, ferendo in tutto 16 persone. Per gli storici alla ricerca di date convenzionali, di punti fermi, venerdì 12 dicembre 1969 nasce ufficialmente la stagione del terrorismo in Italia.

    Ma la tensione era nell’aria assai da prima. Il 1969 è stato un anno difficilissimo: 302 milioni di ore lavorative perse per sciopero ⁹ (è il cosiddetto autunno caldo); più di 50 attentati dinamitardi contro persone e cose ¹⁰, tra cui quello del 25 aprile alla Fiera di Milano, che ha provocato 20 feriti; mentre il 10 novembre, ancora a Milano, nel corso di manifestazioni di piazza muore l’agente di Polizia Antonio Annarumma, di 22 anni.

    Dal meridione, intanto, si leva il grido dei contadini e dei disoccupati, soffocato dal fuoco delle forze dell’ordine. Due braccianti vengono uccisi nel dicembre 1968 a Siracusa, un tipografo e un insegnante nell’aprile ’69 a Battipaglia. E negli atenei, il movimento studentesco si frammenta, si organizza e si divide in gruppi e gruppuscoli: tra gli altri, i maoisti di Servire il popolo, i leninisti di Avanguardia operaia, Lotta continua, Potere operaio ¹¹.

    Proprio sulla pista rossa – più precisamente su quella anarchica – si indirizzano in un primo momento le indagini sulla bomba di piazza Fontana. Tre giorni dopo la strage, la Polizia arresta un ballerino di 37 anni, Pietro Valpreda. Un tassista afferma di riconoscerlo nel passeggero che ha portato in piazza Fontana pochi minuti prima dell’esplosione.

    Con l’eccidio, Valpreda non c’entra niente; e neppure c’entra niente Giuseppe Pinelli, un altro anarchico fermato dalla Polizia, che la sera del 15 dicembre, in una pausa dell’interrogatorio a cui è sottoposto, precipita da una finestra della questura di Milano.

    Se Valpreda diventa, per molta stampa, l’Oswald italiano – il capro espiatorio ideale per coprire complotti e macchinazioni –, la morte di Pinelli dà il via ad un feroce linciaggio mediatico nei confronti di Luigi Calabresi, il commissario capo che la sinistra extra-parlamentare (e non solo) ritiene, assolutamente a torto, colpevole della tragedia in questura. Ma di questo bisognerà riparlare.

    Le due vicende, tuttavia, si sommano e si confondono: la solidarietà che circonda Valpreda e l’odio contro Calabresi indicano che qualcosa, da qualche parte, è cambiato. Perché se la strage è di Stato, come diviene abitudine affermare, allora vuol dire che quello Stato, e chi lo rappresenta, e chi lo serve, e chi tenta di migliorarlo, è un nemico da abbattere senza pietà.

    Le indagini, intanto, proseguono tra mille difficoltà. L’ipotesi accusatoria che approda infine in tribunale vede sul banco degli imputati, oltre allo stesso Valpreda, anche un miscuglio di neofascisti, agenti dei servizi segreti più o meno deviati, giornalisti ed ambigue figure. Saranno tutti assolti. E quando la Cassazione emetterà la sua ultima sentenza definitiva, il 3 maggio 2005, venticinque anni e sei mesi dopo la strage di piazza Fontana, condannerà i familiari delle vittime al pagamento delle spese processuali.

    Oltre che come il primo atto di terrorismo in Italia, quella della Banca Nazionale dell’Agricoltura passa così alla storia anche come la prima strage senza colpevoli.

    Roma, 8 gennaio 1970

    La recita continua. Finita La famiglia Benvenuti (l’ultimo episodio della seconda serie va in onda la sera dell’8 gennaio 1970), ci sono comunque da sfruttare i residui della popolarità. C’è qualche western all’italiana diretto da Andy Muller, che poi sarebbe il sardo Edoardo Mulargia, un amico di casa Fioravanti: Cjamango (1967, incasso 96 milioni di lire dell’epoca), La taglia è tua… l’uomo l’ammazzo io (1969, incasso 54 milioni); c’è un fotoromanzo per bambini, La pista parte dal ciondolo, pubblicato su «Il Giornalino», concorrente religioso del più laico «Corriere dei piccoli». Protagonisti, a pari dignità di credits, Andrea Giordana e Giusva Fioravanti.

