Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Italia. La fabbrica degli scandali
Italia. La fabbrica degli scandali
Italia. La fabbrica degli scandali
E-book650 pagine8 ore

Italia. La fabbrica degli scandali

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Fate leggere questo libro alle nuove generazioni affinché siano migliori della nostra

Un libro scioccante e avvincente sul lato oscuro del Belpaese

La storia italiana non coincide necessariamente con quella del malaffare, ma forse può essere raccontata – più che in altri Paesi – attraverso intrighi politici, mediatici e istituzionali che di solito vengono sintetizzati da una sola parola: scandalo, appunto.
Spesso, però, il turbamento della coscienza collettiva cede il posto all’assuefazione, favorita anche dal controllo dei mezzi di informazione.
Un potere costituito che scende a patti con l’illegalità ha caratterizzato fin dall’inizio il Regno d’Italia, ma certo non ne sono stati immuni né la Repubblica, né alcuni ambienti ecclesiastici, tanto che la fabbrica degli scandali continua anche oggi a lavorare a pieno regime. Alla sonnolenza del periodo di incubazione degli scandali, sono spesso seguiti bruschi risvegli, vampate di rabbia, scossoni istituzionali, ma non si è ancora riusciti a debellare quello che erroneamente viene definito un tratto distintivo dell’italianità, ed è invece una pratica consolidata di circoli tutto sommato ristretti ma molto influenti. E intanto gli ingranaggi del malcostume e della corruzione seguitano a girare incessantemente…

Una sconcertante controstoria dell'Italia, dall'unità a oggi, attraverso gli affari più torbidi della classe politica e imprenditoriale

Tra i temi trattati nel libro:

• La macchina degli scandali
(P2 e mafia, corruzione su larga scala)
• Il profumo dei soldi
(Il precedente della Banca Romana – I miracoli di Sindona)
• Sotto il segno della politica
(Rigore da operetta – Le scelte della realpolitik)
• Servizi, quando la deviazione è la regola
(Dalle schedature al «tintinnar di sciabole» – Malavita e apparati di sicurezza)
• Petrolio non olet
(Un prezziario per le leggi)
• Immobili, opere pubbliche e altri disastri
(I “sacchi” di Roma – Alluvioni, terremoti e il business della ricostruzione)
• Gli anni del fango
(La corruzione sistematica)
Antonella Beccaria
Giornalista e scrittrice, collabora con testate nazionali e varie trasmissioni televisive, e fa parte di IRPI (Investigative Reporting Project Italy). Nel 2013 per Newton Compton è uscito il suo libro I segreti della massoneria in Italia.Gigi Marcucci
È stato giornalista dell’«Unità», lavorando come cronista giudiziario e caporedattore della redazione dell’Emilia Romagna. Si è occupato, tra l’altro, delle indagini sulla strage dell’Italicus e su quella alla stazione del 2 agosto 1980.
LinguaItaliano
Data di uscita29 set 2014
ISBN9788854170445
Italia. La fabbrica degli scandali

Leggi altro di Antonella Beccaria

Correlato a Italia. La fabbrica degli scandali

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Storia europea per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Italia. La fabbrica degli scandali

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Italia. La fabbrica degli scandali - Antonella Beccaria

    e-saggistica.jpg

    256

    Published by arrangement with

    Agenzia Letteraria Martin Eden

    Prima edizione ebook: settembre 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-7044-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Il Paragrafo, www.paragrafo.it

    Antonella Beccaria – Gigi Marcucci

    Italia

    La fabbrica degli scandali

    Un libro scioccante e avvincente

    sul lato oscuro del Belpaese

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    Nota degli autori

    I fatti ricostruiti in questo libro sono descritti negli atti giudiziari, nelle fonti d’archivio e nei volumi richiamati nel testo. Alcuni di essi potrebbero non essere stati definitivamente accertati in sentenze passate in giudicato, sicché con riferimento ai protagonisti, in linea generale, prevale la presunzione di non colpevolezza e, ove neppure ripresi in provvedimenti definitivi, di totale estraneità. Ciò non toglie che, essendo quei fatti riconducibili alle fonti citate, è legittima la facoltà di citarli, quanto meno sul piano della ricostruzione storica, il cui accertamento è sempre soggetto a progressivi e spesso imprevedibili aggiustamenti e revisioni. Allo stesso modo, le valutazioni, argomentate e basate su circostanze ritenute accertate o logicamente verosimili, rimangono valide anch’esse sul piano storico e soggette, a loro volta, a revisione, al mutare dei fatti di riferimento.

    Il mondo è quel disastro che vedete non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare.

    Albert Einstein

    C’era un Paese che si reggeva sull’illecito.

    Italo Calvino, Apologo sull’onestà nel Paese dei corrotti

    Si può restituire ai cittadini con l’iniquità sistematica, con l’illegalità fatta regola, la fede nella giustizia e nelle leggi?

    No, mille volte no: perciò la mafia del governo ha rigenerato la mafia dei cittadini.

    Napoleone Colajanni, Nel regno della mafia.

    La Sicilia dai Borboni ai Sabaudi

    Scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché a offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi.

    Gridate forte che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove.

    E quando gliele mostrate:

    «Ah – dice – ma non sono in triplice copia».

    Ennio Flaiano

    Ringraziamenti

    Per cominciare, grazie a Olimpia Ellero, editor di Newton Compton, e a Roberto Mariotti dell’agenzia letteraria Martin Eden. E grazie a Stefano e Massimiliano Simoncini, per i suggerimenti legati soprattutto alla parte sugli abusi edilizi. A Roberto Scardova, compagno di lavoro su altri fronti e dispensatore di suggerimenti, ad Agostino Cordova per le sue idee su giustizia e legalità. Scrivere un libro del genere sarebbe stato impossibile senza il lavoro fatto nel corso di decenni da giornalisti, parlamentari, semplici cittadini che casi efferati hanno inopinatamente reso vittime o parenti di vittime: solo per nominarli tutti non basterebbero altri due capitoli. Parafrasando Brecht, potremmo considerarci più fortunati vivendo in un Paese che non ha bisogno di eroi civili come Mario Amato, Giorgio Ambrosoli, Giuseppe Impastato, Pio La Torre, Paolo Borsellino, Giovanni Falcone (per citarne solo pochissimi). Sia permesso aggiungere che senza il coraggio loro e di chi continua sulla loro strada, l’Italia sarebbe un Paese molto più sfortunato. Grazie anche a magistrati e uomini delle forze dell’ordine che negli anni, a titolo di amicizia, hanno segnalato casi e letture, e suggerito chiavi interpretative. Infine – ma non per importanza – grazie alle nostre famiglie per il costante e insostituibile supporto.

