Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L’operazione criminale che ha terrorizzato l’Italia. La storia segreta della Falange Armata
L’operazione criminale che ha terrorizzato l’Italia. La storia segreta della Falange Armata
L’operazione criminale che ha terrorizzato l’Italia. La storia segreta della Falange Armata
E-book313 pagine4 ore

L’operazione criminale che ha terrorizzato l’Italia. La storia segreta della Falange Armata

Valutazione: 3.5 su 5 stelle

3.5/5

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La storia segreta della Falange Armata

Documenti inediti

La Falange Armata non è mai esistita. Eppure è stata la più efficace operazione di destabilizzazione realizzata in Italia negli ultimi venticinque anni.
Le sono stati attribuiti attentati, omicidi, ferimenti, sequestri, intimidazioni, depistaggi. Le sue propaggini sono arrivate fin nel cuore del potere, nelle stanze del Quirinale e di Palazzo Chigi, facendo sobbalzare uomini di Stato come Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi. La Falange ha rivendicato praticamente tutti i tragici avvenimenti di un biennio fra i più cupi e misteriosi della nostra storia recente, quello dal 1992 al 1994: anni sanguinosi per le stragi di mafia e non, anni di svolta nelle istituzioni e nella politica, le cui conseguenze arrivano dritte dritte alle crisi dei nostri giorni. Ma chi muoveva i fili della Falange Armata? C’era un livello superiore che ha preso la decisione finale degli attentati? E chi faceva parte di questa presunta organizzazione?

1992-94: la mafia sferra un colpo diretto al cuore dello stato.
Una misteriosa sigla ne rivendica gli attentati.
Chi si nasconde dietro la Falange Armata?

Una delle pagine più oscure e misteriose della storia recente d’Italia

Tra i temi trattati nel libro:

• Perché la Falange Armata?
• Duri come OSSI: il gruppo scelto degli Operatori Speciali Servizio Italiano
• Fronte del carcere: morte di un operatore carcerario
• Il Connubio: la mafia che vuole “diventare Stato”
• Le stragi e il “golpe mancato”
• Le denunce dell’ambasciatore
• Attacco al Quirinale
• La Falange in tribunale
• Quindici uomini. O forse sedici
• “Operazione conclusa” (o quasi). La Falange si trasforma?


Massimiliano Giannantoni
È nato a Roma nel 1968, ha lavorato in radio e in televisione. È a Sky Tg24 dall’estate 2003. Ha curato inchieste sul caso Moro, sulla P2, su Ustica.


Paolo Volterra
Nato a Roma nel 1966, ha studiato storia e giornalismo. Ha lavorato sette anni in radio ed è a Sky Tg24 dal 2003. Sposato, ha due figli.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854163171
L’operazione criminale che ha terrorizzato l’Italia. La storia segreta della Falange Armata

Correlato a L’operazione criminale che ha terrorizzato l’Italia. La storia segreta della Falange Armata

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Criminalità organizzata per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su L’operazione criminale che ha terrorizzato l’Italia. La storia segreta della Falange Armata

Valutazione: 3.5 su 5 stelle
3.5/5

2 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L’operazione criminale che ha terrorizzato l’Italia. La storia segreta della Falange Armata - Massimiliano Giannantoni

    212

    Prima edizione ebook: gennaio 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6317-1

    www.newtoncompton.com

    Massimiliano Giannantoni – Paolo Volterra

    L’operazione criminale

    che ha terrorizzato l’Italia.

    La storia segreta

    della Falange Armata

    Newton Compton editori

    OMINO-OTTIMO.tif

    Il presente saggio ricostruisce alcuni fatti di cronaca degli anni Novanta attraverso l’analisi dei documenti delle commissioni parlamentari, delle testimonianze raccolte, degli atti dei procedimenti giudiziali, nonché dei volumi che si sono occupati di tali vicende. Riguardo le singole responsabilità di tutte le persone citate per gli episodi non più oggetto di indagine o di processi, anche a fronte di accuse di terzi e di chiamate in correità, riportate per esigenze narrative e di completezza dell’analisi svolta, vale quanto scritto nelle sentenze passate in giudicato e, in caso di mancanza di una sentenza, la presunzione di innocenza. Ciò non toglie che, essendo quei fatti riconducibili alle fonti citate, è legittima la facoltà di citarli, quanto meno sul piano della ricostruzione storica, il cui accertamento è sempre soggetto a progressivi e spesso imprevedibili aggiustamenti e revisioni.

