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Una famiglia pericolosa
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E-book606 pagine8 ore

Una famiglia pericolosa

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Info su questo ebook

«Il coraggio si impara leggendo questo libro.»
La Stampa

La storia vera della famiglia Rosselli e della sua opposizione al fascismo di Mussolini 

La famiglia Rosselli faceva parte dell’aristocrazia intellettuale fiorentina degli inizi del Novecento. Sin dall’avvento del fascismo, Amelia, la matriarca a capo della famiglia, e i suoi due figli Carlo e Nello, si opposero al regime, prendendo posizione anche pubblicamente contro Benito Mussolini. Quando si instaurò il nuovo Stato di Polizia, i Rosselli trasformarono il loro dissenso in una resistenza attiva: i due fratelli furono brutalmente assassinati. Amelia raggiunse New York con le nuore e i bambini, grazie all’intervento di Eleanor Roosevelt in persona. La storia della famiglia Rosselli è l’affresco indelebile di un’Italia sotto il giogo del fascismo e della strenua volontà di resistenza che la dittatura non riuscì a soffocare. Un racconto lucido sul desiderio di libertà, sul colpevole silenzio di alcuni e sull’eroismo di coloro che persero la vita combattendo il regime.

La vera storia di Amelia, Carlo e Nello Rosselli, eroi antifascisti

La Moorehead raffigura con lucidità la rabbia e la disperazione della famiglia mentre l’Italia cedeva a quella che Carlo Rosselli chiamò un’enorme peste nera.

«Questo eccellente libro si avvale di lettere originali e verbali ufficiali della polizia per ricostruire ciò che realmente accadde a Carlo e Nello Rosselli, fieri oppositori di Mussolini.»
The Guardian

«Caroline Moorehead: il coraggio si impara dai Rosselli.» 
Alain Elkann, La Stampa

«Il vivido ritratto di un esempio di resistenza durante i momenti più bui e dolorosi del secolo scorso.»
Kirkus Reviews
Caroline Moorehead
Nata a Londra, è giornalista, autrice e attivista per i diritti umani. Ha firmato numerose opere, tra cui la biografia di Bertrand Russell e una storia della Croce Rossa, e ha collaborato con le più famose testate internazionali, tra cui «The Independent», lo «Spectator», il «Times» e la BBC. La Newton Compton ha pubblicato Un treno per Auschwitz, La piccola città dei sopravvissuti e Una famiglia pericolosa.
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2017
ISBN9788822715357
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    Anteprima del libro

    Una famiglia pericolosa - Caroline Moorehead

    Capitolo 1

    Un’infanzia acquatica

    Venezia 1870

    Amelia Pincherle era nata al secondo piano del palazzo Boldù, sul Canal Grande, tra la Ca’ d’Oro e Rialto, il 16 gennaio 1870, l’anno dell’unificazione d’Italia¹. Per tutta l’infanzia, dal balcone del palazzo Amelia aveva visto le gondole e le chiatte funerarie trasportare i feretri neri e dorati all’isola di San Michele. Al calar della sera il lampionaio accendeva con il suo lungo bastone i lampioni a gas sul Canal Grande, che si tingeva di rosso, sorvolato dalle rondini. Dal suo sedile di pietra sul balcone, ancora scaldato dal sole, le seguiva con lo sguardo mentre volavano in cerchio e scendevano in picchiata sfiorando la superficie dell’acqua. Più tardi, quando scriverà le sue memorie, ricorderà le grida dei gabbiani e, d’inverno, la pioggia contro le finestre e il rombo lontano del mare che si poteva sentire ma non vedere.

    Amelia era l’ultima di otto figli, tre dei quali erano morti da piccoli. Quando l’aveva partorita, sua madre Emilia aveva quarantadue anni ed era stremata e sofferente dopo le ripetute gravidanze e le conseguenti emorragie. Il padre, Giacomo Pincherle, era un uomo d’affari che aveva assunto il secondo cognome Moravia in omaggio allo zio che l’aveva adottato dopo la morte prematura dei genitori. Il matrimonio era stato considerato dalla sua famiglia come una mésalliance: lei era molto bella, lui era invece deturpato dalle cicatrici del vaiolo contratto durante il fidanzamento. Quando guarì, le propose di troncare la relazione, ma lei si rifiutò. Nonostante il suo viso segnato dalla malattia – che l’aveva privato anche della folta capigliatura – la facesse inorridire, si sentiva in dovere di sposarlo. Quando Amelia raggiunse l’età dell’adolescenza, gli affari del padre avevano ormai smesso di prosperare. Uno dei primi ricordi coscienti di Amelia è di quando una delle loro due donne di servizio, Giovanna, che volevano licenziare per ridurre le spese, le aveva chiesto di intervenire in suo favore. Giovanna era in lacrime. Amelia andò a trovare i genitori, ma quando vide le loro espressioni arcigne, non osò parlare. «Mi sentii come se avessi fallito il mio dovere», scrisse in seguito. «Avrei dovuto battermi per lei, ma non ero stata abbastanza coraggiosa». Coraggio e dovere, due valori che Amelia apprese presto.

    Nel 1870 Elena, la prima figlia dei Pincherle, aveva già vent’anni e si era trasferita a Torino per sposarsi. Amelia la conosceva così poco che quando Elena venne a trovarli a Venezia pensò fosse un’estranea e le si rivolse chiamandola «Signora». Il secondo figlio era Gabriele, che sarebbe diventato il fratello più legato ad Amelia, un giovanotto con gli occhi profondi e le spalle strette che studiava legge a Padova. Il più vicino ad Amelia come età era Carlo, che aveva sette anni più di lei, ma aveva il suo giro di amici, e quando non poteva fare a meno di portarsela dietro, la trascinava a tutta velocità nel labirinto delle calli.

    La sorella con la quale Amelia aveva più intimità era Anna, di tredici anni più grande, che per lei fu come una madre sostitutiva della severa e stremata Emilia, la cui disapprovazione era una costante fonte di sofferenza. Il sorriso e l’affetto di Anna erano il centro della sua vita. La sorella maggiore la faceva sedere sulle sue ginocchia e le leggeva storie, e quando aveva finito i compiti suonava con lei al pianoforte la Marcia turca di Mozart o un minuetto di Boccherini che le evocava eleganti e maestosi movimenti di danza. Anna aveva un’amica, tanto brutta quanto lei era carina, ma dotata di grande fascino e carattere. Quando le due ragazze si sedevano a sussurrare in salotto, Amelia si nascondeva dietro la consolle del XVIII secolo con il servizio da tè di Sèvres e tendeva l’orecchio.