    Introduzione

    La macchina degli scandali

    Francesco Crispi, ex garibaldino e uomo di governo, poteva permettersi uno stile autoritario ma rilassato, quasi confidenziale, per nulla imperioso. Un po’ come quei comandanti militari capaci di farsi ubbidire senza mai alzare il livello dei decibel. Così, il 12 ottobre 1890 scrisse a Bernardo Tanlongo, direttore della Banca Romana: «Il commendatore Tanlongo riceverà l’onorevole Piero Chiara e vorrà essergli gentile come altra volta». Gentile, come poteva esserlo un direttore di banca: concedendo cambiali e sussidi. Questo aveva raccontato Tanlongo, in carcere per un gran numero di malversazioni. Un episodio ormai consegnato alla storia, ma sin troppo simile a uno molto più recente e ancora suscettibile di accertamenti o smentite. Una conversazione di tenore quasi identico, registrata secondo «Il Fatto Quotidiano» nel 2009, sarebbe avvenuta tra un uomo di governo e un dirigente di banca. Vero o falso? Sicuramente verosimile, visti i precedenti. «Ti ho telefonato per un’opera buona, ti chiedo scusa, è la prima volta che ti chiedo una cosa… Dovresti ricevere il nostro senatore che già conosce e parla bene di voi». Avere una banca, per favorire amici e clientes, rafforzare il proprio potere politico, tirare a lucido il proprio prestigio personale. Muovendo uomini o soldi o entrambi.

    Centoventi anni di storia non sembrano aver cambiato molto. Permangono l’interesse della politica per la finanza, i legami trasversali, le raccomandazioni, la refrattarietà a controlli istituzionali troppo penetranti. Che siano al governo o all’opposizione, gli uomini di partito bramano il controllo di un istituto di credito o, quanto meno, incontri e relazioni ravvicinate con chi lo dirige. «Abbiamo una banca» è un grido di battaglia strillato anche dai più onesti. Non sempre questa tendenza dà luogo a episodi penalmente rilevanti, ma sicuramente è l’indice di una necessità, prima ancora che di un costume. Una politica finanziariamente gracile deve in qualche modo appoggiarsi al potere dei soldi, intrattenere con esso rapporti di scambio, qualche volta al limite della legittimità. Se esistesse una fabbrica degli scandali, questo sarebbe il suo motore principale. Motore che, secondo uno scrittore sensibile e profondo come Ermanno Rea, ha qualcosa che lo assimila a un’altra macchina, quella dell’obbedienza, nata col concilio di Trento e la Controriforma, nel 1545, quando fu ribadito «il vecchio sistema delle pratiche e degli scambi»¹ delle indulgenze in cambio di confessioni o elemosine.

    L’evasione fiscale annualmente stimata è di circa 180 miliardi di euro, l’equivalente di almeno una ventina di finanziarie. I danni prodotti dalla corruzione si aggirano intorno alla cifra record di 120 miliardi. La corruzione «può attecchire ovunque: nessun organismo e nessuna istituzione possono ritenersene indenni o al riparo»², ha affermato il procuratore della Corte dei conti, Salvatore Nottola, nel rendiconto dello Stato per il 2013. Il fenomeno, ha aggiunto, condiziona pesantemente «lo sviluppo dell’economia anche per l’effetto deterrente che ha sugli investimenti e in particolare su quelli delle imprese straniere». Una conferma arriva dal National Integrity System Assessment («Valutazione sull’integrità del sistema nazionale», in questo caso italiano) di Transparency International, un’organizzazione che si occupa di lotta alla corruzione su scala internazionale. Secondo stime italiane, riferisce TI, la corruzione costa 60 miliardi di euro l’anno, ma di questi ne vengono recuperati solo 293 milioni. Un’azione col contagocce dovuta anche al fatto che tra il 2005 e il 2010 un caso su dieci è andato in prescrizione prima di arrivare a sentenza. L’Italia, aggiunge Transparency, non ha un’autorità indipendente anticorruzione. Salvo poi crearne una in fretta e furia nel momento in cui esplode uno scandalo: vedi il caso Expo. Corruzione, evasione, poteri criminali diffusi. Sono i tre poli del malessere nazionale, argomenti non sempre – salvo emergenze – al centro dall’ansia riformista dichiarata con foga da schieramenti bipartisan.

    «I politici di destra promettono: non metteremo le mani nelle tasche degli italiani. Tradiscono sin dal modo di esprimersi la propria concezione del fisco come furto», scrive Rea. Il fisco è invece quel meccanismo che permette a una società di rimanere tale, facendo funzionare scuole, acquedotti, ospedali, case di riposo. Per Rea è una concezione tipica da Paese della Controriforma, qualcosa che contempla «l’opera di deresponsabilizzazione portata avanti dalla Chiesa di Roma, da sempre allevatrice di fedeli obbedienti, più che di cittadini consapevoli»³. Una diagnosi, certo non l’unica. Indro Montanelli ricordava in proposito la critica di Bettino Craxi, già lambito dal tornado di Tangentopoli, a un «certo machiavellismo», cioè alla teoria della doppia morale, «una per il principe, l’altra per i sudditi, una per lo Stato, l’altra per i cittadini, una per il partito, l’altra per il popolo […]. L’errore è in quel machiavellismo di comodo che ha preteso di costruire un diritto personale e privato per i potenti e uno diverso per le genti, uno per chi governa e uno per chi è governato: che ha ridotto l’opera del segretario fiorentino alla legittimazione del doppio gioco, del tradimento». Ben detto, osservava Montanelli,

    senonché della doppia morale Craxi era stato il grande sacerdote. Non che avesse cominciato lui. L’idea che rubare per il partito fosse non solo lecito ma addirittura doveroso era inchiavardata da decenni nella testa dei politici. Quando all’onesto Ezio Vanoni era stato rimproverato di percepire, per la presidenza di un certo ente pubblico, un’indennità molto alta, la giustificazione era stata pronta ed era apparsa ai più convincente. Le mie prebende sono sontuose, aveva chiarito Vanoni, ma non vanno a me perché la maggior parte viene devoluta al partito.

    Che il senso civico scarseggi, scrive il giornalista Stefano Livadiotti⁵, lo dimostrano le dichiarazioni dei redditi degli italiani, «i quali appaiono, nel loro insieme, come un esercito di straccioni, tutti con il SUV miracolosamente vinto alla lotteria del paesello: su 41.320.548 contribuenti (anno d’imposta 2011) solo lo 0,1 per cento, cioè uno ogni mille, denuncia più di 300mila euro». Strano, osserva l’autore, perché abbiamo l’1 per cento della popolazione mondiale, ma realizziamo il 3 per cento del prodotto lordo e deteniamo il 5,7 per cento della ricchezza dell’intero pianeta. Insomma, come si sarebbe detto una volta, l’illegalità ha una base di massa che affonda le radici tra obbedienza e deresponsabilizzazione, repressione e favori, mordacchia e concessioni.

