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I boss che hanno cambiato la storia della malavita
I boss che hanno cambiato la storia della malavita
I boss che hanno cambiato la storia della malavita
E-book996 pagine21 ore

I boss che hanno cambiato la storia della malavita

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Info su questo ebook

«Un libro secco, chiaro, duro.»
Roberto Saviano

Autore di La Camorra dalla A alla Z

Da Raffaele Cutolo a Totò Riina, le storie di tutti i criminali che hanno tenuto sotto scacco l’Italia 

Sono stati tutti feroci, ricchi, sanguinari e, in tempi diversi, hanno pesantemente condizionato la vita del nostro paese. Sono i boss e i padrini che hanno fatto la storia di Cosa Nostra, Camorra, ’Ndrangheta e Sacra Corona Unita.
Ma chi erano davvero gli uomini che hanno tenuto nelle loro mani le sorti dell’Italia? Che cosa ha permesso che divenissero così potenti? Conoscere le loro biografie significa addentrarsi nell’universo oscuro della criminalità organizzata, per capire dove si annida il male e perché la gerarchia mafiosa è così strutturata. Un sistema capillarmente diffuso che poggia le proprie fondamenta su sangue e denaro e che vede affermarsi al suo apice personaggi spietati e senza scrupoli, pronti a tutto pur di preservare il loro immenso potere. Questo saggio ne traccia i profili in modo accurato, tenendo conto del contesto storico e rivelando i retroscena agghiaccianti che li hanno resi gli uomini più pericolosi della penisola. Nel volume c’è spazio anche per chi ha deciso di pentirsi, aiutando lo Stato a demolire le stesse organizzazioni che aveva contribuito a rafforzare.

La criminalità organizzata in Italia raccontata attraverso le vite dei suoi capi storici

Hanno scritto dei suoi libri:

«Un libro secco, chiaro, duro.»
Roberto Saviano

«De Stefano, con coraggio, ha descritto i potenti personaggi del mondo criminale [...] denunciandone la ferocia e l’esaltazione paranoica.»
Aldo Forbice

«Una storia di sangue e di crudeltà in un Paese senza ricchezza e con una giustizia spesso distratta.»
La Repubblica

COSA NOSTRA
Totò Riina • Giovanni Brusca • Matteo Messina Denaro • Gaetano Badalamenti • Tommaso Buscetta • Michele Greco • Luciano Liggio • Bernardo Provenzano • Gaspare Spatuzza • Salvatore Cancemi

SACRA CORONA UNITA
Vincenzo Stranieri • Salvatore Annacondia

’NDRANGHETA
Saverio Morabito • Franco Pino

CAMORRA
Raffaele Cutolo • Carmine Alfi eri • Antonio Spavone • Luigi Giuliano • Francesco Schiavone • Lorenzo Nuvoletta • Michele Zaza
Bruno De Stefano
Giornalista professionista, ha lavorato per diversi quotidiani, tra cui il «Corriere della Sera», «Corriere del Mezzogiorno», «La Gazzetta dello sport» e «City». Tra le sue pubblicazioni per la Newton Compton La camorra dalla A alla Z; Storia e storie di camorra; La casta della monnezza; La penisola dei mafiosi; I delitti di Napoli; I boss della camorra; Napoli criminale, I boss che hanno cambiato la storia della malavita e I nuovi padrini (scritto con Vincenzo Ceruso e Pietro Comito). Nel settembre del 2012 ha vinto il Premio Siani con il volume Giancarlo Siani. Passione e morte di un giornalista scomodo.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2018
ISBN9788822720573
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    Anteprima del libro

    I boss che hanno cambiato la storia della malavita - Bruno De Stefano

    Carmine Alfieri

    «La modestia e il rispetto per gli altri sono stati sempre la mia forza».

    Qualche prestito a tassi usurai accessibili, una intensa frequentazione di bische clandestine, un commercio di carni e di mobili praticato dentro i confini della legalità formale. Se il destino non ci avesse messo il suo malefico zampino, il profilo di Carmine Alfieri, nato a Saviano (Napoli) il 18 febbraio del 1943, sarebbe stato piuttosto banale: nulla di eccitante, insomma, tutto programmato per condurre un’esistenza senza patemi d’animo, lontana da ogni genere di rogna.

    Intendiamoci: ’O ’ntufato, questo il soprannome che sta a indicare una persona dall’espressione perennemente arrabbiata, non era proprio uno stinco di santo e probabilmente non si faceva alcuno scrupolo di spingersi oltre il limite del codice penale. Ma non aveva nessuna aspirazione e mai avrebbe immaginato di diventare il potente capo dei capi della camorra campana e di ritrovarsi al vertice di una organizzazione criminale, la Nuova Famiglia (nf), in grado di fatturare, nel periodo di maggiore fulgore, qualcosa come 1500 miliardi di lire.

    La storia di Alfieri è un romanzo nero nel quale il protagonista, nel breve volgere di pochi anni, si trasforma da placido strozzino di provincia a boss di prima grandezza, da biscazziere a mandante di decine e decine di omicidi, da commerciante di bistecche e di armadi a interlocutore privilegiato di politici, imprenditori e colletti bianchi. I soldi, il potere e la possibilità di disporre della vita degli altri li ha però pagati a un prezzo spaventosamente caro: ha trascorso un discreto numero di anni vivendo come un topo in trappola, cambiando tana di tanto in tanto, portandosi appresso l’inquietudine di chi sa di essere braccato più dagli avversari che dalle forze dell’ordine. Tanto per fare un esempio illuminante: Totò Riina, il suo omologo siciliano, durante la sua lunghissima latitanza ha quasi sempre fatto una vita regolare, tant’è che quando lo hanno arrestato era appena uscito da una palazzina di una zona residenziale dove viveva con moglie e figli. Alfieri invece no: l’11 settembre del 1992, quando è stato ammanettato, era il secondo giorno in cui usciva dal suo nascondiglio negli ultimi dieci anni.

    Come tutti i romanzi più avvincenti, pure quello di Alfieri è popolato da personaggi che rendono la storia particolarmente interessante, a tratti unica. Il nemico numero uno di ’O ’ntufato è stato Raffaele Cutolo, ’O professore che ha fondato la Nuova Camorra Organizzata (nco), un esercito che sarà poi sconfitto dalla nf di Alfieri al termine di una guerra di inaudita ferocia. Agli investigatori dirà che, se è diventato un criminale, la colpa è tutta di Cutolo: proprio per difendersi da ’O professore, che voleva ucciderlo e che per vendetta gli aveva ammazzato un fratello, è stato costretto a diventare un camorrista.

    Ai pm della Direzione distrettuale antimafia spiegherà: «Diciamo che se non ci fosse stato l’evento di Cutolo, forse io non sarei qua, tenendo presente che io fino al 1978 ero un commerciante di mobili. Con l’evento di Cutolo si è trasformata tutta la mia esistenza, sia mia che dei miei amici» (Richiesta di misura cautelare nei confronti di Agizza Antonio e altri).

    Il colpo di scena più clamoroso è invece arrivato alla fine, quando ha deciso di collaborare con la giustizia, scelta inusuale per uno che è stato il capo dei capi. Da pentito ha commesso il suo ultimo omicidio, dando il colpo di grazia all’organizzazione che lui stesso aveva contribuito a creare. Il merito della sua conversione da feroce padrino a collaboratore di giustizia non sarebbe solo da ascrivere alla angosciante prospettiva di morire in carcere seppellito dagli ergastoli. A spingerlo verso un inaspettato ravvedimento sarebbe stato, a suo dire, Giovanni Paolo ii che il 9 maggio del 1993, nella Valle dei Templi di Agrigento, si era rivolto agli esponenti di Cosa Nostra: «Convertitevi, perché un giorno verrà il giudizio di Dio».

    A questo proposito dichiarerà ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Napoli: «Ho maturato la mia scelta dopo aver ascoltato in televisione l’appello del Papa ai mafiosi» (Ibidem).