    I Pincherle erano ebrei discendenti delle famiglie sefardite cacciate dalla Spagna da Ferdinando e Isabella nel 1492. Nel XIX secolo gli ebrei veneziani avevano abbattuto da tempo le mura del loro ghetto². Liberati nel 1797 da Napoleone, che aveva ordinato la rimozione di ogni leone alato dalla città, se l’erano cavata meglio degli ebrei del resto d’Italia, anche dopo che Venezia e il suo hinterland furono ceduti all’impero austriaco.

    Le ragazze Pincherle erano colte e studiose; i genitori avevano vaste proprietà e facevano parte del consiglio comunale. I Pincherle erano religiosi ma non rigorosamente praticanti, e oltre a rispettare i precetti morali della loro religione erano anche ardenti patrioti.

    I tumulti popolari che avevano attraversato l’Europa vent’anni prima raggiunsero Venezia nel marzo 1848, quando un avvocato di nome Daniele Manin guidò i concittadini in una rivolta che cacciò gli austriaci dalla città. Fu proclamata una seconda repubblica e lo zio di Giacomo, Leone Pincherle, fu chiamato a far parte del governo. Anche Giacomo, che si era sposato da poco, combatté con la guardia nazionale di Venezia. Gli austriaci assediarono la città, bombardandola pesantemente. Emilia stava per dare alla luce la prima figlia, e quando nacque la spedì con una balia alla Giudecca, dove andava a trovarla in gondola ogni sera. Ma la piccola non riuscì a sopravvivere, e il 23 agosto 1849, quando la città capitolò, era già morta. Leone Pincherle fu costretto a fuggire, e insieme a Manin emigrò a Parigi. Questi eventi instillarono nella famiglia un profondo odio per gli austriaci, avvicinandola ancora di più allo spirito del Risorgimento, che avrebbe unificato l’Italia.

    Quando nel 1859 esplose una nuova guerra tra l’Austria e il Piemonte³, molti veneziani si unirono a Giuseppe Garibaldi e ai suoi mille volontari, che approdarono in Sicilia e conquistarono il regno borbonico delle due Sicilie. Il 17 marzo 1861 – nove anni prima della nascita di Amelia – il regno d’Italia, finalmente libero dalla dominazione straniera, come sognato da Dante, Petrarca, Machiavelli, Cavour, Mazzini e molti altri, fu ufficialmente proclamato. Includeva Parma, Modena, gran parte della Lombardia, la Toscana, la maggior parte degli Stati pontifici e il regno delle due Sicilie, con una capitale, Torino, e un re piemontesi. Ma non includeva Venezia, che entrò a far parte del nuovo regno soltanto nel 1866. La vera unità arrivò nel 1870, l’anno della nascita di Amelia. Da allora in poi l’Italia fu un unico Paese con molte lingue, leggi, tasse e valute diverse: in Piemonte la lira, a Napoli i ducati e negli Stati pontifici gli scudi… Le regole erano talmente complicate che i viaggiatori che scendevano il Po dovevano attraversare ventidue confini e pagare un balzello a ognuno di essi.

    I Pincherle avevano due religioni, l’ebraismo e la patria, ma era quest’ultima a venire per prima. Un giorno, aprendo un armadio nella camera dei genitori, Amelia trovò qualcosa di piccolo, duro e grigio. Il padre le disse che era il suo oggetto più prezioso, un pezzo di pane pietrificato che risaliva ai giorni dell’assedio di Venezia. Nell’armadio c’era anche una bandiera strappata e sbiadita che veniva appesa al balcone negli anniversari, mentre alle pareti del soggiorno erano appesi quadri che raffiguravano gesta patriottiche.

    L’infanzia di Amelia fu solitaria. Quando aveva nove anni, l’amata sorella Anna si sposò e si trasferì a Bologna. Come scriverà più tardi Amelia nelle sue memorie, fu «una catastrofe, una pietra nera nella mia esistenza». Spiando gli sposi promessi dal suo nascondiglio sotto il tavolo del salotto, quel giovane uomo alto con le folte basette le parve un ladro. Dopo la partenza di Anna rimasero solo Amelia e Carlo, e la casa, le cui imposte non venivano mai aperte, era buia e silenziosa tranne nelle serate d’inverno, quando il vento ululava e spegneva le candele. Non c’erano né elettricità né riscaldamento centrale, e l’unica stufa, che tenevano perennemente accesa, era nella stanza dei genitori. L’inverno del 1880 fu uno dei più rigidi della storia, la pioggia continuava a cadere e Amelia aveva sempre i piedi freddi.

    Fisicamente spartani e moralmente integerrimi, lei e Carlo avrebbero dovuto seguire la nuova ginnastica Jaeger, recentemente introdotta dalla Germania, che escludeva ogni forma di debolezza. Le notti di Amelia erano popolate di incubi e nel buio i pesanti mobili di quercia assumevano forme minacciose. Nelle enormi stanze buie con gli alti soffitti, a volte pareva di sentire l’eco. La madre non dava peso alle sue paure; Teresa, la donna di servizio rimasta, era indifferente. Per i Pincherle non fu facile adattarsi ai tempi duri che li aspettavano. Con i loro lunghi abiti neri sembravano appartenere a un’epoca passata, più formale.

    Nella sua solitudine, Amelia conduceva una ricca vita immaginaria. Ribaltava le sedie in salotto fingendo che fossero gondole e remava attraverso una laguna di marmo. Visto che a lei la felicità era negata, voleva almeno rendere felici gli altri, nella cui gioia si specchiava. L’eccessivo altruismo diventò la sua maschera per tutta l’infanzia e l’adolescenza, lasciandole un amaro sapore di vergogna e duplicità.

    Ma Amelia aveva un gatto, e non era totalmente priva di amici. Andava a passeggio insieme al giovane cugino Augusto Levi fino alla Veneta Marina, vicino alla stazione, dove le vecchie locomotive a vapore e i vecchi vagoni lasciati lì ad arrugginire erano perfetti per giocare a nascondino o partire per viaggi immaginari. I Levi facevano parte dell’aristocrazia ebraica veneziana. La madre di Augusto, zia Nina, era una donna implacabile, con le labbra sempre serrate e sul volto una perenne espressione di rabbia, che dettava legge sul mite marito barbuto e sui dieci figli come se fosse un generale al comando di un’armata.