    Ho teso trappole, ho scritto prologhi infidi,

    con profezie da ubriachi, libelli e sogni

    per spingere mio fratello Clarence e il Re

    a odiarsi l’un con l’altro mortalmente.

    William Shakespeare, Riccardo III, atto I, scena prima

    Introduzione

    Perché la Falange Armata?

    La Falange Armata non è mai esistita. Eppure è stata la più efficace operazione di destabilizzazione realizzata in Italia negli ultimi venticinque anni.

    La Falange è stata un’impressionante macchina della paura: messa in piedi da uomini esperti delle più sottili tecniche di depistaggio e di intimidazione; sorretta dal senso di sbandamento che ha accompagnato il nostro Paese in uno dei passaggi più delicati della sua storia recente; alimentata dagli interventi di forze rimaste cocciutamente oscure anche dopo anni di inchieste, di sospetti e di verità sbilenche; utilizzata finché ha fatto comodo e poi spenta quasi d’un colpo, come si fa con un motore.

    La Falange si è attribuita attentati, omicidi, ferimenti, sequestri, intimidazioni. Ma anche operazioni di disinformazione, di depistaggio, di pressione su esponenti delle istituzioni, del giornalismo, delle professioni. Le sue propaggini sono arrivate fin nel cuore del potere, nelle stanze del Quirinale e di Palazzo Chigi, facendo sobbalzare uomini di Stato come Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi. La Falange ha rivendicato praticamente tutti gli avvenimenti tragici di un biennio fra i più cupi e misteriosi della nostra storia recente, quello compreso fra il 1992 e il 1994: anni sanguinosi a causa delle stragi di mafia e non, anni di svolta nelle istituzioni e nella politica, le cui conseguenze arrivano dritte dritte fino alle crisi dei nostri giorni.

    Le parole e i messaggi della Falange Armata sono state un sillabario di tensione e terrore che racconta – al pari di un’efficace sintesi storica – le vicende indicibili dell’Italia alla fine del Ventesimo secolo. Ma proprio per questo le pagine che seguono contengono molte più domande che risposte. Anche perché mai, come nel caso della Falange, la verità giudiziaria e la verità storica sembrano non incontrarsi mai.

    Almeno per ora.

    Le modalità d’azione della FA sono state allo stesso tempo antiche e postmoderne, lineari e complicatissime. Rivelano oggi una conoscenza raffinata delle tecniche di informazione pilotata e di indirizzo della comunicazione. Fanno intendere comunque un utilizzo delle tecnologie (soprattutto quelle informatiche) non usuale per l’epoca (parliamo di vent’anni fa, quando internet era poco più che una curiosità e i cellulari ancora un mezzo per pochi eletti). La Falange rivendicava le azioni con un ritardo calcolato di qualche ora o di qualche giorno, quando ormai la notizia era stata diffusa dagli organi di stampa. L’operatore della Falange telefonava spesso al centralino di un’agenzia di stampa (per i primi anni le chiamate saranno indirizzate esclusivamente alle redazioni dell’ANSA, poi cominceranno ad arrivare messaggi anche all’Adnkronos), talvolta a un quotidiano, solo di rado venivano effettuate chiamate verso altre utenze, come ad esempio i commissariati o le carceri. In molte occasioni, la voce del telefonista aveva un forzato accento tedesco, altre volte scandiva le rivendicazioni senza alcuna inflessione, ma ci sono anche diverse chiamate in cui il lettore del comunicato aveva una cadenza siciliana molto marcata.

    Alla fine dell’attività della Falange si conteranno fra le novecento e le millecinquecento telefonate: il numero varia perché varia soprattutto l’attendibilità di molte comunicazioni. A un certo punto, era diventato quasi un gioco di molti mitomani quello di rivendicare qualsiasi cosa a nome della sigla più inquietante apparsa negli anni Novanta.

    Le minacce dei falangisti erano prese molto sul serio dagli investigatori e ancor più da chi le riceveva: magistrati, giornalisti, operatori carcerari venivano sottoposti a forti misure di sorveglianza anche solo per essere stati citati in una telefonata. Ma è anche vero che alcuni passaggi delle comunicazioni della Falange erano considerati dagli stessi investigatori così deliranti e mal costruiti che si faceva fatica ad attribuirvi credibilità. E un vero e proprio sistema di intercettazione delle chiamate falangiste venne messo in piedi solo tre anni dopo la prima telefonata¹.

    D’altra parte, questa ambiguità di giudizio fu anche quella della pubblica opinione, a partire dai quotidiani più autorevoli, che mescolavano l’allarme nei titoli e in molte cronache con la scettica cautela di gran parte dei commenti.