    Ma, Santo Padre a parte, ci sono senza dubbio altri elementi che hanno contribuito a convincerlo a passare dalla parte dello Stato. Il primo riguarda il suo temperamento: come già ricordato non è che fosse proprio un giglio di campo, ma certamente non era cresciuto in un contesto malavitoso, quindi non era impregnato di quella cultura nella quale la violenza e l’omertà rappresentano dei valori indiscutibili. Carmine Alfieri, insomma, pur essendo stato il numero uno della Nuova Famiglia non ha mai posseduto lo spessore criminale di un Riina o di un Cutolo, tanto per citare altri due boss di rango. Un altro fattore determinante è rappresentato dal pentimento del suo braccio destro, quel Pasquale Galasso con il quale aveva diviso gioie e dolori e che come primo atto della sua collaborazione aveva indicato ai carabinieri il covo di Alfieri. Il pentimento di Galasso aveva provocato un terremoto di proporzioni gigantesche nella nf, e quindi ’O ’ntufato si era reso conto molto presto che il suo silenzio non lo avrebbe salvato dalla certezza del carcere a vita: sapeva che gli sarebbe convenuto parlare e così ha fatto.

    Da strozzino a camorrista

    Quando i tempi in cui diventerà il leader di centinaia di delinquenti sono ancora lontani e inimmaginabili, Alfieri ha nel fratello maggiore Salvatore il suo principale alleato. Più che un fratello, agli occhi di Carmine è un eroe: nel 1956 Salvatore ha ucciso Tore Notaro, che aveva ammazzato loro padre tre anni prima, mantenendo una promessa fatta nel giorno del suo funerale. Il futuro numero uno della nf all’epoca aveva solo tredici anni, pochi per capire come va il mondo ma sufficienti per apprezzare il coraggio e la determinazione del fratello nel portare a termine la vendetta:

    Ha avuto una parte assai importante nella mia formazione, era una persona per me carissima e la cui memoria porterò sempre nel cuore. Era un uomo corretto, serio, stimato da tutti, aperto e leale. Salvatore e io (lui ancora più di me) siamo stati forti giocatori e biscazzieri: benvoluti da tutti in San Giuseppe e nei paesi vicini, frequentavamo le bische che volta a volta erano note come quelle di maggior movimento. In esse portavamo molti commercianti o persone facoltose, entrando così in società con i gestori. Esse si trovavano a Salerno o a Napoli, fra queste ultime ricordo quella di via Santa Brigida (gestita da una donna assai abile e capace, detta la baronessa), quella di Santa Lucia, quella di fronte al San Carlo. (Interrogatorio del 19 febbraio 1994)

    L’assassinio di Notaro consente alla famiglia Alfieri di acquisire la fama di gente di rispetto nell’area nolano-vesuviana. Intanto Carmine aumenta le sue entrate facendo lo strozzino, un business coltivato in maniera capillare che si rivela alquanto fruttuoso. Chi si rivolge a lui per ottenere un prestito gode dell’indiscutibile vantaggio di non avere a che fare con un vampiro: Alfieri, infatti, non è di quegli usurai che inseguono o perseguitano i loro clienti:

    Per quanto mi riguarda devo aggiungere che ho guadagnato molto con l’usura, più che con le tangenti. Premetto che io ero partito con una base economica consistente, e già nel 1976, all’epoca del mio arresto, disponevo di circa 500 milioni, somma costituita con i proventi delle mie attività di commerciante di mobili e di carni (in società con Giuseppe Simeoli) e di compravendita di terreni (in questa attività, sicuramente la più redditizia, agivo sempre attraverso prestanome). Questi soldi li reinvestivo sempre, in particolare nell’attività di finanziamento a commercianti e imprenditori, così incrementando il mio patrimonio. Peraltro io prestavo denaro praticando un tasso di interesse variabile da un minimo del 15% (meno dell’interesse bancario) fino a un massimo del 50% mensile. Ho finanziato tantissimi commercianti, soprattutto nella zona di San Giuseppe Vesuviano […] Per una mia scelta non ho mai richiesto interessi usurai agli abitanti di Piazzolla di Nola cui prestavo il denaro. Peraltro anche con coloro ai quali praticavo interessi usurai dimostravo tolleranza e benevolenza. Qualche volta, di fronte alla impossibilità di qualche mio debitore a far fronte agli impegni, addirittura ho rinunciato agli interessi. […] Per una mia scelta dovuta sia al carattere sia alla mia convinzione che era sempre preferibile far sopravvivere il debitore piuttosto che strangolarlo. (Interrogatori del 18 e del 19 febbraio 1994)

    L’incontro con Cutolo

    A cambiare la traiettoria dell’esistenza di Alfieri è Raffaele Cutolo. Quando le vite di ’O ’ntufato e ’O professore s’incrociano è il 1973 e nessuno dei due è ancora un camorrista. Alfieri è uno strozzino che passa il tempo nelle bische, e Cutolo è uno scapestrato dalla personalità indecifrabile che per futili motivi ha assassinato una persona e ne ha ferita un’altra. I due non si conoscono ma Alfieri è un buon amico del fratello di Cutolo, Pasquale, al quale lo unisce la passione per il gioco d’azzardo. Quando Raffaele vuole nascondersi per evitare di tornare in carcere dove lo aspetta una condanna all’ergastolo, Pasquale chiede ad Alfieri se può dargli una mano per trovare un rifugio sicuro al fratello.

    Come si può dir di no a un amico con il quale condivide le serate giocando a poker? Ed ecco che ’O ’ntufato mette in moto le sue conoscenze e gli trova un nascondiglio a Villa Literno, nel Casertano, dove a tenerlo al sicuro saranno persone fidate.

    Il futuro capo della nf ha accettato di dare una mano a Pasquale, tuttavia è consapevole che quel Raffaele è uno con le rotelle fuori posto, uno col quale è meglio non avere a che fare. A rincuorarlo è il fatto che le loro strade non si incroceranno mai più.

    Ma non sarà così perché il destino si mette silenziosamente all’opera per fare in modo non solo che si possano di nuovo incrociare ma anche che l’incontro avvenga in uno dei posti più inospitali in assoluto: il carcere di Poggioreale.

    Eh, sì, perché nel frattempo Cutolo è finito in galera per l’omicidio commesso qualche anno prima e Alfieri è stato arrestato perché accusato di essere il mandante dell’assassinio di un certo Giuseppe Glorioso, un piccolo pregiudicato di San Giuseppe Vesuviano.

    Nell’ora d’aria, dunque, i due si vedono spesso, sebbene lo strozzino di Saviano preferisca evitarlo perché si rende conto che Raffaele è un incontenibile megalomane che può portare solo guai. «Devo dire che Cutolo non mi piaceva: aveva un carattere assai diverso dal mio, che sono pacato per natura, mentre lui era incline a una continua esaltazione», sosterrà in aula ’O ’ntufato molti anni dopo.

    Alfieri preferisce fare squadra con persone più rilassate come il contrabbandiere Michele Zaza, il ricco studente di Medicina Pasquale Galasso, e delinquenti dall’atteggiamento poco molesto come Enzuccio Moccia e Marzio Sepe.

    La sensazione di disagio che Cutolo trasmette agli altri carcerati si amplifica quando a Poggioreale viene ammazzato Mico Tripodo, considerato un esponente di primo piano della ’Ndrangheta. Alfieri sospetta che solo un pazzo come ’O professore possa aver osato tanto. Poi Cutolo viene trasferito nel manicomio criminale di Aversa e lui si tranquillizza al solo pensiero di non averlo più tra i piedi. Dopo un periodaccio, la buona sorte sembra di nuovo corrergli incontro a braccia aperte: i giudici lo assolvono per insufficienza di prove dall’accusa di aver ordinato l’omicidio Glorioso e lui, nei primi mesi del 1978, torna a Saviano accolto come il figliol prodigo dai suoi concittadini che lo acclamano per aver evitato una ingiusta condanna.