    Quello che ad Amelia piaceva di meno erano le lunghe passeggiate ai giardini pubblici – dove c’era anche un elefante – con una cugina della madre, Emma Grassini, una bionda dispotica che con il suo tono erudito e autoritario rimproverava senza sosta lei e i quattro figli lungo la strada. I suoi figli dovevano parlare ogni giorno una lingua diversa e i vicini impararono a riconoscere i giorni della settimana semplicemente ascoltandoli parlare. Amelia, che parlava soltanto il dialetto veneziano, si sentiva, come scrisse lei stessa, nuda, esposta e inadeguata. Tra i figli di Emma la più vicina per età ad Amelia era la fantasiosa Lina, che voleva essere un maschio e si faceva chiamare Colombo. Le due ragazze diventarono presto amiche. Lina aveva una sorella molto più giovane, Margherita, già molto carina e determinata, che più tardi, sotto il nome di Margherita Sarfatti, sarebbe diventata una popolare giornalista e l’amante di Mussolini. A casa dei Grassini gli intenti istruttivi e pedagogici erano anteposti a tutto il resto: anche le sciarade erano considerate un’occasione per arricchire la conoscenza. Amelia adorava il caos e il costante chiacchiericcio e non voleva mai ritornare nel silenzio ovattato della propria abitazione.

    Era terrorizzata dalla vicina con le labbra sottili del piano di sotto, un’altra parente dei Levi, sempre vestita di nero, e dal suo orribile piccolo marito con i vestiti attillati e il baschetto che la costringeva a rispondergli in latino quando le dava un cioccolatino. Ma una volta all’anno i parenti fiorentini dei Levi, gli Orvieto, venivano a stare da loro e Amelia, con indosso un grembiulino inamidato, era spedita di sotto a giocare con i loro giovani figli, Angiolo e Adolfo, e nonostante loro la provocassero, e lei si vergognasse del suo rozzo dialetto veneziano, era profondamente attratta dal loro calore e dalla loro selvatichezza.

    Ogni mercoledì le amiche di Emilia si ritrovavano per il tè, l’unico evento sociale della settimana. Teresa lucidava i manici di ottone e toglieva le fodere dalla tappezzeria azzurro chiaro. Poi c’erano le visite settimanali di una guardia forestale che curava i boschi della famiglia. Amelia, che viveva in una città senza alberi, ascoltava rapita i suoi racconti sulle diverse specie di uccelli che nidificavano nel bosco. Ma le si spezzò il cuore quando le portò un fringuello accecato per farlo cantare meglio.

    Nell’autunno del 1881, quando Amelia aveva undici anni, il primo vaporetto, il Regina Margherita, salpò dal Canal Grande⁴. In piedi sul balcone insieme al padre, Amelia guardò la grossa imbarcazione svoltare a Rialto lasciandosi dietro una scia di fumo nero. Il sibilo acuto della sirena faceva scansare le gondole lungo il tragitto. La sua sensazione immediata, scrisse più tardi, fu di delizia: finalmente un segno di vita reale in «quelle acque morte».

    Benché D.H. Lawrence avesse definito Venezia «ripugnante, verde, viscida»⁵ e Ruskin inveisse contro i «canali pieni di escrementi umani», negli anni in cui crebbe Amelia la città rappresentava ancora il culmine del tour europeo. Nonostante il decadimento e i saccheggi compiuti dagli austriaci prima di andarsene – avevano persino divelto i pavimenti di parquet per costruire scatole in cui mettere il bottino –, nonostante le depredazioni compiute dallo stesso Napoleone, Venezia era un luogo magnifico, con chiese affrescate e palazzi pubblici pieni di capolavori del Rinascimento veneziano. Il lancio del primo vaporetto era avvenuto in concomitanza con il congresso geografico del 1882⁶. Il re e la regina della nuova Italia, insieme alla nobiltà europea, furono accolti con bandiere appese ai balconi sul Canal Grande, dove si svolse una regata storica con i gondolieri nei costumi del XV e XVI secolo e barche decorate (su una l’equipaggio indossava costumi da orsi polari e a prua un tricheco era accucciato accanto a una piramide di ghiaccio). La notte piazza San Marco fu illuminata da una miriade di piccole lanterne le cui fiamme sembravano tremolare in un grande lenzuolo di fuoco vivente.

    Venezia era la città dove era nato Vivaldi, dove Monteverdi era stato per molti anni maestro di cappella a San Marco e dove Wagner aveva lavorato al suo Tristano e Isotta. I veneziani erano fieri delle loro feste e delle processioni con i sacerdoti in abiti cerimoniali. Non c’era nessun’altra città in Italia così fedele ai propri costumi e ai propri rituali del cibo, con identità separate per ognuno dei suoi diversi quartieri. Di recente era stata inaugurata una nuova linea regolare dagli Stati Uniti all’Italia⁷, e Venezia era diventata il terminal delle navi della Indian Mail. Ai molti nuovi visitatori si consigliava di trascorrere cinque giorni a Venezia – quindici a Napoli, trenta a Roma –, con una sosta obbligatoria per l’aperitivo al Florian e una visita a Murano e ai laboratori del vetro soffiato. Nei mesi estivi i turisti prendevano il vaporetto per il Lido, dove Byron cavalcava sulla spiaggia e dove erano appena sorti nuovi stabilimenti balneari, ristoranti e sale per concerti. Venezia, come aveva osservato Browning, era «gaiamente internazionale nonostante il suo provincialismo».

    Tuttavia gli stranieri avevano un ruolo marginale nella vita ritirata di Amelia. Per lei Venezia era un luogo di mare e cielo, dove l’acqua trascolorava di continuo dal verde al grigio, pura e argentea sotto la luna, trasformandosi in un prato di alghe verdi con le basse maree. D’inverno il mare allagava le calli, invadendo le cantine e bagnando le scorte di legna per le stufe. E quando suo padre morì all’improvviso e Amelia – che all’epoca aveva quindici anni – si trasferì con la madre a Roma, portò con sé il ricordo della sua infanzia acquatica insieme a un forte senso della disciplina, dell’integrità e della giustizia, e alla convinzione che spartire quello che si aveva con gli altri non era un atto di carità ma un dovere, e che la forza d’animo non era una questione di scelta: tutti princìpi che le erano stati inculcati dai genitori. Anni più tardi sarebbe stata loro grata per la forza che le avevano dato.