    Accanto a lui, piccolo investigatore in erba, Alessandro Momo, futuro protagonista di Malizia e morto giovanissimo in motocicletta, un’altra icona della tragica gioventù degli anni Settanta. E ci sono anche, sparsi per le pubblicità, ma come una compagnia di giro che finisce sempre con l’incontrarsi, Roberto Chevalier, già protagonista dello sceneggiato Davide Copperfield e futuro doppiatore di successo, Katiuska Pitti, prossima star dei fotoromanzi, Cinzia De Carolis, giovane rivelazione in teatro con Anna dei miracoli, anche lei un avvenire da doppiatrice. «Ci conoscevamo tutti», ricorda Fioravanti: «eravamo tutti amici, anche se il mio amico del cuore era Cocò, il figlio di Enrico Maria Salerno. Per due o tre anni, siamo stati inseparabili: la domenica prendevo l’autobus e andavo a casa loro, sull’Appia, mentre d’inverno ci portavano a sciare sul Terminillo. Poi lui s’è innamorato della mia vicina di casa – avremo avuto 12 anni al massimo – e abbiamo litigato. Ci siamo rivisti anni dopo, in un cinema, Come stai? Quando si accende la luce parliamo…, e invece, quando si sono riaccese le luci, lui era già sparito».

    Il 28 marzo 1970 Valerio compie 12 anni. È poco più di un bambino, eppure, a suo modo, è quasi un adulto. Nell’estate tra la seconda e la terza media è stato da solo un mese in Inghilterra: «I miei mi hanno caricato su un aereo e mi hanno detto: Questo è l’indirizzo, presentati lì: qualche sterlina in tasca, un vocabolario, la scuola d’inglese pagata, però in totale autonomia. Ecco, questa è una delle cose positive che ha fatto mio padre. Mi ha messo sulle mie gambe, Va’, cammina, fatti la tua strada».

    Ancora piccolo, scopre che viaggiare gli piace moltissimo, «perché mi consentiva la possibilità di una vita parallela. Non ero più io, non esistevo, nessuno mi conosceva. Io volevo fare amicizia, essere stimato o benvoluto per cose completamente diverse da quelle per cui ero stimato o odiato qui in Italia. Mi piaceva questa doppia vita, avevo bisogno di questo diverso Valerio, un’altra persona rispetto a Giusva».

    Roma, 30 maggio 2007

    A quasi cinquant’anni, ancora gli brucia sentirsi chiamare Giusva: «Odio questo nome, non lo sopporto. Per me, ancora oggi, Giusva rappresenta il raccomandato, il cocco di mamma a cui va tutto bene, perché tanto ci sono i genitori che gli scodellano la minestra. Quando ero all’estero, e non dovevo dimostrare di non essere Giusva, ero una persona normalissima, allegra, scherzosa. Qui in Italia ero sempre sul piede di guerra, sempre sotto esame. Io non credo sia un caso che, quelli di noi che hanno avuto un’infanzia più protetta, si siano rivelati poi quelli più violenti. Come per un desiderio di uccidere i nostri padri, di uccidere psicanaliticamente la classe sociale da cui provenivamo. È una cosa che, ad esempio, a sinistra non è successa. Loro erano nati poveri e si sono battuti per il proletariato. Noi, invece, che eravamo – e siamo – borghesi, ci siamo battuti contro la borghesia».

    C’è anche questo, in questa storia. Un parricidio simbolico ma neppure troppo, perché infine anche i padri pagheranno il loro amore e i loro eventuali errori con le lacrime proprie ed altrui. E allora anche di questo bisognerà occuparsi, a tempo debito, perché anche questa resa dei conti, primordiale quasi, consegnerà alla memoria un frammento di cronaca, un indizio che possa aiutare a capire.

    Tre

    «Vorresti un padre che ti dicesse dov’è il Bene e dov’è il Male?

    Piacerebbe anche a me: ma padri così perfetti non ce ne sono più».

    «Figli perfetti ancora meno».