    Il clima, intanto, è cambiato e non di poco. A San Giuseppe Vesuviano, dove gestisce le sue attività commerciali, la gente vive nel terrore da quando una banda di delinquenti pretende il pizzo da chiunque abbia un’impresa, un negozio o una bottega. La gang è di Ottaviano e fa capo proprio a Cutolo, il quale nel carcere ha arruolato dei balordi e li ha trasformati in una agguerrita gang:

    Voglio farvi comprendere a questo punto che San Giuseppe Vesuviano è stata per me la mia vera scuola e lì ho tuttora una infinità di persone che mi vogliono bene e mi stimano per la mia dirittura morale. Io fui costretto a non frequentare più San Giuseppe dall’incalzare di Cutolo, altrimenti non sarei mai andato via. Accadde, purtroppo, che proprio durante il mio periodo di detenzione per l’omicidio di Glorioso (febbraio 1976-febbraio 1978) i cutoliani presero il controllo della situazione, per cui, quando venni scarcerato, dovetti ben presto rendermi conto che a San Giuseppe non era più aria per me. (Interrogatorio del 9 marzo 1994)

    Ma non è tutto. Perché il 15 maggio del 1979 Cutolo evade dal manicomio di Aversa al termine di una incursione di alcuni suoi fedelissimi che fanno saltare una parete della struttura con una bomba. Con ’O professore in circolazione, Alfieri è ancora più preoccupato. Però il peggio deve ancora venire. E il peggio si materializza un giorno quando qualcuno bussa alla porta di casa sua mentre sta pranzando. Ad aprire va la madre. La donna torna in cucina e gli dice: «Carminù, di là ci sono delle persone che vogliono parlare con te». La visita a un orario inopportuno è sgradevole, ma non è nulla in confronto ai nomi e ai volti che Alfieri si ritrova di fronte: Raffaele Cutolo e Pasquale D’Amico, detto ’O cartunaro. Per poco non gli viene un accidente, ma fa l’impossibile per dissimulare la sua irritazione perché con quei soggetti lì bisogna dimostrarsi necessariamente accomodanti se si vuole salvare la pelle. Il motivo di quella improvvisata manda Alfieri ancora di più nel pallone: ’O professore si è spinto fin lì per chiedere, con un ingarbugliato giro di parole, al suo vecchio compagno di carcere di entrare a far parte della nascente Nuova Camorra Organizzata:

    Nel discorso che il Cutolo fece, con il suo solito modo di dire mai chiaro e diretto, ma fumoso e generico, mi fece capire che avrebbe avuto piacere che io fossi entrato nel gruppo. Io evitai di rispondere in qualsiasi modo, in quanto non m’interessava per nulla accettare quella proposta, ma non mi sembrava opportuno nemmeno rifiutarla apertamente. D’altra parte, Cutolo non giunse mai a chiarire fino in fondo il suo discorso, poiché temeva un rifiuto netto. Si sapeva già, in quel periodo, che il gruppo di Cutolo stava acquisendo potere, perché faceva chiaramente capire che alcuni omicidi che venivano commessi provenivano dalla sua iniziativa (ricordo quelli di Galli e Tagliamonte, i cui corpi furono ritrovati a mare in un sacco); e il numero di quegli omicidi andava aumentando. (Interrogatorio del 19 febbraio 1994)

    La visita si chiude con Cutolo e D’Amico che vanno via delusi per il «no» del loro interlocutore ma tutto sommato intimamente convinti che possa cambiare idea. Qualche mese dopo la scena si ripete, Cutolo non c’è e a bussare alla sua porta sono quattro suoi autorevoli emissari: Vincenzo Casillo detto ’O nirone, Corrado Iacolare, Davide Sorrentino e Ciro Mazzarella. Spiegano che il loro capo lo vuole a tutti i costi nella nco. La risposta è un altro «no»:

    Io risposi negativamente, questa volta in maniera aperta, prendendo a pretesto il processo d’appello che si sarebbe dovuto celebrare per l’omicidio Glorioso, in realtà perché, come ho detto, quella gente non mi piaceva. I quattro fecero una brutta smorfia a quel mio rifiuto (in particolare il Sorrentino) e andarono via. (Interrogatorio del 19 febbraio 1994)

    Alfieri ha risolto un problema nell’immediato ma ne ha creato un altro in prospettiva. Conoscendo la personalità di Cutolo, quel rifiuto gli provocherà sicuramente qualche spiacevole effetto collaterale. Infatti, qualche tempo dopo viene a sapere che ’O professore ha inserito il suo nome in una sorta di lista nera di nemici da eliminare. A metterlo sul chi va là è un certo Carmine Sangermano, un suo vecchio amico che nel frattempo ha aderito alla nco. Sangermano gli rivela che Cutolo, aiutato dal clan Graziano di Quindici (in provincia di Avellino), ha deciso di rapirlo e di ucciderlo per fargli pagare quel «no» pronunciato due volte.

    Protetto dai Nuvoletta

    ’O ’ntufato è consapevole del fatto che se Cutolo lo ha condannato a morte, la sentenza sarà prima o poi eseguita. All’epoca è solo uno strozzino e non ha né i mezzi né gli uomini per potersi difendere dall’aggressività del camorrista di Ottaviano. E allora decide di cercare qualcuno che lo protegga. All’ippodromo di Agnano, Carmine e Salvatore Alfieri fanno la conoscenza dei fratelli Lorenzo, Angelo e Ciro Nuvoletta, una potente famiglia di Marano (nel Napoletano) affiliata a Cosa Nostra. A metterli in contatto è l’amico comune Antonio Malventi, un intraprendente uomo d’affari che coltiva rapporti con tutto il mondo che conta, dalla politica all’imprenditoria, passando per gli ambienti malavitosi:

    In quei mesi iniziammo dunque, io e mio fratello, a starci più attenti; nel frattempo conoscemmo i fratelli Lorenzo, Angelo e Ciro Nuvoletta. Li incontrammo per una comune frequentazione dell’ippodromo di Agnano; anche perché lo stesso ambiente frequentava Antonio Malventi, adottato da una famiglia di Piazzolla che aveva anch’essa Alfieri come cognome, che conosceva da sempre sia noi che i Nuvoletta.

    Ben presto Salvatore e io capimmo che, per tutelarci dalle pazze iniziative di Cutolo, avremmo potuto trovare protezione proprio presso i Nuvoletta, la cui masseria di Poggio Vallesana iniziammo a frequentare: ciò in quanto il nome dei Nuvoletta era già quello di gente di rispetto (giravano voci di collegamenti con la Sicilia, ma assai vaghi), e anche perché si sapeva che erano comunque in buoni rapporti con Cutolo. Durante questo periodo, i Nuvoletta iniziarono a far girare la voce che Salvatore e io eravamo loro amici, e noi li favorivamo in questo, poiché ovviamente ciò aumentava la nostra sicurezza. I nostri rapporti con i Nuvoletta divennero via via più intensi tanto che mi venne proposto di cresimare un figlio di Nuvoletta. (Interrogatorio del 10 febbraio 1994)

    I Nuvoletta fanno sapere a tutti, Cutolo compreso, che gli Alfieri sono sotto la loro ala protettiva per cui nessuno dovrà torcergli un capello. Il boss di Ottaviano abbozza, sa perfettamente che i Nuvoletta – con i quali ha un ambiguo rapporto – non possono essere contraddetti per la loro appartenenza alla mafia siciliana. L’incontro con la famiglia di Marano è il primo passo che Alfieri compie da camorrista. Pur non essendo impiegato in nessuna attività fuorilegge, partecipa alle riunioni a Poggio Vallesana, il quartier generale dei Nuvoletta nel quale soggiornano i rappresentanti più autorevoli di Cosa Nostra. Nel frattempo, Cutolo ha iniziato la sua personale guerra contro il resto del mondo e non c’è giorno in cui non ci sia un omicidio o un negozio sbriciolato dalle bombe. La nco ha trasformato la provincia di Napoli in un enorme mattatoio dove viene mandato al Creatore chiunque non accetti le imposizioni del Professore. Gli unici a non essere toccati dalla furia di Cutolo sono proprio i Nuvoletta e Michele Zaza, pure lui legato alla mafia siciliana. La sensazione, però, è che in qualche modo il boss di Ottaviano debba essere fermato prima che renda la vita impossibile a tutte le altre organizzazioni criminali. Alfieri un po’ alla volta si rende conto che non può fidarsi ciecamente dei Nuvoletta, il cui atteggiamento nei confronti del Professore è decisamente sfuggente: «Peraltro, io potevo vedere che i fratelli Nuvoletta parlavano sempre malissimo di Cutolo, ritenendolo un pazzo pericoloso, ma di fatto ne proteggevano sempre la latitanza e non vi si contrapponevano mai apertamente» (Interrogatorio del 10 febbraio 1994).

    ’O ’ntufato teme che Cutolo possa prima o poi sbarcare nella sua zona, nel Nolano; un timore condiviso pure da una serie di soggetti conosciuti in carcere, ugualmente preoccupati dall’avanzata inarrestabile della nco. Per la sua pacatezza e per la sua capacità di ragionare sul da farsi, Alfieri diventa il leader di un gruppo che intende difendersi dagli eventuali attacchi dei cutoliani. Nessuno vuole lanciarsi in un imprudente conflitto con l’assai più attrezzata nco, ma tutti vogliono farsi trovare pronti qualora ’O professore decidesse di minacciare la quiete nel Nolano, nella zona di Poggiomarino (dove c’è Pasquale Galasso) o di Afragola (dove c’è Enzuccio Moccia). Un po’ alla volta si avvicina ad Alfieri gente di cui si parlerà parecchio negli anni a venire: Peppe Ruocco, Marzio Sepe e Giuseppe Autorino.