    Il fatto è che la Falange è stata troppo attenta e troppo sfuggente per essere inquadrata immediatamente in uno schema, investigativo o giornalistico che fosse. I messaggi erano zeppi di allusioni verticali e orizzontali: mettevano insieme palesi contraddizioni e dettagli feroci, facevano promesse di sangue, lanciavano segnali cupamente oscuri per quasi tutti quelli che ascoltavano e trascrivevano, ma erano indirizzati con sapiente chiarezza a chi doveva capire e interpretare.

    La domanda, a questo punto, è: come ha fatto un’operazione costruita, secondo le risultanze investigative, solo su telefonate e poco altro, a spaventare schiere di politici, giudici, poliziotti, carabinieri, cronisti, uomini al vertice delle istituzioni e semplici pedine del gioco della vita?

    Ma, prima di procedere per questa strada, dobbiamo fare un passo indietro, fino all’origine del fenomeno. La FA, infatti, nasce come Falange Armata Carceraria. Per anni, nei messaggi si fanno continui riferimenti al mondo dell’amministrazione penitenziaria, alla vita dentro le prigioni, alle leggi che regolano gli istituti di prevenzione e pena. Ma soprattutto, ci sono le minacce ad alcuni direttori di carceri e ad alcuni educatori: promesse di vendetta e di morte reiterate quasi ogni giorno, anche in situazioni che all’apparenza non c’entravano nulla. Chi scrive le rivendicazioni mostra di conoscere molto bene e dal di dentro la realtà delle prigioni. Non a caso, il primo omicidio rivendicato dalla Falange è stato quello di Umberto Mormile, educatore nel carcere milanese di Opera. Siamo nell’aprile del 1990.

    Perché cominciare proprio dai penitenziari? Perché prendersela con dei semplici impiegati dello Stato, senz’altra colpa che quella di vivere fianco a fianco con chi lo Stato lo combatte o ne viola le regole? E poi: non è dalle conversazioni in cella o all’ora d’aria che si riescono a captare umori e notizie preziose per ricattare, disinformare, utilizzare informazioni?

    Inoltre, in un certo momento storico, nell’immaginario del nostro Paese le rivendicazioni della Falange Armata si sono sovrapposte con le scorribande di sangue della Uno Bianca. Tanti indizi, una miriade di coincidenze, decine di titoli di giornale che hanno stretto insieme i destini della banda Savi e quelli della Falange. Anzi, la vulgata che è passata è stata anche più ardita: la banda che ha seminato morte e terrore in Emilia Romagna era il braccio omicida della Falange. La coincidenza di temi, di contenuti, di obiettivi era clamorosa: dagli attacchi contro nomadi ed extracomunitari alle tirate retoriche sulla decadenza della società, della politica, delle forze dell’ordine, dell’informazione. La telefonate dei falangisti hanno rivendicato tutte le azioni più efferate compiute dai fratelli Savi e dai loro complici almeno fino al culmine della tensione, poi la banda di poliziotti assassini è stata praticamente abbandonata al suo destino. Gli stessi Savi, a un certo punto, si sono ritrovati come privi di una guida nel loro circo crudele di omicidi e rapine; e quando le indagini (tardive e a lungo inconcludenti) hanno chiuso il cerchio intorno ai fratelli poliziotti, Roberto Savi ha cominciato a balbettare in cella e negli interrogatori di legami con servizi più o meno segreti², a suo modo continuando il percorso di depistaggi a tutto campo intrapreso dalla Falange.

    Ma a quel punto l’organizzazione aveva già volto il suo sguardo altrove: a Enna. Da settembre a dicembre del 1991, in un casale immerso nelle campagne vicine alla città siciliana, la cupola di Cosa Nostra tenne una serie di riunioni a cui parteciparono tutti i capi delle province mafiose, sotto la guida di Totò Riina. Fu in questi incontri che venne decisa la devastante stagione dei grandi delitti e delle stragi del 1992, fu in questa occasione che il capo dei capi, Totò u’ Curtu, diede un ordine preciso ai capi di stretta osservanza corleonese: omicidi e massacri dovranno essere rivendicati dalla Falange Armata. È una rivelazione che fanno davanti ai magistrati alcuni dei principali pentiti di mafia degli anni Novanta: Maurizio Avola, Filippo Malvagna, Tullio Cannella, Giovanni Brusca, Leonardo Messina³.