    Roma 1886

    Nel 1872, quando Amelia aveva due anni, Roma diventò la capitale della nuova Italia unita⁸. Il re Vittorio Emanuele II, un uomo basso e tarchiato, con piccoli occhi grigi, gambe muscolose e un insaziabile appetito di cibo e di donne, insediò la sua corte nel palazzo del Quirinale. Alla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, la città eterna era in pieno fermento edilizio. Ma come osservò lo scrittore Augustus Hare, i nuovi edifici stavano causando più danni delle invasioni dei goti e dei visigoti.

    Come città capitale, tuttavia, Roma era singolarmente antiquata. Non c’era una borsa valori e le industrie erano molto poche, nonostante Pio IX avesse installato l’elettricità e fosse un generoso patrono delle arti. Carri trainati da buoi portavano ogni giorno la frutta dalle campagne. Roma era un’immensa fattoria dove pascolavano mucche e capre in mezzo a una grande pianura coltivata a grano. Quando i cardinali andavano a passeggiare sul Pincio, sotto le tonache nere spuntavano le calze scarlatte. D’estate, battaglie navali in miniatura si svolgevano in piazza Navona allagata, dove a Natale i pastori scendevano dall’Abruzzo con le loro zampogne.

    Amelia e la madre andarono a vivere da Gabriele, che ora era un rispettato giurista e lavorava al ministero della Giustizia. L’appartamento in via Nazionale aveva poche stanze, ma erano tutte imponenti e con alti soffitti. Il salotto era arredato in stile Biedermeier, con tappeti Bukhara sui parquet lucidati a cera. Amelia si immerse nello studio. L’italiano aveva sostituito il veneziano come lingua madre e si era avvicinata a Emilia, che era diventata più tollerante e meno moralista. Amelia si stava trasformando in un’affascinante giovane donna con folti capelli raccolti sulla nuca, abbaglianti occhi azzurri e un lungo naso sottile. Gli abiti di mussola bianca dell’epoca le donavano. Aveva un carattere forte e tenace, era astuta e le piaceva essere nel giusto; insicura e incerta, poteva sembrare inflessibile. Ma era anche amorevole e ansiosa di rendersi utile, intelligente e profondamente onesta.

    Nel 1889, quando aveva diciannove anni, Amelia incontrò Giuseppe Rosselli, che abitava vicino a lei in via Nazionale. Joe, com’era conosciuto, curava molto il proprio abbigliamento, sfoggiava cravatte floreali e un bastone da passeggio con il manico d’argento. Aveva le spalle larghe, una soffice barba e capelli neri lisci. Per accontentare il padre si era laureato in legge, ma il suo vero amore era la musicologia. Mandava ad Amelia bucaneve e violette, e una volta anche uno spartito scritto apposta per lei. Amelia era deliziata dalla sua eleganza e dal suo entusiasmo, e presto gli scrisse: «Io ti amo. Non so cos’altro dire: continuo a ripeterlo a te, a me stessa, nelle lettere che ti scrivo, ai tuoi capelli, al tuo caro piccolo viso, nelle canzoni al pianoforte, all’aria, nei miei sogni, sempre». Anche i Rosselli erano ebrei, cosmopoliti, poliglotti e secolari. All’inizio del XIX secolo erano emigrati da Roma a Livorno – dove c’era una grande comunità di ebrei sefarditi – per sfuggire alle leggi antisemite del papa ed estendere le loro attività commerciali. Dal porto libero di Livorno i quattro fratelli Rosselli – Sabatino, Pellegrino, Raffaello e Angiolo – avevano allacciato legami bancari e d’affari con Londra, dove avevano aperto un ufficio di cambio vicino a Fenchurch Street e da dove esportavano olio, caffè, piume di struzzo, fez, merletti e ricami.

    Joe era nato a Livorno il 10 agosto 1867, figlio di Sabatino Rosselli e Henrietta Nathan, la cui madre Sara, o Sarina, era la matriarca della famiglia Nathan. I Rosselli e i Nathan erano legati da una serie di matrimoni tra membri delle due famiglie. Da piccolo, Joe scriveva al padre in inglese, spesso per farsi perdonare le marachelle. «Caro papà, la mamma ha detto che ultimamente mi sto comportando meglio, mi scriverai?»⁹ e «Perdonerai i miei errori?». Joe se la cavava bene agli esami orali, soprattutto in greco e letteratura italiana, ma nutriva una profonda «avversione» per tutte le scienze¹⁰.

    Come i Pincherle, anche i Nathan erano ardenti patrioti per i quali la patria contava più dell’osservanza religiosa. Erano grati al Risorgimento, che li aveva affrancati sia dagli austriaci sia dalle autorità pontificie. Negli anni Trenta dell’Ottocento, a Londra, i Rosselli e i Nathan avevano conosciuto Giuseppe Mazzini, il visionario giornalista e pamphlettista genovese che, insieme a Cavour e Garibaldi, sarà uno dei padri dell’unità d’Italia¹¹. Mazzini era un uomo di bell’aspetto, con una grazia quasi felina e un lungo viso triste. Aveva trascorso la sua vita organizzando un’insurrezione dopo l’altra e invocando una nuova Roma, fondata sulla moralità e il senso del dovere. Era convinto che se le nazioni avessero avuto soltanto i confini stabiliti da Dio, nel mondo avrebbero regnato la pace e la buona volontà, e l’unificazione dell’Italia sarebbe stata presto seguita da quella di tutta l’Europa. Mazzini si considerava un «missionario della religione del progresso e della fraternità». Molti lo ritenevano il principale teorico dei movimenti patriottici europei del XIX secolo, per altri, invece, era un pericoloso radicale.