    La necessità di frenare l’ascesa dei cutoliani viene più volte ribadita durante i summit che si tengono nella masseria dei Nuvoletta e ai quali partecipano criminali di primo piano come Antonio Bardellino e Francesco Bidognetti, camorristi della provincia di Caserta, Vittorio Vastarella e Raffaele Ferrara. I Nuvoletta, fedeli alla nomea di doppiogiochisti, sostengono che è necessario reagire ma senza farsi notare troppo. È una strategia che ad Alfieri non piace e che alla fine potrebbe avvantaggiare solo i mafiosi di Marano che resterebbero comodamente nell’ombra mentre ad esporsi sono tutti gli altri:

    Io fra l’altro in quel periodo ho anche visto alcune volte Michele Zaza, che era l’altra famiglia di grande rispetto della Campania. Fra Nuvoletta e Zaza non correva buon sangue, come facilmente capivo dai pur contorti discorsi che mi facevano Angelo e Lorenzo. I motivi di questo contrasto erano da individuarsi semplicemente nella lotta per il potere. E riuscii anche a capire che il legame che i Nuvoletta continuavano a mantenere con Cutolo era dovuto sempre al desiderio di mantenere in atto un continuo contrasto fra Zaza e Cutolo, rimanendo defilati con un abilissimo doppio gioco. (Interrogatorio del 10 febbraio 1994)

    Tra la fine del 1980 e gli inizi del 1981 l’aggressività di Cutolo assume forme intollerabili. Muore ammazzato chiunque si opponga ai suoi voleri; vengono giustiziati politici dalla schiena dritta, come i consiglieri comunali di Ottaviano Pasquale Cappuccio (psi) e Mimmo Beneventano (pci). Nell’estate del 1981 i Nuvoletta convocano un summit al quale prendono parte gli esponenti di tutti i clan della Campania: l’obiettivo è riportare la pace in maniera tale che tutti riescano a fare gli affari di sempre senza il timore di finire al camposanto da un momento all’altro. Ma al di là delle rassicurazioni formali, la situazione invece di migliorare precipita:

    Alfieri partecipa a una riunione a Poggio Vallesana che si svolge alla presenza di esponenti di tutte le famiglie campane: Bardellino, Zaza, Spavone, Giuliano, Mallardo, Maisto, Gionta, D’Alessandro, Vollaro, Ferrara, Vastarella, Nuzzo. ’O professore è rappresentato dal fratello Pasquale, da Vincenzo Casillo e da Davide Sorrentino. Al termine dell’incontro i cutoliani, su pressione dei Nuvoletta, prendono l’impegno solenne di deporre le armi, ma invece accade l’esatto contrario. Cutolo non solo non fa marcia indietro ma arriva a chiedere perfino tangenti sulle casse di sigarette che Zaza fa sbarcare a Napoli. «Tutti gli inutili delitti», dichiarerà ’O ’ntufato molti anni dopo quella riunione, «tutto il sangue che è scorso in Campania a partire dal 1978 è dipeso da Cutolo e dai Nuvoletta, in particolare dalla esaltazione del primo e dalla perfida ambiguità dei secondi, tipica dell’agire mafioso». Nel frattempo molti delinquenti si aggregano ad Alfieri. Qualcuno non vuole rientrare nell’orbita della Nuova Camorra Organizzata; qualcun altro, magari colpito dal furore sanguinario del boss di Ottaviano, è in cerca di alleati utili per consumare la propria vendetta. Sta di fatto che col passare delle settimane il gruppo che comprende Galasso, Moccia, Ruocco, Sepe e Autorino, diventa sempre più consistente. Nella base operativa di Piazzolla di Nola, dove Alfieri è nato e cresciuto, arrivano i fratelli Ferdinando e Gaetano Cesarano e altri malavitosi di secondo piano. Per tutti l’obiettivo principale è difendersi dai cutoliani; bisogna attaccare solo in casi estremi. (Bruno De Stefano, I boss della camorra)

    La morte del fratello

    Com’era prevedibile, i casi estremi arrivano e il destinatario della violenza cieca di Cutolo è proprio Carmine Alfieri. Il 26 dicembre del 1981, quando sono passate da poco le 14, Salvatore Alfieri è all’interno dell’osteria La Vinicola, a Pompei. Nel locale gestito dalla moglie entrano due persone che hanno un comportamento strano, non sembrano esattamente due clienti intenzionati a pranzare. Si guardano intorno con insistenza, ma non cercano un cameriere per le ordinazioni. Gli occhi sono a caccia di Salvatore, impegnato in quegli istanti a giocare con una nipotina in un angolo dell’osteria. I due clienti non hanno alcuna intenzione di mangiare e dopo aver individuato la vittima si avvicinano e sparano a ripetizione senza porsi il benché minimo scrupolo del fatto che lì c’è una bambina, che resta fortunatamente illesa anche se terrorizzata. Gli altri clienti cercano riparo sotto i tavoli, mentre Salvatore resta a terra crivellato di proiettili. I cutoliani, dunque, hanno portato a termine la loro vendetta trasversale per punire chi aveva detto «no» al loro capo.

    Per ’O ’ntufato è una mazzata terribile. Da quel giorno indosserà una cravatta nera in segno di lutto; la toglierà solo quando, molti anni più tardi, l’assassinio di Salvatore sarà vendicato. Pur non avendo nessuna prova, Alfieri è certo che il mandante dell’omicidio nell’osteria è Raffaele Cutolo. Una supposizione alimentata dalle voci secondo le quali i cutoliani di Piazzolla di Nola e di San Giuseppe Vesuviano abbiano brindato dopo il raid nella Vinicola:

    Quando fu ucciso Salvatore io, pur senza riuscire a sapere i nomi degli autori materiali del delitto, intuii immediatamente che si trattava di cutoliani. Noi non avevamo altri nemici. […] L’idea di Raffaele Cutolo era che chi non stava con lui stava automaticamente contro di lui e quindi doveva essere eliminato, a meno che non abbandonasse la zona di residenza. Infatti, molte persone che non vollero schierarsi con Cutolo si salvarono andandosene. Io, invece, decisi di restare e di vendicare la morte di mio fratello. Peraltro, io ritenevo gli stessi Nuvoletta responsabili morali della morte di Salvatore. (Richiesta di misura cautelare nei confronti di Agizza Antonio e altri)

    L’assassinio di Salvatore non resta impunito. Alfieri e i suoi amici ci mettono meno di dieci giorni per rispondere ai cutoliani. La vendetta viene consumata con il sequestro e l’uccisione di Alfonso Catapano, fratello di Raffaele, uno dei più importanti luogotenenti di Cutolo. A rivelare i dettagli della ritorsione è il pentito Gennaro Brasiello: «Bussammo alla porta dicendo di essere carabinieri per effettuare una perquisizione. Inizialmente venne a rispondere la moglie – una ragazza sui 30-32 anni all’epoca – che non voleva aprire, voleva il tesserino per sotto la porta. Usammo dei modi bruschi e infine venne il marito – si autoconvinse che forse eravamo carabinieri – aprì l’uscio della porta che noi finimmo di spalancare, lo sequestrammo e lo portammo con noi […]» (Udienza del 7 aprile 1998 del processo Maglio).