    Falange e Cosa Nostra, un binomio che per due anni ha tenuto in ostaggio l’Italia, portando l’attacco al cuore delle istituzioni, della magistratura, delle città, dell’identità stessa della nazione: mafia, frange della massoneria (con a capo Licio Gelli), settori deviati dei servizi ed esponenti vecchi e nuovi dell’estremismo di destra hanno coltivato per lunghi mesi un progetto di destabilizzazione del Paese che giungeva fino alla disgregazione dell’unità nazionale o a un colpo di Stato⁴. Con il supporto comunicativo e minaccioso dei telefonisti della Falange.

    Fra i tantissimi documenti che abbiamo raccolto per raccontare l’Italia della FA, ce n’è uno che dà particolarmente nell’occhio. Due paginette smilze datate settembre 1993, firmate CESIS (Comitato Esecutivo per i Servizi e la Sicurezza): in pratica, l’organismo di coordinamento dell’attività dei due servizi segreti dell’epoca, il SISDE e il SISMI. Due pagine in cui verrebbe espresso il sospetto che l’operazione Falange possa essere stata concepita e realizzata proprio all’interno degli uffici dell’intelligence, precisamente nella palazzina di Forte Boccea, a Roma, dove ha sede la 7ª divisione del servizio segreto militare (era quella che ha coordinato, finché è esistita, la rete di Gladio, annoverando nel 1993 alcuni fra gli elementi di punta dello spionaggio italiano).

    A dare corpo a quel sospetto sarebbe stato l’uomo che era stato a capo del Comitato Esecutivo fino a pochi mesi prima: l’ambasciatore Francesco Paolo Fulci, segretario generale del CESIS dal maggio 1991 all’aprile del 1993. Fulci avrebbe fatto nomi e cognomi di sedici operatori speciali del SISMI tutti appartenenti – tranne uno – proprio alla 7ª divisione: agenti che potrebbero aver avuto un ruolo fondamentale nella nascita della Falange. Fulci sapeva che si trattava di militari dal curriculum eccellente, scelti proprio per le loro doti di coraggio, di versatilità, di abitudine alle situazioni più disparate: dall’operatività su un campo di battaglia alle azioni di guerra psicologica (la cosiddetta guerra non ortodossa), dalla possibilità di pilotare pesanti aerei cargo a diecimila metri d’altezza fino alla dimestichezza con l’utilizzo di materiale esplosivo. Quegli elementi sarebbero stati le punte di diamante degli OSSI (Operatori Speciali Servizio Italiano), definiti in un documento riservato del SISMI «personale specificatamente addestrato per svolgere, in territorio ostile e in qualsiasi ambiente, attività di carattere tecnico e operativo connesse con la condotta della guerra non ortodossa»⁵. Un gruppo di specialisti scelti e reclutati – come vedremo – fra i migliori membri dei reparti d’eccellenza delle forze armate: Folgore, Comsubin, Col Moschin.

    Ma perché l’ambasciatore aveva fatto arrivare i suoi sospetti sulle scrivanie del capo della polizia e del comandante generale dei carabinieri proprio nel settembre del 1993? Erano passati appena pochi mesi dalle bombe della primavera-estate di quell’anno terribile: l’attentato di via Fauro, la strage di via dei Georgofili, le esplosioni a S. Giorgio al Velabro e al Laterano, i morti di via Palestro. E, come dichiarerà Fulci anni dopo ai magistrati,

    volevo che si sgombrasse ogni possibile sospetto su uomini delle istituzioni coinvolti in quelle azioni. So che erano uomini esperti di guerra psicologica e nel maneggiare esplosivi e avendo sentito più di una fonte attribuire ai servizi deviati la responsabilità delle stragi del ’93, volevo che si indagasse per fugare ogni dubbio: anche per provare che quelle persone che mi erano state segnalate erano in realtà dei galantuomini⁶.

    Sedici nomi. Anche se forse ce ne sarebbe stato qualcuno in più. Ma l’ex numero uno del CESIS – diventato poi rappresentante d’Italia presso le Nazioni Unite a New York, uno degli incarichi di maggior prestigio della diplomazia italiana – dirà che alcuni di quei nominativi li aveva trascritti così in fretta da essersene dimenticato certamente qualcuno.

    Sedici agenti, sedici sospetti. Destinati però a rimanere tali solo per poco tempo e a essere liberati in fretta da ogni dubbio nei loro confronti. Sì, perché dalle due paginette di Fulci ha preso spunto anche un’inchiesta della Procura di Roma del 1993 che non è approdata a nessuna conclusione riguardo gli appartenenti alla 7ª divisione e li ha lasciati completamente liberi da ogni addebito.