    All’età di ventisei anni, dopo essere sfuggito miracolosamente all’esecuzione, Mazzini andò in esilio e trascorse la maggior parte dei suoi ultimi anni all’estero, dedicandosi alla causa della rivoluzione politica e sociale. Dopo essere stato espulso dalla Svizzera, si trasferì a Londra, dove visse sobriamente, sconcertato dal costo della vita nella capitale inglese, senza tuttavia rinunciare alle sue costose carte da lettere. Considerava gli inglesi insolitamente inclini all’ubriachezza e lamentava la costante presenza delle cimici nelle pensioni economiche dove alloggiava, ma apprezzava la Pale ale, sostenendo che era una bevanda molto più salutare dell’acqua di Londra, piena di vermi e larve. Mazzini adorava la musica. Poco dopo il suo arrivo nella capitale britannica incontrò Sarina Nathan e suonarono insieme in vari ensemble di musica da camera. Il denaro scarseggiava sempre, ma i Nathan erano felici di fornirlo. Le sere, a casa di Sarina si parlava di suffragio universale, di miseria e di come Karl Marx e il comunismo non avrebbero funzionato in un’Italia unita e liberale. Mazzini aveva un grande fascino nonostante i lunghi baffi che gli conferivano un’aria da temibile rivoluzionario. Sarina e suo marito Mayer Moses, il cui padre si mormorava fosse un Rothschild, aiutarono Mazzini a inviare in Italia messaggi in codice sotto forma di scambi commerciali: acquista «cinquanta sacchi della solita merce» significava cinquanta fucili.

    Conquistare Roma e farne la capitale d’Italia era sempre stato il grande sogno di Mazzini. Nell’estate del 1868 rientrò in Italia attraversando clandestinamente il confine con la Svizzera. Ma era troppo presto. Arrestato e imprigionato a Napoli, quando l’esercito italiano conquistò Roma Mazzini era ancora in carcere. Dopo la liberazione tornò in esilio a Londra, fermandosi prima qualche giorno a Livorno per fare visita ai fratelli Rosselli, e due mesi al lago di Lugano, dove Sarina, che era diventata una ricca vedova, aveva una casa. Tutti i suoi dodici figli erano ferventi mazziniani. Tre anni più tardi Mazzini ritornò in Italia. Attraversò il San Gottardo su una slitta trainata da cavalli e soggiornò da Sarina mentre lanciava l’ultimo dei suoi venti giornali, «La Roma del Popolo», spedendo il figlio Ernesto a Roma per assumerne la direzione. Nel febbraio del 1872, mentre era a Pisa sotto la falsa identità del dottor Brown, contrasse una grave forma di asma e bronchite e fu amorevolmente assistito dalla figlia di Sarina, Gianetta, moglie di Pellegrino Rosselli. Un mese più tardi, poco dopo il suo sessantasettesimo compleanno, Mazzini morì. Quando fu sepolto a Genova, le navi all’ancora al porto ammainarono le bandiere. La storia di Mazzini, il suo patriottismo, il suo odio per la xenofobia e l’imperialismo, la sua onestà e la sua limpidezza morale furono cruciali per la visione del mondo e di se stessi dei Nathan. Erano valori in cui Amelia e la sua famiglia, il cui attaccamento agli eroi del Risorgimento non era meno forte di quello dei Nathan, si riconoscevano profondamente.

    Nel 1891 Amelia Pincherle e Joe Rosselli si fidanzarono. Quando lui era in viaggio a Firenze o a Livorno si scambiavano ogni giorno lettere che in seguito avrebbero raccolto in un album con decorazioni floreali. Il loro tono evoca la prima fase del corteggiamento: urgente, amoroso, con slanci sensuali, e a volte contrito quello di lui, rassicurante e quasi materno quello di lei. Joe la chiamava «Miliettina cara», lei «Mio adorato Joe», e occasionalmente «Joino». «Ci ameremo sempre come ora», scrisse Amelia verso la fine di aprile. «E, come ora, proverò il bisogno di baciarti e di sentire le tue care labbra contro le mie». E tre giorni dopo: «Sono colma di una felicità quasi sovrumana. Sento dentro di me un grande fuoco e mi chiedo: chissà se anche Joe si sente così? […] Il mio cuore, la mia anima, tutto in me è assorbito da te. Sono tua nel modo più completo del mondo».

    Non è chiaro se anche i sentimenti di Joe fossero così forti¹². Le scrisse del suo nuovo pianoforte e di come, dopo sposati, lei si sarebbe seduta sulle sue ginocchia mentre lavorava e si sarebbero baciati non una, non due, ma centinaia di volte; le parlò delle sue difficoltà a comporre musica, mettendola in guardia contro i suoi malumori, i suoi dubbi e le sue giornate di tristezza. Lei gli rispose che non le importava. «Vieni qui, mio povero piccolo ragazzo, vieni da me e ti coprirò di baci e ti abbraccerò stretto dicendoti cose dolci che cureranno la tua tristezza»¹³. Le lettere di Amelia potevano avere un tono risoluto: voleva essere presa sul serio. «Voglio che ti abitui all’idea di una donna capace di capirti, confortarti e starti vicino con serietà e serenità».

    Quando Joe le mandava fiori rari o fuori stagione, lei lo rimproverava per la sua stravaganza. Occasionalmente, in qualcuna delle loro tante lettere, sembravano avanzare timidamente l’ipotesi che forse non erano fatti l’uno per l’altra, che l’intero edificio del loro amore non aveva solide fondamenta e che la spensierata gaiezza di Joe non si confaceva alla forte volontà e alla lucidità morale di Amelia. Ma poi i dubbi svanivano e il tono ritornava a essere quello di due innamorati. Il 3 aprile 1892 Amelia e Joe si sposarono in una sinagoga di Roma. La notte precedente Joe le scrisse che quella era la sua ultima lettera «prima della felicità». Ad Amelia piaceva molto scrivere lettere. La luna di miele li portò a Napoli, Nizza, Montecarlo, in Spagna, Portogallo, Nordafrica, Francia e Inghilterra. Da ognuno di quei luoghi Amelia spedì lettere e cartoline in via Nazionale, dove Emilia disse che le tenevano compagnia. Amelia aveva una calligrafia chiara e fluida; Joe scarabocchiava i suoi messaggi sul margine della pagina. A Londra visitarono Madame Tussauds con i cugini di Joe, e Amelia rimase colpita dall’eleganza dei londinesi. A Bordeaux guardarono le navi salpare per gli Stati Uniti e le Indie orientali. Andarono alle corse a Siviglia e visitarono Fès e Tétouan. A volte c’era così tanto da raccontare che Amelia scriveva prima in un senso e poi nell’altro, e le lettere sembravano trame di arazzi. Emilia le scriveva con altrettanta frequenza. Il 15 maggio, quando arrivarono a Madrid, Joe e Amelia trovarono quattordici lettere che li aspettavano. La luna di miele durò quasi tre mesi.