    «Il no è un monosillabo con cui da sempre noi italiani abbiamo un rapporto difficile», scrive Rea, ricordando che solo una manciata di professori universitari su 1200 risposero negativamente alla richiesta di giurare fedeltà al fascismo. Non spetta a questo libro trovare le cause della lunga teoria di scandali italiani, ma risulta che i «no» pronunciati in Italia non siano stati molti, sicuramente sono stati di più i «sì». Spesso chi ha detto «no» si è trasformato, suo malgrado, in un eroe. Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca privata italiana, fu tra i pochissimi a resistere alle pressioni di Michele Sindona e della sua corte, fatta di politici e alti funzionari dello Stato, di mafiosi e piduisti. Anche – o forse soprattutto – per questa solitudine fu ucciso l’11 luglio 1979. Il sostituto procuratore Mario Amato, rimasto solo a indagare sull’eversione neofascista, fu freddato il 23 giugno 1980 con un colpo alla nuca mentre aspettava l’autobus per andare in ufficio. Ha detto il magistrato Gherardo Colombo: «Qui come in nessun altro Paese democratico sono stati uccisi tanti magistrati. Quando ad ammazzare è stata la criminalità organizzata, le vittime sono spesso rimaste isolate»⁶.

    Altro tasto dolente sono le tasse. Che siano strumento da maneggiare con cura lo ha dichiarato recentemente Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze nei governi di Romano Prodi e Massimo D’Alema: farle pagare a chi non le paga può costare 10 milioni di voti. Per questo tra i politici c’è sempre stata «grande prudenza». Infatti «alcuni fanno affidamento su quei voti, altri hanno solo paura di perdere l’appoggio di certe fasce sociali e la democrazia vive di consenso». Un’opinione espressa quando l’Agenzia delle entrate aveva appena diffuso i dati IRPEF 2012. La media di quanto dichiarato dai contribuenti era di 19.750 euro, ma la metà ne denunciava meno di 15mila e solo lo 0,07 per cento più di 300mila. «Per ridurre le tasse ed evitare che a pagarle siano sempre i lavoratori dipendenti c’è solo una via», spiegava Visco, «redistribuire il carico. Ma per farlo bisogna partire dalla lotta all’evasione»⁷. Tuttavia è proprio su questo aspetto che si scatenano reazioni popolari degne dei moti del pane di manzoniana memoria. Ridurre l’evasione? «I governi di centrosinistra ci hanno provato», racconta ancora Visco. «Nel 1996 mettemmo in piedi una serie di provvedimenti che portarono nelle casse quattro punti e mezzo di PIL. E Berlusconi scese in piazza con un milione di persone, indicandomi come un dittatore fiscale».

    Ancora una volta si ripropone la diagnosi di Rea, ma questa volta a formularla è Livadiotti:

    In un Paese dove i furbi vengono guardati con malcelata ammirazione, c’è una naturale propensione a evadere. Che è peculiarità dei Paesi cattolici, come sostiene con convinzione lo studioso britannico Richard Murphy, fondatore di Tax Justice Network e inserito da «International Tax Review» nell’elenco delle cinquanta persone più influenti del mondo in materia di fisco.

    Naturalmente qui non si intende revocare in dubbio la bontà di una grande religione, la sua capacità di rendere sensibili e attenti ai bisogni del prossimo, le potenzialità di elevazione morale o di riscatto di grandi masse di uomini: tutte cose che non possono essere messe in discussione dalle condotte di singoli o gruppi. D’altro canto, se si esaminano da vicino vicende come quella dello IOR-Ambrosiano, ci si accorge della profonda contaminazione tra finalità terrene e trascendenti. L’arcivescovo Paul Casimir Marcinkus, presidente dello IOR, era una figura chiave nella rete dei servizi segreti americani e Vaticano, giustificati in chiave anticomunista. Tra le figure più in vista, in questa fitta rete di relazioni, c’era il potente cardinale di New York Francis Spellman, gran protettore dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, attivo negli Stati Uniti dal 1927. Nell’immediato dopoguerra, Spellman lavorò a stretto contatto con l’arcivescovo Giovanni Battista Montini, all’epoca segretario di Stato in Vaticano, futuro papa Paolo VI. Come Spellman, anche James Jesus Angleton, che diventò poi capo del controspionaggio della CIA, era membro dei Cavalieri di Malta insieme ad Alexander Haig, segretario generale della NATO, al generale Vernon Walters e al leggendario capo dell’OSS (Office of Strategic Services, antesignano della stessa CIA) Bill Wild Donovan⁹. Esistono peraltro pentiti di mafia, come Vincenzo Calcara, che hanno narrato di figure vicine «agli interessi di Cosa Nostra» e importanti «per il reinvestimento dei proventi della famiglia […]. I reinvestimenti dei proventi della famiglia di Castelvetrano venivano fatti in qualche modo per il tramite delle banche vaticane grazie al ruolo svolto dal notaio [Salvatore] Albano. Questi è un uomo del Santo Sepolcro, vicino ad ambienti massonici»¹⁰.

    Ordini massonici o paramassonici, servizi segreti e gerarchie ecclesiastiche: una ricetta sulla carta impossibile, una zuppa indigeribile dove il demoniaco è disinvoltamente miscelato all’acqua santa e a centinaia di miliardi di dollari, nella stupefacente cornice del crac Ambrosiano. Secondo il giornalista investigativo Charles Raw¹¹, furono soprattutto i piduisti Licio Gelli e Umberto Ortolani a ricavare i maggiori benefici dalla bancarotta dell’istituto cattolico. «Mostrerò per la prima volta come questi signori siano riusciti a incassare una somma vicina ai duecentocinquanta milioni di dollari. Anche se Marcinkus probabilmente non ne era al corrente»¹².

    Il vescovo nato a Cicero, sobborgo di Chicago, fornì il meccanismo che rese possibile la truffa, grazie ad accordi segreti sottoscritti con Roberto Calvi. È un aspetto che verrà esaminato a fondo in uno dei capitoli successivi, ma vale la pena richiamarlo brevemente: fu Marcinkus a sottoscrivere le cosiddette "lettere di patronage" con cui di fatto lo IOR, in quanto società capogruppo, ammetteva che le controllate avevano ricevuto fidi da una banca, segnatamente dall’Ambrosiano, riconoscendo in sostanza il debito contratto dalle casse vaticane. Del resto, 88 istituti di credito che vantavano debiti formarono un comitato che, dopo molte pressioni, ottenne dalla banca d’Oltretevere 241 milioni di dollari a titolo di risarcimento. «Se fosse stato vittima innocente di Calvi, [il Vaticano] avrebbe preteso il rimborso delle perdite subite e si sarebbe accodato agli altri creditori»¹³.