    Insomma, cadeva l’ipotesi investigativa che pure era stata sorretta da più di un indizio e che intravedeva una continuità tra Gladio, 7ª divisione SISMI, OSSI e Falange Armata. Quella linea, secondo il PM romano Pietro Paolo Saviotti – uno dei magistrati più esperti nelle indagini su terrorismo, eversione, trame occulte, morto un pomeriggio del gennaio 2012, mentre era alla sua scrivania di lavoro nel palazzone grigio di piazzale Clodio – non era dimostrabile, non c’erano prove sufficienti, non aveva alcun fondamento processuale. Bisogna aggiungere che, in parallelo, si risolveva in un’assoluzione piena anche la vicenda Gladio, che aveva visto imputati, fra gli altri, il direttore del SISMI Fulvio Martini e il capo della 7ª divisione (nonché coordinatore della rete Stay Behind) Paolo Inzerilli. Nel 2001 sono stati assolti da ogni addebito perché il fatto non costituiva reato.

    L’unica inchiesta giudiziaria sulla Falange Armata è stata appunto quella della procura di Roma, portata avanti per anni (almeno sei) da Saviotti: un giudice scrupoloso, moderno, «uno che lavorava sempre sui fatti»⁷, lo definisce oggi chi ha collaborato con lui. E quel processo lo conferma. Il procedimento contro la Falange ha avuto in realtà un solo imputato: Carmelo Scalone, educatore carcerario presso il penitenziario di Messina, arrestato nell’ottobre del 1993 e tenuto in cella per sei mesi con l’accusa di essere uno dei telefonisti della misteriosa organizzazione. Scalone ha sempre negato qualsiasi addebito, dicendo di essere vittima di una macchinazione. Gli indizi contro di lui sembravano schiaccianti: intercettazioni, pedinamenti, prove foniche, perizie affidate a esperti di prestigio. All’inizio del processo, nel 1996, si era costituito parte civile persino il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che era stato minacciato da un messaggio della Falange passato alla cronaca e alla storia come quello della talpa al Quirinale⁸. Testimoni eccellenti (come Antonio Di Pietro, Francesco Paolo Fulci, Maurizio Avola) e tre anni di dibattimento per arrivare alla sentenza di condanna per Scalone. Ma qualcosa non tornava in quell’indagine. Saviotti stesso se ne era reso conto, prima ancora che il processo avesse inizio:

    Scalone ha optato per la linea difensiva più difficile da sostenere, quella secondo cui le telefonate non le avrebbe fatte lui. Con una confessione e un’ammissione di stato di delirio se la sarebbe cavata con una semplice contravvenzione. Scalone Carmelo è rimasto per me, sotto il profilo investigativo, una sconfitta⁹.

    Sconfitta che arriverà in aula prima nel processo di appello del 2001, dove l’educatore penitenziario verrà riconosciuto innocente per non aver commesso il fatto (si appurerà con certezza che la voce nelle chiamate non era la sua e che qualcuno era riuscito a maneggiare a sua insaputa le utenze telefoniche da lui utilizzate), e poi in Cassazione nel 2003: la Suprema Corte confermerà l’assoluzione, imponendo allo Stato un risarcimento di 35 mila euro per ingiusta carcerazione.

    Scalone oggi è un signore di 76 anni malato e amareggiato, annichilito da una serie di errori giudiziari, sballottato dentro una storia che gli ha sbriciolato la vita, incastrato chissà perché dagli uomini invisibili della Falange negli ingranaggi di un meccanismo impersonale e sanguinoso che ha fatto di lui un capro espiatorio, una vittima e un ostaggio da schiacciare.

    La Falange è entrata in azione nella primavera del 1990 ed è andata in sonno nell’autunno del 1994, salvo qualche sporadica incursione successiva. Le date, in questa vicenda, sono un fatto: hanno un significato preciso, che si spinge al di là della coincidenza temporale. Nei primi mesi del 1990 (caduto il muro di Berlino e dissolta in poche settimane l’esperienza del comunismo reale che durava da cinquant’anni) si stava cominciando a far luce su alcuni segreti che avevano tenuto in ostaggio la democrazia italiana, da Gladio (e anche Gladio Rossa) ai Nuclei di Difesa dello Stato. Presidente della Repubblica era Francesco Cossiga, il premier Giulio Andreotti. Mentre sul finire del 1994 l’Italia è ormai pienamente nella Seconda Repubblica. Segnata da un bipolarismo maggioritario e leaderistico, dopo che i vecchi partiti sono stati spazzati via dall’ondata di Tangentopoli, e l’intreccio fra potere politico e popolarità mediatica è sempre più stretto. Presidente della Repubblica è Oscar Luigi Scalfaro, il premier Silvio Berlusconi.