    Vienna 1892

    Alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento Vienna era ormai da oltre cent’anni la capitale musicale del mondo occidentale¹⁴. Nonostante l’aspro divario tra wagneriani e brahmsiani, con i primi che adoravano e i secondi che disprezzavano le profondità emotive, a Vienna c’era sempre musica, dappertutto, nello splendido nuovo teatro d’opera, nelle sale da concerto, nelle case private e persino nei parchi. Quando Joe propose alla moglie di stabilirsi a Vienna, dove avrebbe potuto proseguire la propria carriera musicale, lei ne fu contenta. Per Amelia la capitale austriaca significava teatro – per il quale nutriva un crescente interesse –, arte, cultura e una fuga dalla formalità della vita domestica italiana.

    Arrivarono a Vienna nell’agosto del 1892 e si installarono in un appartamento al numero 3 di Amalienstrasse. Joe si iscrisse al conservatorio per prendere lezioni dall’insegnante di Mahler, Robert Fuchs. Vienna era una città piacevole, circondata da prati, vigneti e boschi di faggi resi famosi dai walzer di Johann Strauss, con il fiume Wien che serpeggiava attraverso la pianura verso l’Ungheria. L’imperatore Francesco Giuseppe viveva in olimpico isolamento dal suo popolo, lamentando che Il ratto del serraglio di Mozart aveva troppe note e presiedendo la sua corte di settantacinque arciduchi e arciduchesse. La principessa Sissi, che si sottoponeva a estenuanti diete a base di brodi di carne di cervo e uova sbattute con il porto, trascorreva la maggior parte del suo tempo viaggiando all’estero e non era molto popolare. Ma una nuova costituzione aveva concesso i diritti civili ai sudditi dell’imperatore e la prosperità economica aveva favorito una fioritura senza precedenti non solo della musica, ma di tutte le arti e le scienze.

    Guidati da Klimt, Carl Moll e Otto Wagner, i futuri giovani artisti secessionisti si stavano avviando a sostituire i mobili intarsiati, le tovaglie con le frange, i tendaggi scuri e pesanti, il bric-à-brac e le piume di struzzo con un look più essenziale e austero. I pittori impressionisti stavano cominciando a esporre le loro opere, lo stile greve e declamatorio del teatro stava evolvendo verso forme più brillanti e leggere; le corse dei cavalli non erano mai state così popolari e ogni anno, prima della Quaresima, in una sola notte a Vienna si tenevano cinquanta balli diversi.

    I caffè e le pasticcerie svolgevano un ruolo primario nella vita intellettuale della città¹⁵. Aperti tutto il giorno e gran parte della notte, offrivano cibo, birra, giornali e tavoli da biliardo. Ce n’erano per tutti i gusti: i giocatori di scacchi si davano convegno al Café Central; il Café Griensteidl era il luogo di ritrovo dei musicisti e degli scrittori. Molti di questi locali erano arredati come salotti dorati, con dipinti a olio, tappeti, soffitti con gli stucchi, candelieri e pavimenti di marmo, malachite e alabastro. I migliori erano agli angoli delle strade, con finestre a bovindo su entrambi i lati, per permettere alla gente di vedere ed essere vista. Per il socievole Joe, al quale piaceva parlare, quei caffè erano molto allettanti. Ad Amelia avevano invece poco da offrire. Le donne non erano benaccette e preferivano ritrovarsi da Demel, il pasticcere imperiale, dove bevevano cioccolata calda e mangiavano torte alla crema. Amelia andava spesso a teatro, che si trattasse di commedie leggere o in versi oppure delle pièce di Schnitzler sulla malinconica gioventù austriaca. Amelia era portata per le lingue, e da quando l’impero austroungarico si era allargato in Europa, Vienna era diventata multilingue. Joe teneva meticolosamente i conti domestici, registrando i costi della legna, i biglietti dei concerti, le cravatte, le lenzuola, i giornali e le mance ai portieri. Annotava anche le sue vincite ai tavoli da gioco e i debiti, che crescevano costantemente.

    Ma dietro tutta l’esuberanza e la magnificenza c’era un vago senso del crollo incombente¹⁶. L’antisemitismo dilagava, alimentato dal gôut juif – la modernità che molti aborrivano – e dalla Haute Juiverie, l’élite dei banchieri e degli industriali ebrei.

    Ma a Vienna stava succedendo anche qualcos’altro che destò l’attenzione di Amelia¹⁷. Indesiderate nei caffè, bandite dalle facoltà di medicina e filosofia, le donne austriache si dedicavano alla politica. Adelheid Popp, la prima donna portavoce del partito dei lavoratori socialdemocratici, lottava per i diritti di molte donne sottopagate nell’industria. In tutta Vienna stavano nascendo nuovi movimenti femministi. Questi temi trovarono un’eco in Casa di bambola, la commedia di Ibsen su una donna che lascia il marito e i figli. L’idea che le donne vivessero in un mondo costruito e governato dagli uomini affascinava Amelia, come gli scritti di Freud sull’inconscio, che aveva scoperto di recente. Cominciò così a scrivere un testo teatrale, lavorando speditamente, come se, dichiarò in seguito, le parole le fossero dettate dall’istinto, vedendo le scene apparirle davanti agli occhi, udendo le voci e le conversazioni dei personaggi nella sua testa. Amelia scrisse la pièce in soli tre mesi.

    Anima era un’opera molto audace persino nell’iconoclastica e sperimentale Vienna. L’eroina di Amelia, Olga, è un’artista, una donna di buona famiglia, libera e indipendente, che dipinge nudi e riceve gentiluomini nel suo atelier. Un giorno Olga si innamora del rispettabile e convenzionale Silvio. Poco prima del matrimonio lei gli confida che a quindici anni è stata violentata. Silvio rompe allora il fidanzamento e sposa una donna illibata e insulsa con la quale non ha nulla in comune. Olga trova la felicità con un altro uomo e Silvio si suicida. Il testo è una denuncia della trivialità degli uomini, che non sanno distinguere tra «verginità del corpo» e «verginità della mente», e la cui unica preoccupazione è la castità delle donne. Amelia non ebbe il tempo di mettere in scena la sua pièce. Il 21 luglio 1895 diede alla luce il primo figlio, Aldo, soprannominato in famiglia Topinino. Ma a differenza della sua eroina Olga, Amelia non era affatto felice. Joe era sempre più assente. Il suo modesto talento non era fiorito nell’esuberante Vienna ed era distratto da molte altre cose. Nell’estate del 1896, quattro anni dopo essersene andati, ritornarono a Roma, dove si trasferirono in un appartamento nel palazzo Marignoli, vicino a piazza San Silvestro.