    Il fatto che lo scandalo allignasse ai vertici finanziari di una delle più influenti autorità morali del nostro Paese, nonché la frequenza con cui si verificano condotte in grado di sollevare indignazione, inducono a interrogarsi sul significato della parola scandalo. L’accezione più vicina alla nostra cultura è quella indicata al punto 3 dal dizionario Gabrielli della Hoepli: «Azione disonesta che viene rivelata improvvisamente suscitando una reazione clamorosa presso l’opinione pubblica. Esempio: lo scandalo degli appalti coinvolge molti politici». È una descrizione piuttosto fedele di quanto accade quando sui giornali si legge di imprenditori edili che sorridono al pensiero dei guadagni che porteranno loro gli effetti devastanti di un terremoto, come verrà raccontato in seguito; o delle spartizioni tangentizie in occasione di grandi opere o esposizioni internazionali. Ma l’accezione del termine non è l’unica ed emerge da una stratificazione di significati che possono condizionarne la percezione. Basta dare un’occhiata al Tommaseo-Bellini, il più importante dizionario italiano dell’Ottocento, redatto tra il 1861 e il 1879, anni cruciali per la formazione della nostra cultura nazionale. In greco, scandalo significa «impedimento posto nella via per fare inciampare altrui. Gli scrittori ecclesiastici metaforicamente lo adoperano per incontro delle anime nelle occasioni del peccato: gli è l’uso più comune oramai». Tanto che il monumentale dizionario cita un proverbio: «La pietra al cauto è segno, all’incauto è scandalo». E ancora:

    Che è scandalo? dice San Girolamo; quella che i greci chiamano scandalo noi possiamo dire che in nostra lingua sia l’offensione, ovvero percotimento di piede, quando si pone nella via alcuna cosa per la quale si percuote e cade, e quella così fatta cosa è detta scandalo. Così interviene nella via spirituale, che alcuna cosa vi si pone alcuna volta, per far rovinare spiritualmente con parole, o con fatto altrui, in quanto alcuno per sua ammonizione o inducimento, ovvero con esemplo, trae l’altro a peccare.

    Da notare il linguaggio, ancora una volta in chiave religiosa: si parla infatti di peccare, non di commettere reato o, almeno, cosa disonesta, sgradita alla giustizia umana oltre che a quella divina. In un Paese in cui le statue della Madonna vengono fatte inchinare davanti alle abitazioni di boss mafiosi, non è inutile rileggere alcune pagine scritte da Isaia Sales, intellettuale e già dirigente del PCI napoletano:

    Non si conoscono mafiosi, camorristi e ’ndranghetisti atei o anticlericali. Sono cattolici osservanti i peggiori assassini che l’Italia abbia mai avuto nell’ultimo secolo e mezzo. Credono in Dio, nella Chiesa di Roma, vanno a messa, si comunicano, fanno battezzare i loro figli, fanno fare loro la comunione, si sposano con rito religioso (anche quando sono latitanti) […]. Nel frattempo sciolgono ragazzini nell’acido, scannano cristiani come pecore, opprimono con il racket migliaia di persone. E mentre scrivono in codice ordini di morte, si servono normalmente di espressioni di pietà cattolica quali «con l’aiuto di Dio» o «ringraziando Gesù Cristo» […]. Quando è stato catturato Bernardo Provenzano, dopo quarantatré anni di latitanza, tutta la nazione è stata colpita dalla sproporzione tra il suo profilo criminale di capo assoluto di una delle più efferate e ricche criminalità al mondo, il luogo misero della sua latitanza e le modalità spartane della sua vita. Ma un altro particolare è stato un po’ trascurato: il rifugio era abitato da un uomo religiosissimo, era pieno di immagini e statuette sacre, pieno di simboli della sua fede cattolica e di strumenti di preghiera […]. Qualche anno prima (nel 1999) a Gioia Tauro in Calabria, nel covo in cui Giuseppe Piromalli, uno dei capi storici della ’ndrangheta trascorreva la sua latitanza, si era presentata la stessa scena: santini, statuette e immagini sacre dappertutto […]. Stessa scena nel covo di Pietro Aglieri, figlioccio di Provenzano, detto ’o signurinu.¹⁴

    Il senso del peccato e quello civico seguono evidentemente percorsi diversi. Nella mente dei criminali, naturalmente, ma non solo. L’operazione trasparenza coraggiosamente condotta da papa Francesco, nato Jorge Mario Bergoglio, per la banca vaticana procede lungo percorsi non del tutto lineari. «Nello IOR sono stati chiusi 1600 conti di persone che non avevano diritto», aveva annunciato il pontefice nella conferenza stampa tenuta sull’aereo che da Tel Aviv lo riportava a Roma, il 29 giugno 2014. Ma i portavoce dell’istituto si sarebbero rifiutati di avvalorare le parole di Francesco. Osserva Marco Politi sul «Fatto Quotidiano»: «Visto che un cliente può avere più conti, lo IOR si rifiuta di comunicare con quanti clienti sono stati interrotti i rapporti»¹⁵. E ancora oggi, secondo la giornalista Maria Antonietta Calabrò del «Corriere della Sera», alcuni dei conti di transito utilizzati dall’Istituto per le opere di religione presso le banche italiane sono gli stessi dei tempi dello scandalo Calvi e del Banco Ambrosiano¹⁶.

    Naturalmente quanto accadde nelle stanze del torrione di Niccolò V non basta da solo a raccontare oltre cento anni di sottobosco politico, di pratiche clientelari e di malaffare. Fenomeno tanto esteso, scrive Sergio Turone, che «nella storia italiana, dalla nascita del Regno unitario a oggi, l’economia della corruzione ha rischiato in diversi momenti di superare i livelli di guardia, oltre i quali il fenomeno – come avvenne nel 1922 – minaccia la sopravvivenza stessa del sistema democratico». L’autore cita tra gli altri Giuseppe Maranini, che nel 1952 sosteneva: «Il parlamento controlla il governo, ma le direzioni di partito controllano il parlamento e, attraverso il parlamento, il governo; se poi direzione di partito e governo si identificano, il controllato diventa controllore, con evidente eversione di ogni schema di governo parlamentare»¹⁷.