    Una volta sequestrato, Catapano viene condotto nelle campagne di Saviano. Il piano prevede che sarà torturato fino a quando non rivelerà i nomi dei mandanti e degli esecutori dell’omicidio di Salvatore Alfieri. Prima di trascinarlo al cospetto di ’O ’ntufato, Catapano viene seviziato. Una volta arrivato sul posto, Alfieri si siede in macchina accanto a lui e gli ordina di fare i nomi degli assassini. Catapano dice di non saperne nulla, il suo atteggiamento poco collaborativo manda in bestia il boss di Piazzolla che decide di ucciderlo:

    Alfonso Catapano non volle dirci proprio niente. A quel punto Marzio Sepe mi passò un coltello e io sferrai una coltellata all’addome del Catapano. Non so se la ferita fu mortale; non ricordo se detti altre coltellate, ma non credo, perché il mio gesto fu dettato dalla rabbia: scaricai nella coltellata tutto il dolore e la rabbia per la morte di mio fratello. In ogni caso era già deciso che il Catapano doveva morire dopo l’interrogatorio. Vedete che ho esitato ad ammettere di aver inferto la coltellata ad Alfonso Catapano, perché – per quanto paradossale possa apparirvi alla luce dei fatti delittuosi di cui mi sono reso responsabile come mandante – la mia indole è sempre stata contraria a ogni violenza. […] Appena data la coltellata, io mi allontanai insieme a Pasquale Galasso, mentre gli altri caricarono il Catapano sull’autovettura, e dopo averlo finito, lo portarono a Ottaviano per sfregio a Raffaele Cutolo. (Richiesta di misura cautelare nei confronti di Agizza Antonio e altri)

    ’O ’ntufato capo della nf

    Dopo quell’omicidio, nasce la Nuova Famiglia: è un gruppo capeggiato da un leader carismatico come ’O ’ntufato, ma è soprattutto una federazione di clan della provincia di Napoli che scende in guerra contro Cutolo. Però Alfieri è oramai diventato un morto che cammina. In quei giorni comincia a nascondersi in diversi covi, nei dieci anni di latitanza si allontanerà da Piazzolla di Nola e dintorni solo per due giorni e mezzo complessivi. Oltre al dolore per la morte del fratello, Alfieri prova un altro dispiacere che lo rende ancora più furioso. Nessuno dei fratelli Nuvoletta – evidentemente consapevoli che dietro l’assassinio di Salvatore ci possa essere Cutolo – gli porge le condoglianze; un gesto che conferma l’ambiguità dei mafiosi di Marano, tutt’altro che intenzionati a schierarsi contro il boss di Ottaviano nonostante il disprezzo che in privato dicono di provare nei suoi confronti.

    Il rapporto con i Nuvoletta si sfalda progressivamente e Alfieri e i suoi sodali capiscono di essere rimasti da soli contro l’esercito cutoliano. Col tempo, però, si ritrovano un alleato tanto leale quanto determinato: è Antonio Bardellino, pure lui si è reso conto della doppiezza dei Nuvoletta e decide di abbandonarli. La comune disistima nei confronti dei mafiosi di Marano cementa l’amicizia tra ’O ’ntufato e il camorrista casertano:

    Nella masseria Vallesana in quel periodo conobbi Antonio Bardellino e altri casalesi (Cicciotto Bidognetti, Vittorio Vastarella, Raffaele Ferrara ed altri) pur non stringendo con loro particolari rapporti. Tuttavia, pur avvertendo per il Bardellino un’istintiva simpatia, feci l’errore di non stringermi a lui fin da quel momento, altrimenti avrei capito prima, come il Bardellino già sapeva, che razza di carattere infido avevano i Nuvoletta. Durante le tante riunioni che avevamo nella masseria, notavamo costantemente l’ascesa di Cutolo che ovviamente ci preoccupava: tuttavia sempre ritenevamo che il legame con Nuvoletta ci avrebbe protetto. […] L’alleanza con Bardellino divenne via via più stretta e sia la statura del personaggio che la forza del gruppo che lui aveva dietro le spalle ci rese praticamente fortissimi. Il nostro rapporto con Bardellino (per nostro intendo quello di tutto il nostro gruppo) era quasi di venerazione: pur essendo noi, per quanto riguarda i nostri territori, del tutto autonomi lo consideravamo il capo assoluto di tutti noi. (Interrogatori del 10 e del 23 febbraio 1994)

    Dopo la morte di Catapano, i cutoliani non restano certo con le mani in mano. E passano al contrattacco con un omicidio che segna una data spartiacque nella storia della guerra con don Raffaele. Il 21 gennaio del 1982 viene ucciso Nino Galasso, un ragazzo tranquillo e pacifico la cui unica colpa è quella di essere il fratello di Pasquale, considerato da Cutolo e soci uno dei principali nemici. Con la morte dell’innocente Nino, la compagine di Alfieri capisce di essere stata trascinata in uno scontro dal quale si uscirà solo annientando la nco.

    Col passare dei giorni il numero delle persone che si coalizzano con ’O ’ntufato cresce a ritmi vertiginosi, Alfieri raccoglie adesioni in molte aree della provincia di Napoli dove è diffusamente avvertita la necessità di difendersi da Cutolo e dalle sue arrembanti truppe.

    La consapevolezza di dover replicare colpo su colpo per evitare di essere sopraffatti spinge Alfieri e i suoi uomini ad alzare il livello dello scontro. L’impossibilità di colpire Cutolo, detenuto a Poggioreale dove fa il bello e il cattivo tempo, suggerisce di ripiegare sulla mente e sul braccio operativo della nco: Alfonso Rosanova e Vincenzo Casillo. Il primo è considerato il regista di tutte le attività dei cutoliani, nonché il prezioso e insostituibile anello di collegamento tra il boss di Ottaviano e il mondo della politica, dell’imprenditoria e della finanza. Casillo, ’O nirone, invece, rappresenta il suo capo in ogni circostanza, ed è stato una pedina fondamentale nella gestione della trattativa per la liberazione dell’assessore regionale dc Ciro Cirillo, rapito dalle Brigate Rosse e poi rilasciato dopo 81 giorni in cambio di un riscatto di oltre un miliardo. ’O nirone è un’imprendibile anguilla e quindi inizialmente si decide di puntare su un bersaglio più facile, Rosanova: da due imprenditori amici si viene a sapere che è ricoverato in un ospedale di Salerno dove è guardato a vista da due poliziotti. Niente di complicato, il blitz si può fare:

    Alle 4 del mattino del 16 aprile 1982 un commando composto da sei sicari fa irruzione nell’ospedale Procida. Gli agenti vengono disarmati e immobilizzati. Rosanova, svegliato dal frastuono, si vede puntare sul volto una lupara e tenta di strapparla dalle mani del suo boia, ma non ci riesce: gli sparano alla testa, al collo, alla spalla, al torace, all’addome e alla mano destra. A Piazzolla l’esecuzione di don Alfonso sarà festeggiata con spumante e dolcetti. Racconterà Alfieri: «Alfonso Rosanova era per noi la vera mente dell’organizzazione cutoliana e, quindi, il responsabile di tutto ciò che i cutoliani facevano. Per questo motivo avevamo deciso da tempo di ucciderlo: sopprimere lui era praticamente la stessa cosa che sopprimere Cutolo». (De Stefano, op. cit.)

    In quei giorni la nco oltre alla perdita di un personaggio fondamentale come Rosanova, subisce anche un’altra sconfitta: dopo aver goduto di una scandalosa libertà di movimento nel carcere di Ascoli Piceno (dove riceveva amici, comparielli, imprenditori e politici), il 19 aprile, su ordine del presidente della Repubblica Sandro Pertini, Raffaele Cutolo viene trasferito nel supercarcere dell’Asinara, in Sardegna.

    Il vento sta cambiando e ora soffia alle spalle di Alfieri e della sua banda. Tant’è che scendono in campo pure i Nuvoletta, sollecitati ad intervenire da esponenti della nco sempre più allarmati per la piega che ha preso la guerra con la nf:

    L’obiettivo è troncare, una volta e per tutte, un conflitto che non serve a nessuno. ’O ’ntufato però inizialmente rifiuta di partecipare al summit perché pretende che a rappresentarlo debba essere Lorenzo Nuvoletta, che ritiene essere ancora un suo alleato. Don Lorenzo replica che non può fare le sue veci perché sono lui e Galasso che «tengono i morti» e quindi tocca a loro fare la pace con i cutoliani. In realtà Alfieri non vuole andare a Marano anche perché ha paura: «Avevo deciso di non abbandonare più il mio territorio per motivi di sicurezza personale». Per convincerlo a prendere parte al vertice, Nuvoletta gli fa sapere che i vertici della nco pur di mettere fine allo scontro sono disposti a sacrificare, uccidendoli, un paio di affiliati in modo da pareggiare i conti con gli agguati di Salvatore Alfieri e Nino Galasso. (De Stefano, op. cit.)