    Roma 1896

    Durante l’assenza di Amelia e Joe, il governo della nuova Italia unita non aveva avuto vita facile¹⁸. Il debito pubblico continuava a salire, le tangenti e la corruzione dilagavano. Francesco Crispi, l’ex garibaldino che nel corso dell’ultimo decennio aveva ricoperto a intermittenza la carica di primo ministro, presiedeva un parlamento in cui i voti venivano scambiati con favori. Il termine trasformismo fu coniato in quegli anni per indicare una maggioranza parlamentare che si reggeva su alleanze incompatibili. L’unificazione era avvenuta troppo in fretta: in due anni sette stati si erano fusi in uno e non c’era stato il tempo per gettare le basi di una democrazia moderna.

    Come se non bastasse, Crispi vagheggiava conquiste militari e nuove colonie. Dopo l’umiliante sconfitta subita nella battaglia di Dogali, nel 1887, Crispi inviò altre truppe in Etiopia per rovesciare l’imperatore Menelik. Poco prima che Amelia, Joe e Aldo rientrassero a Roma, l’esercito italiano fu sconfitto di nuovo nella battaglia di Adua, in cui persero la vita seimila soldati e molti altri furono presi prigionieri. Con il trattato di Addis Abeba, l’Italia dovette riconoscere l’indipendenza dell’Etiopia. Soltanto l’Eritrea e le province settentrionali della Somalia, conquistate in un raid punitivo contro quelli che Crispi chiamava i «barbari», rimasero italiane. Crispi, ormai settantenne, fu costretto a dimettersi. Come primo ministro era stato litigioso e imbarazzante, e si era inimicato molti elettori dichiarando che agli italiani era stata iniettata «la morfina della codardia».

    Gabriele Pincherle era diventato professore di giurisprudenza e stava riformando la costituzione, mentre il secondo fratello di Amelia, Carlo, lavorava come architetto e ingegnere. Un ruolo di primo piano era svolto dallo zio acquisito Ernesto Nathan, l’uomo che Mazzini aveva inviato a Roma per dirigere il suo giornale e che recentemente era diventato grande maestro della loggia massonica di Roma. Ernesto, che dopo l’infanzia trascorsa a Londra parlava ancora l’italiano con un forte accento inglese, aveva una moglie austera e intransigente, Virginia Mieli, anche lei ardente repubblicana, e nei circoli romani erano considerati la perfetta coppia mazziniana.

    Joe frequentava ora il mondo musicale romano, dove Verdi, il maestro della rivoluzione italiana, aveva rimpiazzato Donizetti come musicista più popolare. Amelia tornò a dedicarsi alla sua pièce. Pur essendo consapevole che lo sprezzo delle convenzioni sociali che permeava la sua storia di violenza sessuale non si confaceva alla mentalità bigotta degli italiani dell’epoca, partecipò, senza nutrire molte aspettative, a un concorso indetto da un teatro nazionale di Torino. Altri scrittori, come per esempio Verga, avevano affrontato questi temi, ma Amelia fu la prima donna a farlo. Anima fu una delle tre commedie finaliste del concorso indetto dal prestigioso Teatro dell’Arte, dove il 29 ottobre 1898 fu votata all’unanimità come la migliore. Amelia versò 500 delle 2000 lire del premio all’associazione dei commediografi italiani.

    Anima fu rappresentata anche in altre città e Amelia fu presto considerata la «più importante commediografa italiana». Molti anni più tardi, ripercorrendo quel periodo nelle sue memorie, scriverà: «Forse il giorno in cui fui riconosciuta per la prima volta come una commediografa fu anche quello che – a mia insaputa – segnò la fine della mia felicità di donna».

    Amelia iniziò quindi a scrivere una novella, Felicità perduta, un’altra desolata storia di conflitti tra i due sessi, passione e amore, lavoro e vita domestica. Per lei la felicità poteva fondarsi soltanto sull’eguaglianza e la sincerità. Quando Luisa, la giovane protagonista della novella, chiede al marito Giulio, che ha ammesso con riluttanza di avere una relazione, cosa succederebbe se una donna decidesse di ispirare al marito passione anziché amore coniugale, Giulio risponde: «Se una moglie si comportasse così […] non sarebbe né una donna onesta né una compagna desiderabile». Per Luisa, divorata dalla gelosia, il matrimonio è finito.

    Il secondo figlio di Amelia e Joe, Carlo, nacque il 16 novembre 1899; Sabatino, il terzo maschio, noto anche come Nello, arrivò un anno più tardi, il 29 novembre 1900. Poco dopo la nascita di Nello il padre di Joe morì, lasciandogli una consistente fortuna. Ma Joe, sempre avventato, l’affidò tutta a un avvocato privo di scrupoli che fece investimenti sbagliati. Nel giro di due anni il denaro svanì e Joe, che continuava a giocare d’azzardo e a perdere, fu costretto a vendere tutto per pagare i debiti.

    Amelia rimase sconvolta dalle avversità economiche. Ma fu ancora più scossa quando scoprì che Joe aveva una relazione con una cantante d’opera incontrata al casinò di Montecarlo. Il codice morale sul quale aveva fondato il suo matrimonio era stato infranto e, come Luisa in Felicità perduta, non perdonò il marito. Joe aveva scavato un «abisso» tra di loro con «le sue stesse mani» e non si poteva tornare indietro. Non aveva tuttavia smesso di amarlo, al contrario lo amava «più di ogni altra cosa al mondo». Ma dovevano lasciarsi.

    Capitolo 2

    Donne emancipate

    I fiorentini amavano la loro città¹. Amavano il modo in cui ogni strada e ogni casa evocavano l’armonia passata. Per loro, la magia di Firenze non era dovuta alla grandezza dei suoi artisti ma al fatto che, nel XIII e XIV secolo, era stata una città di banchieri e mercanti, uomini modesti e parsimoniosi che avevano investito le loro fortune nell’arte e costruito palazzi pieni di affreschi e libri, circondandoli di cipressi. Gli artisti fiorentini chiamavano i loro atelier botteghe e si consideravano degli artigiani. Era a Firenze che era stata inventata la prospettiva, insieme agli orologi che scoccavano le ore e all’arte in cui la ragione dominava la fantasia. I cittadini erano fieri della loro fiorentinità², i cui tratti salienti erano l’indiscrezione, l’irriverenza, un pungente sarcasmo e un innato anticonformismo. Oltre a una costante consapevolezza dello scorrere del tempo, che in alcune dimore era esemplificata da una piccola porta, delle dimensioni di una bara, denominata la porta della morte.