    Per rendersi conto della facilità con cui in questo Paese si può imboccare una deriva autoritaria, lo storico Donald Sassoon non ha dovuto faticare molto. Gli basta ricordare che Benito Mussolini, al culmine della marcia su Roma, giunse nella capitale in vagone letto, la mattina del 30 ottobre 1922. Dieci anni dopo, Italo Balbo, uno dei più violenti tra i fedelissimi, affermò che il destino del fascismo era la conquista del potere attraverso un violento atto insurrezionale che avrebbe rappresentato un taglio netto tra vecchia e nuova Italia. Ma era accaduto che – mentre i più ingenui si inzuppavano d’acqua calando sulla capitale, i più avveduti si accomodavano su convogli speciali e il duce trascorreva una notte piacevole in un vagone letto – l’ascesa del potere avvenne «all’interno della legge». Benito Mussolini infatti giurò fedeltà alla costituzione e al re e presentò il suo programma al parlamento. La marcia rimase paccottiglia per nostalgici e nel 1944, ormai ridotto a un fantoccio nelle mani dei nazisti, persino Mussolini ammise che quella rivoluzione non c’era mai stata: «Sia prima che dopo c’era un re […]. La marcia su Roma fu poco più di una manifestazione mal organizzata che aveva lo scopo di esercitare pressione sui politici a Roma»¹⁸. Il duce si era reso conto che c’era parecchio da guadagnare rimanendo nei limiti della legalità, con sconfinamenti controllati dalla stessa, assicurandosi in qualche modo il placet dell’opinione pubblica liberale. Insomma, la democrazia non fu uccisa, ma scelse una forma lenta di suicidio. Come si era giunti, però, a questo punto?

    Innanzitutto, l’Italia non aveva né partiti forti né un monarca deciso; poi, l’unificazione italiana era stata «un affare complicato», non l’opera solitaria di uno Stato, ruolo che in teoria avrebbe potuto svolgere il Piemonte¹⁹. L’assenza di veri partiti della compagine assembleare costringeva i presidenti del Consiglio a estenuanti negoziazioni per conquistare maggioranze che li sostenessero. In effetti, considera ancora Sassoon:

    Il parlamento era dunque sostanzialmente un’arena, in cui i rappresentanti degli interessi terrieri e industriali si accapigliavano su ogni singola legge o misura finanziaria. Gli oppositori si trasformavano in sostenitori attraverso corruzione diretta o indiretta, da cui la definizione spregiativa del sistema come trasformismo. L’antiparlamentarismo diffuso era una conseguenza di questo stato di cose.²⁰

    Quello che ne seguì fu un sistema di clientelismo, con i politici che promettevano di procurare ai propri elettori e sostenitori impieghi, protezione e un flusso costante di denaro pubblico.

    La peculiarità dell’Italia, rispetto ad altri Paesi, era l’assenza di solide organizzazioni rappresentative dei cittadini. In Gran Bretagna il primo ministro era potente perché leader del massimo partito, in Italia invece solo perché poteva elargire favori, aggiunge Sassoon. Silvio Spaventa, esponente della destra storica, teorizzava che in un Paese normale ci dovrebbero essere solo due partiti rappresentati in parlamento: uno a favore della conservazione, l’altro a favore del cambiamento. Ma la cosa in Italia era impossibile:

    I diversi partiti, in cui la nostra Camera dei deputati pareva dividersi, non avevano in fondo un’origine diversa, ma nascevano da una classe sola, dalla borghesia, che è il ceto dominante della società nostra. È da sperare che con l’allargamento del voto, facendo partecipi del governo altri ceti che abbiano ideali e intenti diversi, si produca quella differenza di partiti, che oggi manca, corrispondente a quella dualità di tendenze da me accennata di sopra.²¹

    Spaventa ricordava a tutti che esisteva anche «un’altra classe che non ha altra merce se non il proprio lavoro, che cresce di giorno in giorno e che vuole migliorare le proprie condizioni di esistenza». Insomma, c’era un sistema che procedeva per cooptazione; ma cooptare individui o gruppi di individui era una cosa, cooptare una classe sociale attraverso favori e prebende era tutt’altro.

    Nel 1879 il progressista Filippo Abignente, parlando di una situazione politica che vedeva già al governo la sinistra storica, scriveva ai soci di un circolo elettorale napoletano:

    Nella Camera italiana, e quindi nel corpo elettorale di cui quella è emanazione, si sono infiltrati due vizi di cui è debito doloroso ma patriottico additare con linguaggio di severa schiettezza. Un tempo la parola consorteria serviva a indicare la prevalente tendenza a tutto concentrare in un partito: uffici politici e amministrativi, onori e favori. Oggi, quella parola non basta più e quella tendenza ha ingenerato abitudini ben più tristi e perniciose. Al partito consorteria tennero dietro le consorterie-gruppi, le clientele faziose, le bande di ventura parlamentari, e non si cerca più il monopolio dei benefici del governo; ma del governo si fa quasi una speculazione per conseguimento di utili diretti e indiretti.²²

    Per avere una cognizione chiara di cosa fosse la rappresentatività parlamentare in quel periodo, bisogna aggiungere alcuni dati riguardanti il suffragio elettorale: nel 1861, anno dell’unità d’Italia, soltanto 418mila persone avevano diritto di voto (l’1,9 per cento della popolazione adulta). Nel 1882 erano 2 milioni (il 6,9 per cento) coloro che presentavano sempre le caratteristiche per avere accesso al diritto di voto: il grado di istruzione e il censo. Fino a che, negli anni Settanta del XIX secolo, i deputati presero in considerazione la possibilità di rendere il conseguimento della quarta elementare il requisito minimo per poter votare: purtroppo solo il 14 per cento dei comuni post-unitari aveva scuole elementari che offrissero un quarto anno. Il suffragio maschile quasi universale (gli analfabeti potevano votare solo dopo aver raggiunto i trent’anni) fu introdotto nel 1912 e a quel punto l’elettorato arrivò a toccare la soglia 23,2 per cento della popolazione.

    Francesco Crispi fu senz’altro uno dei primi a scendere in campo contro il trasformismo, ma altrettanto sicuramente la sua non poteva essere voce autorevole: era stato implicato nello scandalo della Banca Romana che, come si vedrà, si basava proprio sullo scambio di favori. La prima risposta da lui data alla nuova classe che bussava alle porte della democrazia fu violenta, con la repressione del movimento dei fasci siciliani. Gli alti salari – osserva ancora Sassoon – erano uno dei mezzi attraverso cui le classi popolari potevano essere cooptate al capitalismo, ma allora (come oggi, verrebbe da dire) il basso costo del lavoro costituiva una delle leve della fragile economia italiana. Quindi il problema, anche per gli anni successivi, rimase quello di impedire ai ceti inferiori di accedere al governo. Senza che però ai piani alti della politica ci fosse un soggetto in grado di garantire la guida del Paese. Come scrisse Piero Gobetti in «La Rivoluzione liberale» (1924), il liberalismo italiano non era riuscito a produrre una vera e propria classe dirigente, né un’autentica coscienza liberale. I liberali, spiegò, non erano in grado di riformare il Paese perché erano solo al governo, mai pienamente al potere. La loro preoccupazione principale era di stare attaccati alla poltrona mediante trucchi e stratagemmi²³.