    Jean Louis Trintignant e Fausto Rossi in Colpire al cuore

    Venezia, 1981-1982

    È ancora lontano, il tempo della rivolta, in quello scorcio di inizio anni Settanta. Qualche sintomo, però, già comincia a farsi avvertire. Lo coglie il padre, che, diligente, ne riferirà la genesi allo psichiatra che sta stendendo la sua perizia:

    Ho cominciato a notare in lui, intorno ai 12-13 anni, dei cambiamenti. E allora lì cominciò veramente a… così, ad essere poco convinto dei consigli che io gli davo, a voler fare da solo, non accettava più molto il consiglio o la guida che gli volevo dare e piano piano secondo me vi è stata una escalation verso una ribellione, verso questo sentirsi al di sopra di tutti, ma non per quanto riguardasse o la televisione o gli studi o altre cose, così, come temperamento, non accettava più, insomma, il consiglio paterno - materno forse è inutile dirlo, perché, l’ho detto, l’ho seguito quasi soltanto io: la mamma c’era, ma come tutte le mamme insomma ¹.

    Chissà, poi, se sono proprio queste le prime avvisaglie: se tutto può ricondursi al rifiuto dell’autoritarismo paterno. Magari sono solo le inquietudini di un bambino qualunque, alle soglie dell’adolescenza. O magari è solo un padre che, quando il figlio rischia ergastoli a ripetizione, cerca di accreditarne i drammi dell’inconscio, la personalità psicopatico-paranoica, l’ipertrofia dell’Io e le attitudini sadico-falliche di cui scrivono i periti e, soprattutto, l’incapacità di intendere e di volere.

    Roma, 1971-1974

    È molto malata, Ida Fioravanti. Un brutto male ha cominciato ad aggredirla sin da quando i suoi figli erano piccolissimi. Le terapie antitumorali sono ancora quello che sono: le radiazioni di cobalto fermano la malattia ma provocano l’inaridimento delle vene e, negli anni, rendono necessario il trapianto. Anche questa, però, è una terapia relativamente sperimentale: alla lunga, dovranno amputarle una gamba.

    I bambini crescono vedendola malata, sofferente; una volta all’anno, o poco più, ci sono sempre lunghi mesi di ospedale. «Io e i miei fratelli andavamo a scuola, e poi all’ospedale, a trovarla e a portarle il pranzo: era una tappa fissa della nostra giornata».

    Così il rapporto tra madre e figli s’intesse sul filo nero della malattia, cementandosi su piccole segrete complicità che finiscono per diventare un ulteriore conflitto con il marito. «Mio padre sosteneva che mia madre quasi se l’era meritato, il cancro, perché nonostante quello che le avevano detto i medici, lei non aveva mai voluto smettere di fumare. Chissà, forse questo suo lento, dolorosissimo suicidio è stata l’ultima ribellione di mia madre contro il marito. A me il fumo dà molto fastidio, però, pur sapendo che le faceva male, noialtri figli non le dicevamo niente. Continuavamo a vivere da spettatori questo assurdo duello tra loro. Una volta c’era quella pubblicità, Se tua moglie vuole fumare, dalle un bacio; invece mio padre alzava la voce».

    Altre comunanze si intravedono in quella complicità. Valerio che va con la madre al Teatro dell’Opera, o alle serate di abbonamento al teatro Argentina; Ida che risparmia sulla spesa e porta il figlio maggiore al cinema a vedere i film di Ingmar Bergman, che diventeranno la sua passione. E ancora, Valerio ama leggere e, come accade, il primo serbatoio da cui attinge è proprio la libreria della madre, piena di libri della Medusa Mondadori – Hemingway, Fitzgerald, Caldwell, Steinbeck: «Ancora ricordo i pianti che mi sono fatto con Uomini e topi».

    Ma anche qui s’insinua la dialettica, se non addirittura il conflitto. «Legge molto ma non mi sembra che impari molto», scriverà Valerio della madre mentre è sotto le armi ², e ancora nel ricordo di oggi: «Mia madre sognava grandi orizzonti, era affascinata da quei grandi romanzi in cui l’individuo si ribella contro la società gretta e ottusa, però poi non aveva il coraggio di uscire dalla cucina, di dare un taglio netto ad una vita spesa a litigare con mio padre. E io glielo rimproveravo: Tu parli di libertà, sogni la libertà, ma in realtà non la capisci. La libertà è un’altra cosa…».

    Eppure la polemica è fertile; se non altro è un terreno d’incontro tra una madre e un figlio su cui l’adolescenza comincia a stendere le prime ombre: «[Valerio] stava per ore solo in camera a sentire dischi o a scrivere. […] Era brusco, magari aveva dei modi piuttosto sgradevoli, non perdonava niente a nessuno» ³, rammenterà la madre a cose avvenute. Né, del resto, lui smentisce: «Un amico ha il dovere di starti vicino in qualsiasi momento, ma al tempo stesso è anche la persona da cui ti devi aspettare le critiche più cattive, altrimenti che amico è? Comunque è vero, penso che tuttora i miei giudizi siano molto pesanti» ⁴.