    Alla fine, il boss di Piazzolla accetta di sottoscrivere un armistizio ma è consapevole che lo scenario criminale non sarà più lo stesso:

    I Nuvoletta ci avevano completamente scaricati e così fu chiara la loro malvagità e il loro tradimento. Avremmo potuto decidere di formalizzare subito la rottura disertando la riunione ma non lo facemmo per prendere tempo e perché gli altri gruppi anticutoliani volevano la pace e, quindi, la nostra assenza poteva essere interpretata come una presa di distanze da quei gruppi, che certamente in quel momento sarebbe stata pericolosa per noi. Decidemmo allora di mandare alla riunione Marzio Sepe e Angelo Moccia. La pace fu siglata con il voto favorevole anche dei miei due amici ma fu soltanto una formalità. Da quel momento noi ci avvicinammo al Bardellino fino a stringere una salda alleanza basata anzitutto sulla reciproca stima. (Interrogatorio dell’11 febbraio 1994)

    La pace siglata a casa dei Nuvoletta è carta straccia. La guerra ricomincia come e più di prima, e a quel punto Alfieri capisce che non c’è più nessuna possibilità di vivere tranquillamente e che occorre organizzarsi dal punto di vista militare per contrastare un nemico feroce come la nco:

    Fin dal primo momento successivo all’omicidio di Salvatore, tutto il nostro gruppo si trovò nella necessità di scegliere fra l’abbandonare del tutto i nostri paesi e la nostra vita oppure abbracciare le armi e andare a uno scontro mortale con i cutoliani. In sostanza: uccidere per non essere uccisi. In quel momento, e fu una scelta che in seguito ho avuto spesso modo di rimpiangere così come tutti i miei amici, prevalse il nostro orgoglio e la rabbia per quanto avevamo subito, e decidemmo così di affrontare quello scontro terribile, di cui negli anni successivi avremmo pagato tutte le conseguenze e sacrifici. Capimmo subito che eravamo pochi rispetto ai nemici, e sia per questo, sia per una scelta caratteriale di tutti noi decidemmo che non avremmo dovuto prendercela con i personaggi secondari della organizzazione cutoliana ma, invece, con quelli che ritenevamo i principali rappresentanti esterni di Raffaele Cutolo. E infatti proprio per lo squilibrio delle forze in campo non potevamo affrontare il loro gruppo ad armi pari; la nostra strategia, sin dall’inizio, fu quella di colpire i loro capi in modo da gettare sconcerto e sbandamento nelle truppe da cui essi dipendevano. (Interrogatorio del 4 marzo 1994)

    A dare l’idea dell’entità del conflitto è il numero di morti ammazzati tra Napoli e provincia. Tra il 1979 e il 1982 se ne contano 614: 100 nel ’79, 140 nell’80, 110 nell’81, 264 nell’82.

    Fedeli alla linea secondo la quale è preferibile abbattere pochi obiettivi strategici invece di spargere sangue colpendo nel mucchio, la nf punta dritto al cuore dell’impero nemico. Nel mirino finisce Vincenzo Casillo, oramai al vertice operativo della nco. ’O nirone è diventato potente e intoccabile da quando ha fatto da mediatore tra Cutolo e i politici che si sono impegnati per salvare l’assessore regionale Cirillo dalla condanna a morte delle Brigate Rosse. Gode di coperture ad altissimo livello e ucciderlo significa decapitare l’esercito cutoliano.

    Casillo viene assassinato con una modalità piuttosto insolita, l’esplosivo, che la nf utilizzerà solo in quel caso: il 29 gennaio del 1983 salta in aria non appena mette in moto la sua Volkswagen Golf parcheggiata nel quartiere Primavalle a Roma, città nella quale si è stabilito per seguire meglio gli affari con i colletti bianchi. Nella vettura c’è pure Mario Cuomo, un altro fedelissimo di Cutolo, che resta mutilato. Sarà poi ucciso un anno dopo.

    La mattina del 29 gennaio, quando il corpo di Casillo è un tizzone irriconoscibile, Carmine Alfieri toglie la cravatta nera che aveva indossato in segno di lutto nel giorno in cui avevano ammazzato il fratello: adesso la vendetta contro chi ha ucciso Salvatore è stata compiuta. E sull’attentato a Primavalle, spiegherà: «Sapevamo anche che, in particolare dopo il sequestro Cirillo, la nco aveva stabilito un controllo a tappeto dei cantieri, e che Casillo era il vero stratega di queste attività dell’organizzazione. Tuttavia, il nostro desiderio di ucciderlo non derivava tanto da sostituirlo in quella gestione quanto invece dall’odio nei suoi confronti per le responsabilità che aveva nell’omicidio di Salvatore, di Nino Galasso e altro, e per il pericolo che costantemente costituiva nei nostri confronti» (Interrogatorio del 4 marzo 1994).

    L’omicidio di Casillo e le modalità con le quali è stato cancellato dalla faccia della terra rappresentano, come detto, un evento che ribalta tutti gli equilibri criminali. La nco è ancora viva, ma non è più quell’armata invincibile che fino a poco prima ha seminato morte e terrore tra Napoli e provincia. Il botto che ha dilaniato ’O nirone ha stordito l’organizzazione cutoliana e trasformato Carmine Alfieri e la sua federazione nella camorra vincente che si appresta a ereditare non solo gli affari illeciti ma anche tutta la rete di collusioni che aveva contribuito a rendere quasi invincibile ’O professore:

    Il declino della nco fu dovuto sia al contrasto delle forze dell’ordine che alla nostra azione culminata con l’omicidio di Enzo Casillo. Contemporaneamente iniziò la progressiva fine di quelle che io ho chiamato coperture politiche, che erano assicurate ai cutoliani dal potere politico doroteo, di cui Antonio Gava era la massima espressione in Campania. Noi temevamo quelle coperture politiche in quanto esse assicuravano la forza di Cutolo più del suo braccio militare. Infatti, ci sentivamo in grado di contrastare, pur a prezzo di gravi perdite, il braccio armato di Cutolo, ma non eravamo assolutamente in grado di neutralizzarlo finché permanevano quelle coperture. Voglio a questo punto esprimere un concetto che ritengo importante: buona parte dei politici campani, certamente quelli che ho indicato come dorotei, proteggevano Cutolo in virtù della capacità di controllo militare del territorio e della conseguente forza di aggregazione del consenso elettorale che costui riusciva a esprimere; una volta iniziata la sconfitta di Cutolo, automaticamente la nostra organizzazione (con i suoi alleati) ereditò quelle stesse coperture politiche. Insomma, così come ci impossessammo del territorio, ci impossessammo anche di tutti i rapporti con i rappresentanti politici e dell’imprenditoria che prima avevano avuto rapporti con Cutolo. (Interrogatorio del 18 febbraio 1994)

    In una successiva deposizione del 30 dicembre 1997, il boss di Piazzolla aggiunge:

    In realtà noi sì, ci contrapponevamo militarmente a quella che era l’organizzazione cutoliana e forse insomma non ce la cavavamo neanche male, ma noi non avremmo potuto vincere il confronto fino a quando non avremmo reciso quei collegamenti e quelle protezioni di cui l’organizzazione cutoliana godeva per il suo intervento nel sequestro Cirillo e non avremmo potuto effettivamente controllare il territorio ed essere egemoni sull’organizzazione rivale fino a quando non avremmo potuto trarre a noi quegli imprenditori, quelle imprese, che si erano legati alla organizzazione cutoliana proprio in considerazione della possibilità che a questa era stata riconosciuta dalla Democrazia cristiana di gestire gli appalti per la ricostruzione del post-terremoto.

    Un indiretto ma consistente contributo all’ascesa della Nuova Famiglia lo offre lo Stato attraverso una poderosa azione repressiva nei confronti della nco. Il 17 giugno del 1983 la magistratura napoletana sgomina la banda di Cutolo emettendo 853 mandati di cattura; in manette finiscono non solo criminali di ogni ordine e grado ma anche molti insospettabili e qualche innocente come il giornalista Enzo Tortora. Alla base del maxiblitz ci sono le rivelazioni di una pattuglia di pentiti che però, si scoprirà molto dopo, in mezzo a tante verità hanno infilato pure una vagonata di clamorose bugie. Ad ogni modo quella retata dalle proporzioni gigantesche ha l’effetto di spianare la strada ad Alfieri e soci che non sono più una banda messa in piedi per difendersi dalla furia di Cutolo, ma un’organizzazione camorristica vera e propria. Ai pm napoletani, Alfieri dirà:

    Ciò che voglio ora rappresentare è che il nostro gruppo, inizialmente assai limitato, sul piano numerico (e ritengo che sia questo il motivo per il quale le vittime dello scontro con i cutoliani al nostro interno furono assai meno numerose rispetto ai nostri avversari) divenne via via più forte fino ad assumere una incontrastata egemonia nei confronti dei cutoliani. Episodi importanti in questo senso della nostra affermazione furono una serie di catture operate dei principali esponenti cutoliani penso per esempio all’arresto di Pasquale Scotti e dei suoi uomini nonché alla stessa operazione anticamorra del 1983 condotta dalla Procura di Napoli, nonché alcuni omicidi da noi effettuati prima di quello del Casillo sia a Poggiomarino sia a Pagani; nonché ancora la fuga del gruppo di gente cutoliana a Roma. (Interrogatorio del 23 febbraio 1994)

    La guerra agli amici di Cutolo

    Alfieri vuole però trasformare la vittoria in un trionfo: Cutolo è stato neutralizzato, ma restano da regolare i conti con le vecchie conoscenze che hanno dimostrato, al di là delle dichiarazioni di facciata, di parteggiare per ’O professore. Sul libro nero nella nf ci sono Lorenzo Nuvoletta e il suo alleato Valentino Gionta, boss di Torre Annunziata. La vendetta contro la famiglia mafiosa di Marano si consuma il 10 giugno del 1984 quando uno squadrone di sicari fa irruzione a Poggio Vallesana: il raid si conclude con l’assassinio di Ciro Nuvoletta, il fratello del padrino Lorenzo inseguito e giustiziato mentre tentava di scappare, e la morte di un innocente, Salvatore Squillace, abbattuto davanti a un bar dai colpi della nf esplosi durante la fuga.