    Quando giunsero i fascisti, il vizio non andò perduto. Naturalmente è legittimo chiedersi se gli uomini di Mussolini – una volta conquistato il potere, seppure con una rivoluzione di cartapesta – fossero in grado di rendere più trasparente la macchina del potere, se fosse venuta meno la necessità di negoziare che aveva afflitto la classe dirigente liberale, se si stesse affermando un modello di amministrazione più coerente e pulita. Gli eventi smentirono queste possibilità. Basta ricordare il peccatuccio originale di Benito Mussolini che, nel giro di tre mesi, passò dall’opposizione alla guerra a una più flessibile forma di «neutralismo attivo»²⁴. Il 26 luglio, tre giorni prima che scoppiasse il primo conflitto mondiale, pubblicò sull’«Avanti!» un articolo dal titolo piuttosto chiaro: Abbasso la guerra. Passate dodici settimane, ne scrisse un altro: Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante. La tesi: «La realtà si muove e con ritmo accelerato. Abbiamo avuto il singolarissimo privilegio di vivere nell’ora più tragica della storia del mondo. Vogliamo essere – come uomini o come socialisti – gli spettatori inerti di questo dramma grandioso? O non vogliamo esserne, in qualche modo, i protagonisti?»

    Non ci volle molto perché il mistero della conversione mussoliniana fosse svelato. Se il 26 ottobre 1914 firmò l’ultimo articolo sull’«Avanti!», il 15 novembre successivo uscì il primo numero del «Popolo d’Italia» con un editoriale a firma sempre sua: Audacia. Si scoprì dunque che durante l’estate il futuro dittatore fascista aveva avuto alcuni incontri con Filippo Naldi, direttore del «Resto del Carlino», uomo di orientamento interventista. Ecco il colloquio decisivo così come ricostruito da Turone:

    Per convincere Mussolini della bontà dell’interventismo, a Naldi sarebbe stato sufficiente ricordargli che secondo Marx «a ogni guerra segue una rivoluzione sociale». Al che il futuro duce aveva obiettato che all’interno dell’«Avanti!» non gli sarebbe stato possibile far accettare una linea del genere. Fu a quel punto che Naldi gli propose di lasciare il giornale socialista per fondarne uno nuovo. A stretto giro, arrivarono 30mila lire (equivalenti a cinquanta milioni degli anni Novanta), seguite da altre provviste di denaro da parte della Francia, mentre non mancarono contributi di industriali italiani interessati alla produzione di armi. Nacque così il «Popolo d’Italia». Nel 1915 l’Associazione lombarda dei giornalisti assolse Mussolini dall’accusa di indegnità morale mossagli per la questione dei finanziamenti. Il verdetto fu però contestato molti anni dopo da Gaetano Salvemini, che riferì testimonianze piuttosto serie per documentare il passaggio di denaro. Quando uscì il primo numero del nuovo giornale, Mussolini non aveva ancora intenzione di dimettersi dal PSI: per espellerlo fu convocata in un teatro l’assemblea della sezione milanese del partito. Mussolini fu accolto al grido di traditore, ci fu persino un lancio di monetine. A distanza di decenni, «in tanto parlare che si fa – opportunamente – di questione morale, abbiamo quasi dimenticato che il fascismo nacque proprio da una questione morale».²⁵

    Un sistema che perdura

    Sembra dunque che la corruzione politica non offra scampo: è presente a ogni latitudine, in ogni epoca. Osserva lo storico Paul Ginsborg, analizzando i fenomeni corruttivi di diversi decenni più tardi:

    Nonostante molti fossero convinti del contrario, il diffuso sistema della corruzione politica non costituiva un fatto nuovo, né un semplice prodotto degli anni Ottanta. Le sue origini erano al contrario radicate nella classe politica italiana. Poiché i giudici non si muovono nell’ottica dello storico, le prove da essi accumulate si riferiscono solo al periodo più recente, ma nell’Italia repubblicana la storia della collusione tra politici, uomini d’affari e funzionari pubblici è in realtà molto più lunga e per la maggior parte inesplorata […]. La cronologia di questo processo non è affatto acquisita, ma qualsiasi distinzione semplicistica tra un passato di relativa onestà e i degenerati anni Ottanta va accolta con un certo scetticismo. Bisogna dire però che proprio questi anni furono testimoni di una nuova e organizzata rapacità da parte dei politici, di un sistema di spartizione che si estese sull’intera penisola.²⁶

    Ginsborg è convinto che in tutta Europa la seconda metà del decennio del riflusso e l’inizio degli anni Novanta abbiano visto un significativo incremento della corruzione politica, ma che solo nel nostro Paese sia registrato un raccordo tra vecchie e nuove pratiche di malaffare. E propone un modello per comprendere il «funzionamento» del sistema, il settore degli appalti a livello locale. I politici alla guida di amministrazioni regionali, provinciali, comunali – ovviamente al netto di inopportune ed erronee generalizzazioni – divennero progressivamente «politici d’affari», interessati a sfruttare sempre più la loro carica allo scopo di accumulare i capitali necessari a promuovere la propria carriera²⁷. Negli anni Ottanta, infatti, il numero dei posti politici si aggirava sulle 100mila unità, mentre era di 700mila quello dei dipendenti degli enti locali. Per la maggior parte si trattava di gente onesta, ma erano numerosi i politici pronti a sfruttare le proprie rendite di posizione. Il principale modus operandi di questi soggetti consisteva nella riscossione di tangenti dagli imprenditori locali. Il prezzo che gli imprenditori dovevano pagare per non essere esclusi dai «cerchi magici» degli appalti variava da città a città. A Milano oscillava dal 5 per cento del valore per i lavori legati al materiale rotabile dell’ATM, l’Azienda trasporti municipalizzata, al 13,5 per l’impiantistica superiore della metropolitana meneghina. A Roma, per pulire gli uffici della Regione Lazio, bisognava pagare il 10 per cento dell’importo aggiudicatosi. Se poi i politici riuscivano a dimostrare che «circostanze eccezionali» richiedevano la sospensione di ordinarie procedure di controllo, si muovevano con determinazione ancora maggiore, tanto che nel 1989, la Corte dei conti osservò:

    Non è un caso che negli ultimi anni alle politiche di settore […] si siano sostituite una molteplicità di emergenze, collegate talora a fatti imprevedibili (eventi sismici, calamità naturali) ma spesso a circostanze di altra natura dove l’emergenza non può certo dirsi sopravvenuta: basti pensare alle infrastrutture per l’Italia ’90, alle opere connesse alle celebrazioni colombiane del 1992, all’emergenza casa e all’emergenza parcheggi nelle grandi aree metropolitane.²⁸

    Sembra incredibile che, un quarto di secolo dopo, un problema analogo abbia in pratica fatto da detonatore al caso Expo. Resta il fatto che negli anni Ottanta il sistema delle tangenti era ormai così diffuso da essere considerato quasi normale dopo decenni in cui denaro illegale e politica avevano marciato sempre più in parallelo. Considera ancora Ginsborg:

    Si parlava di costo della politica. Come se si trattasse di una voce di bilancio paragonabile a quelle della pubblicità e del marketing. I politici si ritenevano invulnerabili. Eppure la posta in gioco era l’idea stessa di un’amministrazione onesta e imparziale, e la garanzia di una competizione equa e ragionevole per gli appalti degli enti locali. Se entrambe venivano a mancare, la democrazia locale in Italia si svuotava di contenuto reale.²⁹

    Va detto che i politici continuarono a ritenersi «invulnerabili» e ad attaccare la magistratura che cercava di indagare sulle irregolarità amministrative. Accadde per esempio nel giugno 1983, in Liguria, quando il presidente della Regione Alberto Teardo venne tratto in arresto per corruzione in relazione a una serie di appalti per lavori pubblici. Il segretario del PSI Bettino Craxi si scagliò contro i magistrati che stavano indagando: «Considero l’iniziativa una volgare strumentalizzazione: è in questo modo che si tocca il fondo nell’uso disinvolto dei poteri giudiziari. Sono indignato, perché non vedo una base di giustizia in iniziative di questo genere che rispondono a uno spirito di faida personale e politica»³⁰. Un attacco del genere non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo. Il problema, osservò molti anni dopo un ex giudice di Mani pulite, Gherardo Colombo, era di natura affatto diversa:

    Non esiste più la responsabilità politica, disciplinare o amministrativa. Tutto va a finire nel processo penale. L’idea che si ha è che tutto ciò che non è vietato dalla norma penale va bene. Ma la verifica penale dovrebbe essere l’extrema ratio, arrivare per ultima. E forse, aggiungo, non è la più indicata a risolvere le questioni, perché come effetto ha una sanzione, non l’identificazione di un rimedio che valga in casi analoghi per il futuro.³¹

    La domanda classica, in questi casi, è se esista una società civile in grado di riscattare i difetti di quella politica. Se esistano quelle forze sane in grado di condurre il Paese fuori dalle paludi in cui l’hanno infilato le degenerazioni dei partiti. Un tentativo di risposta arriva ancora una volta dall’analisi di Paul Ginsborg:

    Molti imprenditori, quando scoppiò Tangentopoli, cercarono di presentarsi come vittime innocenti dei politici, ma la realtà era molto più complessa e presentava forti elementi di reciprocità. Mario Chiesa [l’amministratore del Pio Albergo Trivulzio il cui arresto, seguito da confessione, diede il via alla stagione di Mani pulite, come si vedrà, n.d.a.] parlava di una simbiosi tra mondo politico e lobby economiche; il magistrato milanese Gherardo Colombo affermò che «in molte circostanze è il potere politico che sembra essere dipendente dal potere finanziario e non viceversa». Donatella Della Porta, la più importante tra gli studiosi italiani di questi fenomeni, ha identificato «un comune interesse ad alcuni affari», e un folto gruppo di imprese che prosperavano grazie ai loro rapporti privilegiati con esponenti politici locali e nazionali.³²

    Viene ricordato tra l’altro che, nel 1978, Guido Carli, allora a capo della Confindustria, tentò di introdurre uno Statuto per l’impresa, con l’obiettivo di aumentare la «trasparenza dei bilanci, degli assetti azionari, degli aiuti ricevuti in ogni forma dallo Stato». Erano proposte che furono unanimemente rifiutate dai suoi colleghi, nel giugno dello stesso anno,

    col risultato che le élites economiche attraversarono gli anni Ottanta senza un’etica di riferimento. Nei loro luoghi di incontro fiorivano reti di corruzione, che si sovrapponevano e si intrecciavano con le associazioni e le amicizie tradizionali. Il circolo del bridge e quello del golf, il Rotary, il Lions, gli studi di commercialisti e avvocati più o meno illustri, erano le sedi privilegiate per stringere accordi illeciti. Nelle grandi città del Sud, la criminalità organizzata locale era spesso una componente abituale e quasi naturale di tali reti.³³

    La tesi di Ginsborg è che sia esistita e che tuttora esista una continuità tra clientelismo, inteso come «impiego delle risorse pubbliche vantaggioso in termini privati», e corruzione³⁴. Si tratta di fenomeni non identici, ma collegati: «La pratica del clientelismo era terreno fertile per la corruzione».

    C’è una vasta aneddotica sui rapporti tra i due fenomeni:

    Un esempio eclatante del rapporto tra clientelismo e corruzione è costituito dalle vicende dell’ospedale Vittorio Emanuele di Catania. Nel 1963 Alfio Di Grazia, presidente dell’ospedale e senatore democristiano disperatamente bisognoso di rielezione, fece ricoverare in ospedale i suoi potenziali elettori, in modo che al momento buono potessero votare per lui nella circoscrizione giusta. Per quanto oltraggiosa e illegale, l’operazione apparteneva con evidenza, anche se goffamente, alla casistica delle relazioni patrono-cliente. Ventiquattro anni più tardi, nel 1987, quasi a sottolineare le continuità ambientali, l’ospedale fu ancora una volta alla ribalta, in questo caso per il pagamento di tangenti e per altre forme di corruzione.³⁵

    Naturalmente sbaglierebbe chi volesse circoscrivere al Sud il fenomeno. All’ospedale Fatebenefratelli, nella «Milano da bere» degli anni Ottanta, la selezione dei candidati a un posto di primario fu caratterizzata dalla disponibilità dei favoriti a pagare fino a cento milioni di lire. La composizione delle commissioni fu di conseguenza manipolata con la cosiddetta tecnica della pallina gelata. Il trucco funzionava così: come da regolamento del concorso, i nomi dei possibili commissari esterni venivano chiusi in alcune palline, tra le quali poi si tirava a sorte. Nel caso specifico, quella che custodiva il nome del prescelto veniva infilata in frigorifero qualche ora prima dell’estrazione. In questo modo la mano del funzionario corrotto poteva individuarla al primo colpo solamente sfiorandola.