    È a Firenze che prende le mosse la storia di Amelia Rosselli e dei suoi tre figli.

    Amelia vi arrivò nel 1903, dopo avere deciso di lasciare Joe e, come scrisse lei stessa, «cominciare la mia vita di donna sola»³. Pur riconoscendo che Joe era un uomo dotato di un’intelligenza straordinaria e di un grande fascino, Amelia pensava che la sua mente fosse troppo eclettica e la sua volontà troppo debole. Non era comunque una donna sola. Con lei c’erano Aldo, che aveva ora otto anni, Carlo di quattro e Nello di tre, ai quali spiegò che il padre era rimasto a Roma per seguire i suoi affari e che li avrebbe presto raggiunti. Amelia era stata costretta a lasciare a Roma Emily, la tata inglese che i figli adoravano e che viveva con loro dalla nascita di Aldo. Nelle reazioni dei figli alla perdita di Emily colse i tratti dei loro diversi caratteri: Aldo non disse nulla e si chiuse in se stesso; Carlo andò su tutte le furie; Nello sembrava confuso e infelice.

    Tra tutte le città d’Italia, Firenze era la scelta più sensata per Amelia. Lo zio di Joe, Pellegrino, un alto magistrato dalla fluente barba bianca, viveva nel capoluogo toscano, e Amelia era molto legata alla sua esuberante moglie Gianetta, che era anche una buona pianista. Gianetta piangeva la morte di Mazzini e dei suoi eroici compagni e deprecava la banalità dei suoi contemporanei, «gente di poco conto […] non degna di essere frequentata». Sosteneva che dopo la scomparsa dei grandi uomini del Risorgimento l’Italia era diventata un Paese più insulso e più piatto, e Firenze una città meno romantica: negli ultimi quindici anni, uno dei più famosi centri storici del mondo era stato smantellato – 26 antiche strade e 40 piazze erano scomparse – nel nome della modernità e dell’igiene. Amelia prese un appartamento in via Cherubini, non lontano dal duomo e dalla stazione centrale. Era in un’imponente e buia villa del XVIII secolo, e nelle grigie e piovose giornate degli inverni fiorentini l’umidità infiltrava le pareti. Amelia però era a corto di soldi.

    C’era un’altra ottima ragione per scegliere Firenze. Il successo di Anima le aveva valso una considerevole fama nei circoli letterari, e Firenze era il cuore culturale d’Italia. Lì poteva guadagnarsi da vivere scrivendo altre pièce e racconti, e avrebbe trovato nuovi amici. Consapevole che il suo status di donna single non era visto di buon occhio dalla Chiesa cattolica, e soffrendo di quello che definì un «esaurimento nervoso», fece un bilancio della propria vita e si impegnò a crescere i figli nel rispetto dei doveri, educandoli alla generosità. Le difficili condizioni economiche in cui si trovavano avrebbero insegnato loro che le vere ricchezze della vita sono quelle dello spirito.

    Topinino, il soprannome di Aldo da piccolo, fu il primo dei suoi libri per l’infanzia, che lesse a voce alta al figlio, capitolo dopo capitolo, prima di dormire. Il racconto ci svela chiaramente il suo stato d’animo. Topinino è un bimbo che ha un gatto grigio, Baffino, e un grande cane bianco, Nadir. La madre – raffigurata nel libro come una donna snella, elegante, con la vita stretta e i lunghi abiti di moda all’epoca – lo porta a comprare un vestito alla marinara. Lui lo indossa subito e si pavoneggia in strada, lamentandosi perché nessuno lo ammira. «Che cosa hai fatto per meritarti l’ammirazione degli altri?», gli chiede la madre. Con l’aiuto di una famiglia di mosche, Topinino si imbarca in una serie di avventure – che lo vedranno alle prese con transatlantici, nuovi sistemi telegrafici e altri strumenti educativi –, contravvenendo ai divieti della madre. Il messaggio di ogni capitolo è chiaro: i bambini devono essere ubbidienti, pensare agli altri, non rubare e aiutare sempre «i deboli e gli oppressi». «Che senso ha chiedere scusa quando è troppo tardi?», osserva il narratore. Amelia dedicò il libro ai suoi «piccoli uccellini».

    Di tanto in tanto Joe andava a Firenze a trovare i figli. Le sue visite erano affettuose, ma brevi e imbarazzate, e lo facevano sentire «inadeguato». In sua assenza – per i tre ragazzi scrivere lettere era diventata una parte naturale della vita –, Aldo lo teneva informato. «Charley e Nino sono molto cresciuti», scrisse al padre, «e Charley è diventato grasso»⁴. I fratelli più piccoli aggiungevano i loro nomi in stampatello. Quando c’era Joe, Amelia si inventava sempre delle scuse per assentarsi. Parlava di lui con i figli sempre con grande rispetto e aveva deciso di non spiegare loro i veri motivi della separazione finché non fossero più grandi.

    Ma c’era anche un’altra Firenze, in cui Amelia per il momento svolgeva un ruolo marginale. Fin dall’inizio del XIX secolo la città era stata, come avevano osservato i fratelli Goncourt, «une ville toute anglaise». Con i suoi tremila residenti inglesi – scrittori, diplomatici, insegnanti e istitutrici in pensione che la cronista Lady Walburga Paget aveva definito «una galassia di spiriti concentrati in un piccolo pezzo di terra» –, era anche una sosta obbligata per chi veniva ad ammirare l’arte e a gustare i piaceri della vita. Oltre a Browning e Henry James, tra i suoi visitatori più illustri c’era stato anche Edward Lear, che la paragonò a un misto di «plum pudding, melassa, torta nuziale, zucchero, zucchero d’orzo, canditi, uvetta e caramelle alla menta»⁵. In via Tornabuoni si potevano trovare marmellate all’arancia, biscotti digestive e torte di semi⁶. C’erano una farmacia inglese, Roberts & Co., un medico americano, il dottor Lewis Jones, una scuola maschile angloamericana, una libreria e una biblioteca inglese, oltre alle suore infermiere inglesi

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