    Gionta viene punito due mesi e mezzo dopo, il 26 agosto: un pullman carico di killer fa irruzione davanti al Circolo del Pescatore a Torre Annunziata, sparando all’impazzata. I morti sono otto, i feriti sette. In merito alla schiacciante vittoria sulla nco, Alfieri dirà ai magistrati:

    Ritengo però che il momento centrale della nostra affermazione sul territorio fu la alleanza stretta con Antonio Bardellino allorché questi, nel 1982, iniziò a prendere le distanze da Lorenzo Nuvoletta. Per chiarire questa situazione devo dire che maturò, in realtà contemporaneamente in me e nelle persone a me più vicine e nel Tonino Bardellino, il convincimento del doppio gioco che Lorenzo Nuvoletta portava avanti, per motivazioni di puro potere e di mantenimento e di equilibrio nello scontro apertosi fra noi e i cutoliani. In particolare, capimmo che la strategia di Lorenzo Nuvoletta come ho già detto era quella di indebolire Cutolo prima attraverso lo scontro con noi (ai quali, anche dopo le tregue raggiunte nell’unione del 1981 e 1982 diceva di buttare scoppettate sotto sotto per poi uccidere il Cutolo, che egli stesso ospitava e proteggeva e acquisire la egemonia camorrista sull’intera regione e sulla stessa città di Napoli). Capimmo altresì che questa non era una strategia solo della mente dei Nuvoletta, ma in realtà proveniva dagli stessi loro alleati di Cosa Nostra. (Richiesta di misura cautelare nei confronti di Agizza Antonio e altri)

    Alfieri, un monarca assoluto

    A questo punto gli unici protagonisti della scena camorristica in provincia di Napoli e in una parte del Salernitano sono Alfieri e il suo gruppo.

    Intanto, con l’affermazione sulla nco, il biscazziere e strozzino di Piazzolla di Nola ha radicalmente cambiato temperamento e obiettivi, come sottolineano i pm dell’antimafia nell’ordinanza Maglio emessa nell’ottobre del 1994:

    Carmine Alfieri non è, dunque, semplicemente un capo: è un monarca assoluto. La sua figura carismatica, ma anche la sua eccezionale accortezza e capacità di mediazione, riescono a tenere unita una struttura criminale di vastità e potenza, militare e politica, senza precedenti. Una struttura praticamente egemone in due province della Campania (Napoli e Salerno), strettamente alleata a quella dominante nel Casertano e con profonde ramificazioni negli altri territori della regione. Tutto ciò, va sottolineato, senza avere – a differenza dei Nuvoletta e dei loro alleati – alcun rapporto organico con la mafia siciliana. Carmine Alfieri per primo non riconosce altra autorità al di sopra di se stesso. Ad eccezione di Antonio Bardellino. È un rapporto speciale quello che lega Alfieri e Bardellino, fatto di reciproca stima, ma anche di subordinata ammirazione, quasi di devozione del primo verso il secondo. La vera forza di Alfieri risiede, ancor prima che nelle pur necessarie alleanze, anzitutto: nella sua personale capacità di controllare tutte le attività illecite della propria organizzazione, direttamente e attraverso precise deleghe ai propri fiduciari; nella coesione e nella fedeltà del gruppo storico raccolto intorno a lui. Tutti i fatti delittuosi – ha ricordato Domenico Cuomo – specie se finalizzati alla conservazione del sodalizio criminoso, venivano demandati alla insindacabile decisione di Carmine Alfieri, anche se lui faceva in modo (e ha continuato a farlo anche nel corso delle sue confessioni) che la decisione sembrasse collegiale. Anche se ha sempre evitato – e oggi se ne vanta – di sedere a capotavola nel desinare con i suoi affiliati.

    Di se stesso, il superboss invece dirà: «Io ho sempre impostato i miei rapporti sociali e politici sul rispetto per la persona umana. Non ho mai imbrogliato nessuno. Sono stato sempre modesto e rispettoso con tutti. Anche nel gruppo dei miei amici, benché sia stato da loro identificato come capo per un fatto di maggiore età, io non mi sono mai sentito il capo. Pensate che, come anche Pasquale Galasso potrà confermarvi, io non mi sono mai voluto sedere a capo tavola. La modestia e il rispetto per gli altri sono stati sempre la mia forza» (Interrogatorio del 18 febbraio 1994).

    Alfieri è dunque il capo indiscusso ma la nf, come Cosa Nostra, ha una sorta di commissione denominata direttivo. Alfieri ha l’ultima parola, ma la maggior parte delle decisioni viene presa da un ristretto numero di boss: Pasquale Galasso, Ferdinando Cesarano, Geppino Autorino, Marzio Sepe, Peppe Ruocco, Enzo Moccia, i fratelli Fiore e Luigi D’Avino, i fratelli Pasquale e Salvatore Russo. Spiegherà Alfieri:

    Posso dire che il nucleo storico che ho descritto si era dato alcune regole fondamentali tra le quali quelle di non praticare mai estorsioni a commercianti né traffici di stupefacenti né sequestri di persona. Queste erano le regole base che tutti quelli che entravano in alleanza con noi dovevano assolutamente rispettare; per il resto ciascuno si regolava per la sua zona con una certa autonomia, ovviamente con la costante che tutti ci univa il continuo scontro con i cutoliani (e successivamente con altri nemici). Era naturale che nelle occasioni in cui questo scontro lo richiedeva vi fosse un aiuto sia in uomini che in armi da parte di tutti i gruppi verso quello che, impegnato sul proprio territorio, ne avesse bisogno. (Richiesta di misura cautelare nei confronti di Agizza Antonio e altri)

    Per evitare di essere spazzati via com’è accaduto alla nco è indispensabile non ripeterne alcuni errori strategici. ’O ’ntufato vara una specie di codice di autodisciplina, chiamiamolo così, nel quale sono contemplate una serie di cose da non fare assolutamente, non certo per ragioni di etica criminale quanto di convenienza: la gente deve percepire la Nuova Famiglia come un’organizzazione su cui poter contare e non un nemico violento, famelico e che minaccia i suoi beni materiali e la sua tranquillità. Dunque, non si spaccia droga né si chiede il pizzo ai piccoli commercianti:

    La rinuncia a due lucrosi business non ha motivazioni nobili, ha solo lo scopo di assicurarsi il consenso sociale: i tossicodipendenti oltre a creare problemi di ordine pubblico con furti, scippi e rapine, possono diventare confidenti di carabinieri e poliziotti che sul territorio avrebbero così delle sentinelle disposte a fornire informazioni; il pizzo, invece, crea una certa impopolarità tra i commercianti che se lasciati in pace possono essere utili per assicurare appoggi e complicità. E poi, una popolazione protetta dall’invasione di spacciatori e drogati e che non paga tangenti, quando sarà il momento sarà ben felice di ricambiare dando il proprio voto ai politici indicati dal clan. È un ragionamento, quello di Alfieri, che dà i suoi frutti e che rappresenta un modus operandi diametralmente opposto a quello di Cutolo, che oltre a seminare il terrore aveva praticato estorsioni anche a piccoli imprenditori e modesti negozianti. ’O ’ntufato è assai più scaltro e guarda molto più lontano: infatti, punta dritto sugli appalti ben sapendo che strade, autostrade, ponti, fogne muovono centinaia e centinaia di miliardi. Per diventare dei nababbi basta intercettare anche una percentuale minima di questa montagna di soldi. E per dirottare una parte dell’enorme flusso di denaro nelle casse dell’organizzazione si seguono due strade: la prima è quella delle tangenti, che variano dal 3 al 5 per cento; la seconda, invece, prevede che a fornire i materiali e a realizzare i lavori (molto spesso dati in subappalto) siano imprese legate al clan. (De Stefano, op. cit.)