    Insomma il quadriennio 1990-94 è proprio quello degli anni della Grande Transizione e del golpe mancato. In questo periodo la Falange Armata rivendicava quasi tutto, come ebbe a dire nel ’94 il capo della polizia Vincenzo Parisi¹⁰. A più di vent’anni dalla comparsa della fa, però, di quel mistero non si parla più, o quasi. C’è chi sostiene, fra gli storici e gli analisti, che la Falange sia stata semplicemente chiusa perché l’operazione è riuscita. Ma quale operazione? C’è invece chi sostiene che la Falange non sia finita, ma si sia soltanto trasformata. Ad esempio, mettendo il suo arsenale di disinformazione e di conoscenze comunicative a disposizione di altri progetti più attuali o più adatti alle tecnologie contemporanee: hackeraggio, spionaggio personale e industriale, indirizzo della pubblica opinione, costruzione di dossier a uso e consumo di questo o quel potere. C’è infine chi ancora indaga su quegli anni e chi si ostina a voler capire e spiegare quale sia stato il ruolo della fa nella storia recente del nostro Paese e se le azioni di quel gruppo di telefonisti anonimi abbiano influito sulle vicende che ancora adesso sono all’ordine del giorno. Nel processo di Palermo sulla trattativa Stato-Mafia, ad esempio, sono stati riproposti tutti gli interrogativi sui messaggi della Falange, con riferimenti precisi a una serie di minacce telefoniche indirizzate a esponenti politici e a uomini delle istituzioni¹¹. La Falange Armata, insomma, torna a far parlare di sé in un’aula di tribunale.

    Ed è proprio da qui che siamo voluti partire per raccontare il romanzo della paura che ha spaventato l’Italia alla fine dello scorso secolo, quando la crisi sociale, politica e istituzionale sembrava trascinare il nostro Paese in un gorgo torbido e vischioso. È stato facile allora ed è facile ripetere oggi che le azioni della fa erano opera di un gruppo di mitomani – destabilizzatori «in orario d’ufficio»¹² – che le rivendicazioni firmate erano sempre tardive e non credibili. Meno facile è stato (ed è ancora oggi) spiegare perché le parole di questi inattendibili telefonisti abbiano spaventato a morte un’intera classe dirigente.

    La paura ha tenuto in ostaggio l’Italia in tanti passaggi cruciali della sua vita recente e spesso ne ha cambiato la storia: paura del golpe, delle bombe, dell’invasione straniera; paura dei rossi e dei neri; paura della svolta autoritaria, del caos, dell’anarchia, dei carri armati per le strade e delle stragi di innocenti; paura dell’altro, dello straniero, dell’extracomunitario; paura del passato e dell’incerto presente.

    Ecco, la storia della Falange Armata è anche la storia delle nostre irredimibili paure.

    Capitolo 1

    Duri come ossi

    Paracadutisti. Incursori. Lagunari. Sono i reparti d’élite delle nostre forze armate, quelli in cui i giovani volontari fanno a gara per entrare.

    In quella luminosa terra di Maremma stretta fra le colline e il mare, tra Pisa e Livorno, ci sono le basi operative di alcune delle eccellenze militari italiane. È fra i migliori allievi di queste formazioni che il servizio segreto, fin dagli anni Sessanta, è abituato a pescare per reclutare agenti e operatori ad alta affidabilità. Una prassi che si è intensificata fra gli anni Ottanta e i Novanta, quando la vecchia guardia dei gladiatori di Stay Behind cominciava ad avvicinarsi alla pensione e si dovevano cercare forze fresche per le operazioni riservate. A confermarlo, alcuni documenti eccezionali inseriti nella perizia del prof. Giuseppe De Lutiis, allegata alla requisitoria per il processo Italicus bis¹³.

    Ma quali sono queste eccellenze militari? La SMIPAR (Scuola Militare di Paracadutismo) di Pisa; il 9° battaglione d’assalto Paracadutisti Col Moschin di Livorno; il 5° battaglione Paracadutisti El Alamein di Siena; il 12° battaglione Paracadutisti Tarquinia di Livorno; il 185°

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1