    Feroci, più che pesanti: «Mio padre, per gli estranei, è probabilmente antipatico, perché è presuntuoso, egocentrico. Al tempo stesso ha il grande vantaggio di essere sincero, essendo una persona intelligente» ⁵. Ma il padre, pronto, ribatte: «Mah, questo [Valerio] lo dice sempre, perché io lo contrasto in quelle cose che non ritengo giuste e corrette. Penso che questo conflitto ci sia tra tutti i figli e tutti i padri. Poi, si sa, noi ormai siamo dei matusa, mentre i giovani, invece, sanno tutto…» ⁶.

    Per altri versi, il suo rigore, lo ha detto la madre, sfocia nella solitudine. La sera vuole leggere a letto, ai fratelli dà fastidio la luce, e allora lui si ritira in una stanzetta. Non tollera le ingiustizie, né le ipocrisie o le falsità, e non manca di rimarcarle agli altri e di contrastarle. Discute su tutto, sempre e da sempre: «Credo, da adolescente, di aver fatto fronte al sopravanzare delle passioni barricandomi dietro la logica. Ero convinto che bisognasse seguire la logica, senza mai deviarne. Sono stato fortunato, perché ho trovato molta indulgenza in chi mi era intorno: a mia parziale discolpa, posso dire che avevo un carattere burbero, spigoloso, ma non cattivo. Tuttora ho molta pietà dei punti deboli della gente, mentre mi diverte sfottere una persona quando la vedo boriosa, troppo sicura di sé».

    «Solitario, ma non solo», così si rivede quindicenne. La casa di Monteverde, in cui si sono nel frattempo trasferiti, è piena di animali, ci sono i criceti, un cane, due gatti, un pappagallo e una scimmietta – come nella canzone che piace ai bambini: mancano solo un elefante e un’aquila reale; a lui piace fare gli scherzi al macaco: finge di essere morto e quello si dispera; la madre dice al cane, «Va’ a svegliare Giusva», Cristiano ci dorme nel letto e Valerio lo fa partorire quando sta per avere i cuccioli.

    Lo zoo si trasferisce in vacanza con la famiglia: i Fioravanti hanno una casa a Greccio, vicino a Rieti, dove nell’estate del ’73 i ragazzi fanno amicizia con un certo Antonio, che come età è esattamente in mezzo tra Valerio e Cristiano, e anche lui viene da Roma. Solidarizzano subito: è una vacanza d’innocenza, passata a costruire le capanne sugli alberi, a gironzolare in motorino, a fare il bagno nelle cisterne dei contadini. «Valerio e Cristiano erano diversissimi», dice oggi Antonio. «Valerio era chiuso, se ne stava per conto suo, nonostante avessero una bella casa lui dormiva in cantina, su un pagliericcio. Aveva questo rigore ascetico, una ricerca della spiritualità. Cristiano era allegro, estroverso, con lui avevo un rapporto più di gioco, di complicità: poi era un mangione, ogni volta che veniva a casa mia mi svuotava il frigorifero…».

    D’inverno, con il rientro in città, le giornate scorrono in un modo qualunque. Il liceo scientifico, lo sport (nuoto, tuffi, pugilato, tennis, ping-pong), il motorino, le compagne di classe. Per Valerio, il subbuglio ormonale dell’adolescenza s’incrocia con la rivoluzione sessuale, i progressi in questo campo sono graduali ma costanti. Da bambino, quand’era chierichetto, aveva pensato di farsi prete. Crescendo, cambia idea: «Forse siamo capitati in un’epoca di transizione. Per quanto i nostri genitori si sforzassero di fare i moderni, venivano pur sempre da una mentalità secondo la quale l’amore e il sesso erano cose importantissime, scandite da tappe ben precise. Ci hanno preso per tonti, e ci hanno sottovalutato».

    Milano, 12 dicembre 1970 – Roma, 16 aprile 1973

    Non sono solo Mario e Ida Fioravanti a sottovalutare i propri figli, né è solo un problema di sesso. Certo anche quello conta, nel baratro che si sta aprendo tra le generazioni. Tuttavia c’è dell’altro. Più che la morale e i costumi, è il diffondersi della violenza a sfuggire ad

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