    Come intervennero i partiti in queste situazioni? Purtroppo, con modestissime eccezioni, adeguandosi. Anche perché in molte democrazie, compresa quella italiana, le nuove modalità di comunicazione provocarono un’impennata dei costi della politica. Alla metà degli anni Settanta, dopo il primo scandalo dei petroli, venne promulgata una legge sul finanziamento pubblico che stabiliva la quantità di denaro pubblico che ogni formazione politica poteva ricevere e come i privati potessero contribuire con donazioni ai bilanci dei partiti di riferimento. Così Ginsborg classifica il comportamento dei tre principali partiti:

    In Italia la legge sul finanziamento pubblico dei partiti […] era stata accolta con soddisfazione perché fu vista come un’adeguata garanzia della propria sopravvivenza finanziaria. Negli anni successivi essa venne sistematicamente ignorata, e da nessun partito in modo più flagrante del psi di Bettino Craxi […]. I democristiani non erano meno attivi in questo campo, ma in accordo con la tradizione del partito tra di essi non emergeva nessun leader indiscusso, nessuna figura di spicco al centro della ragnatela della corruzione, con l’unica possibile eccezione dello sfortunato Severino Citaristi, tesoriere del partito, che tuttavia era un amministratore e non un politico […]. La questione più controversa riguarda il coinvolgimento dei comunisti. Enrico Berlinguer aveva ripetutamente proclamato l’elevato profilo morale del PCI, caratteristica essenziale che a suo parere lo distingueva dagli altri partiti politici. La realtà era però un po’ meno esaltante. La prassi consociativa degli anni del compromesso storico aveva lasciato il proprio segno sul partito. A Milano, ad esempio, alcuni alti esponenti del PCI erano stati irretiti nel sistema delle tangenti.

    E dire che i segnali d’allarme non erano mancati, da parte di voci anche molto distanti tra loro. Proprio negli anni Settanta, nei suoi Scritti corsari, Pier Paolo Pasolini coniava la metafora del «Palazzo» che – come osserva lo storico Piero Craveri – divenne sinonimo di disaffezione verso il potere, «alimentata dalla diffusa convinzione che questa fosse nella sua essenza e nella sua prassi appunto illegale»³⁶. Terrorismo dilagante, radicamento della criminalità organizzata, strategia della tensione fecero da cornice, proprio in quegli anni, al proliferare di scandali locali e nazionali. I partiti cercarono, con la legge sul finanziamento, di riguadagnare terreno sul fronte della legittimazione, ma, secondo Craveri, privilegiando uno solo dei corni del dilemma: limitarono l’oggetto della loro riflessione al «finanziamento, che più immediatamente li esponeva sul terreno della corruzione, senza tuttavia affrontare il terreno basilare che a esso era implicitamente legato […], quello cioè della definizione di un ruolo dei partiti, che fosse funzionale e si iscrivesse nell’ambito dei poteri dello Stato senza sovrastarli, o surrettiziamente sostituirli». E pare, come si diceva, non si possa proprio affermare che ammonimenti e preallarmi in questa direzione fossero una novità.

    Intervenendo nel 1955 nel dibattito sulla fiducia al governo Segni, don Sturzo aveva osservato che

    alla nostra democrazia parlamentare mancano la base teorica e la tradizione politica. Il costume dell’autolimitazione, il rispetto delle competenze nella divisione dei poteri e di organi, il senso dello stato di diritto sono per molti parole vuote. Dopo otto anni bisogna rifarci allo spirito e alla lettera della Costituzione per opporci all’invadente partitocrazia. Sono possibili anche in questo campo anche le riforme costituzionali. Se si vuole che il partito venga inserito nella Costituzione, che si definisca, dandovi forma legale e responsabilità giuridica e politica… Ma ammettere la surrettizia formazione di un potere illegittimo che soverchi governo e parlamento, non è ammissibile.³⁷

    Nel 1963 era Ernesto Rossi a prendere la parola sottolineando la «sempre maggiore difficoltà di trovare persone che lavorino gratuitamente per realizzare un programma politico» e come «per far funzionare la macchina di un partito di massa oggi occorra gettare sotto la sua caldaia quattrini a palate»: da qui derivava la tendenza secondo cui, per mettere gli elettori «in grado di votare consapevolmente nelle elezioni politiche e amministrative, bisognerebbe dar loro la possibilità di conoscere come sono finanziati i partiti, quali interessi economici stanno effettivamente dietro a ciascuno di essi» e come, in Italia, «la parte di gran lunga maggiore delle entrate dei partiti avesse origini inconfessabili»³⁸. Ma la requisitoria di Rossi non si fermava lì, e diventava alla fine più puntuta, perché «per rendere più facile il finanziamento dei partiti, i ministri favoriscono sempre nuove gestioni fuori bilancio e scelgono quali amministratori degli enti statali e parastatali – invece delle persone oneste e competenti – coloro che ritengono più capaci di soddisfare le loro richieste di quattrini, senza lasciare tracce pericolose nei libri contabili». La conclusione di Rossi era netta: «Anche se pochi democratici amano parlare di questo argomento, [proprio] i finanziamenti occulti ai partiti costituiscono la più grave malattia delle democrazie moderne»³⁹.

    Naturalmente questo elenco sarebbe incompleto se non si citasse Enrico Berlinguer, con la sua denuncia della questione morale, in un’intervista rilasciata a Eugenio Scalfari il 28 luglio 1981:

    I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la RAI TV, alcuni grandi giornali […]. E il risultato è drammatico. Tutte le operazioni che le istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan a cui si deve la carica.

    Si trattava di voci rimaste minoritarie non solo nel Paese, ma all’interno degli stessi partiti e movimenti di appartenenza. Cosa che salta agli occhi anche per il PCI e le sue successive metamorfosi. In particolare fu Piero Fassino, all’epoca segretario dei Democratici di sinistra, a prendere le distanze dal Berlinguer della «questione morale», con poche righe che meritano di essere integralmente richiamate. Il periodo preso in esame dall’ex segretario DS era quello succeduto alla fine della solidarietà nazionale, stagione tramontata tra il 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro, e il febbraio 1980, col XIV congresso della Democrazia cristiana, che archiviò definitivamente ogni possibilità di alleanza con la DC.

    Sono anni molto difficili, il PCI è su un binario morto: l’esaurimento della strategia del compromesso storico non ha portato all’elaborazione di una alternativa. Una maggioranza di sinistra non è possibile; e d’altra parte la rottura con i socialisti non consente neanche di pensarla o di prospettarla politicamente. Simbolo di questa impasse

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1