    Il meccanismo viene spiegato dallo stesso Alfieri nell’interrogatorio reso il 4 marzo del 1994:

    In realtà non avevamo nessuna necessità di compiere delle estorsioni; prelevavamo invece delle vere e proprie tangenti dai costruttori sulla base della potenza oramai raggiunta dalla nostra organizzazione, che era indiscussa. La cosa ci sembrava perfettamente naturale anche perché una quota del 10% e anche maggiore veniva prelevata fin dal primo momento, allorché il lavoro veniva assegnato a livello governativo, dai politici che avevano maggiore potere nel Napoletano… Voglio dire che era per noi normale pretendere una tangente sulle grandi ditte che avevano ricevuto la concessione ma anche sulle più piccole subappaltatrici, anche quest’ultima attività non sempre andava a buon fine per le cattive condizioni economiche di alcune di esse. […] La notizia dell’insediamento di un nuovo cantiere ci veniva portata spesso da quelli di noi che erano più in contatto con gli ambienti dell’edilizia e in particolare spesso dal Citarella o da altri; altre volte ci accorgevamo che stavano aprendo un cantiere nuovo e chiamavamo immediatamente il suo direttore. La percentuale media che chiedevamo era del 5% anche se poi, spesso, ci accontentavamo del 3%.

    A partire dalla metà degli anni Ottanta nella provincia di Napoli non c’è appalto pubblico che non passi attraverso la Nuova Famiglia che incassa sontuose tangenti per la realizzazione di strade, ponti, ferrovie, università. Laddove è possibile, invece del pizzo i camorristi pretendono che a eseguire i lavori siano aziende a loro riconducibili. Tutto avviene attraverso una fittissima rete di rapporti incrociati con ambienti politico-imprenditoriali. Le amministrazioni locali sono quasi tutte indirettamente controllate grazie a sindaci e assessori collusi o compiacenti. Insomma, il territorio è presidiato dalle truppe di ’O ’ntufato. Forze dell’ordine e magistratura oppongono una resistenza a corrente alternata, rallentate dalle coperture di alto livello di cui gode Alfieri. Gli arresti o i sequestri vengono spesso evitati perché sul libro paga ci sono pure alcuni carabinieri e qualche sottufficiale della Guardia di Finanza, tutta gente che qualche anno dopo finirà in manette.

    L’ex strozzino di Saviano nel giro di pochi anni mette in piedi un’organizzazione in grado di fatturare cifre da holding internazionale: secondo il settimanale economico «Il Mondo», nel 1991 la Nuova Famiglia gestisce un patrimonio di 1500 miliardi e ’O ’ntufato risulta essere diventato più ricco e potente dei suoi omologhi di Cosa Nostra e della ’Ndrangheta.

    Pur essendo un latitante disperatamente ricercato dalle forze dell’ordine, Alfieri nei suoi covi (messi a disposizione da gente insospettabile) convoca periodicamente imprenditori, sindaci, senatori, medici, architetti, ingegneri; tutti diranno che non si sono sottratti perché temevano ripercussioni nei loro confronti e delle loro famiglie. Indubbiamente c’era di che aver paura, ma è anche vero che il rapporto con quel superlatitante consentirà a molti di loro arricchimenti e carriere altrimenti impossibili. Intanto c’è chi si rivolge ad Alfieri per ottenere un lavoro, chi per inseguire un sogno; come, ad esempio, un nipote di Pasquale Galasso che aspira a fare il calciatore ed entra a far parte delle giovanili del Napoli.

    Tutto fila liscio, sebbene forze dell’ordine e magistratura non stiano esattamente con le mani in mano. In un’informativa del centro Criminalpol Campania del 29 gennaio del 1990 si legge che, dalle intercettazioni telefoniche e ambientali, «risulta in modo inequivocabile la posizione di assoluta preminenza di Alfieri Carmine all’interno del gruppo rispetto a tutti gli affiliati che, a cominciare da Autorino Giuseppe, lo riconoscono come il loro indiscusso, temuto e riverito capo. Da alcune telefonate emerge, tra l’altro, la frenetica attività di numerosi adepti alla consorteria criminosa in vista della attesa e preannunciata assoluzione dell’Alfieri in grado di appello, nel processo per la nota strage di Torre Annunziata, assoluzione poi effettivamente pronunciata il 29/1/1990 e del conseguente ritorno del capo alla piena libertà di manovra». La Criminalpol sottolinea, inoltre, che gli uomini di Alfieri controllano pure la centrale sip di Piazzolla di Nola, tant’è che hanno scoperto tempestivamente che erano intercettati i telefoni di Giuseppe Autorino e di altre persone con le quali Alfieri si sentiva ogni giorno. Il rapporto evidenzia inoltre il controllo totale delle attività illecite, comprese le più insignificanti, e la fitta tela di rapporti con esponenti delle amministrazioni locali della zona.

    Mentre la Criminalpol mette nero su bianco il nuovo profilo di Alfieri, il capo della nf riporta una vittoria sul piano giudiziario che lo rende inattaccabile. Dopo la condanna all’ergastolo in primo grado, ’O ’ntufato viene assolto in appello dall’accusa di essere uno dei mandanti della strage al Circolo del Pescatore di Torre Annunziata. Nella motivazione, i giudici scriveranno:

    Del resto la difesa, riportandosi alle suddette sentenze assolutorie, ha prospettato con argomenti concreti e talora sconcertanti come la fama dell’Alfieri dipenda in gran parte da una immagine distorta della realtà, insinuatasi nell’opinione pubblica e recepita anche nei rapporti di pg, attraverso l’attribuzione di fatti riguardanti i suoi omonimi, il sovrapporsi di notizie vere e di notizie false con inevitabili ingigantimenti e travisamenti, le delazioni di confidenti e pentiti, le supposizioni, le congetture ecc.; egli è stato confuso con i fratelli Michele e Vincenzo Alfieri, abitanti come lui a Piazzolla di Nola e implicati in gravi reati; gli sono state attribuite condanne che non figurano nel suo certificato penale, sono stati indicati come suoi fratelli Biagio Alfieri, ucciso a Barra nel 1981 e Felice Vincenzo Alfieri, ucciso dalla nco nel 1978 (con conseguente pretesa di sua adesione alla nf) laddove trattavasi di persona completamente estranea alla sua famiglia. In realtà i suoi modesti precedenti penali, mai attinenti a reati tipici di associazione per delinquere (estorsioni, sequestri di persona, contrabbando, traffico di stupefacenti), la limitatezza del suo patrimonio come accertato in numerosi rapporti della GdF, la sua attività del tutto lecita di intermediazione di compravendita di terreni e di finanziamento o partecipazione all’attività imprenditoriale di terzi, con la conseguente apparenza di notevoli movimenti finanziari nei suoi conti correnti che non corrispondevano a effettiva ricchezza, come riconosciuto nelle predette sentenze assolutorie, tutto ciò sembra avvalorare l’esclusione di una sua appartenenza a un clan camorristico, in conformità del dato processualmente acquisito a onta delle mere convinzioni, congetture, sospetti che gravano sul personaggio. (Brano riportato nella richiesta di misura cautelare nei confronti di Agizza Antonio e altri)

    La motivazione non convince i pm che firmano l’ordinanza Maglio: a loro parere i giudici hanno ignorato del tutto alcuni episodi dai quali si evince che su Alfieri non circolavano congetture o notizie false ma vicende concrete, come ad esempio l’assassinio del fratello Salvatore. Ecco cosa scrivono i pm nell’ordinanza:

    A questo punto vanno evidenziati i dati su cui si fonda il giudizio assolutorio, perché quel clamoroso verdetto dovrà essere tenuto presente quando la valutazione sarà portata sulle denunciate collusioni tra il clan Alfieri ed esponenti delle istituzioni. Va in primo luogo rilevato come la Corte di Assise di Appello mostri di ignorare la parentela, in quanto fratelli, tra Carmine Alfieri e Salvatore Alfieri, ucciso, come si è detto, in un agguato di camorra il 26/12/1981. Tale omicidio costituiva un indubbio elemento per ritenere il coinvolgimento della famiglia Alfieri nella lotta per il controllo del territorio e per quella conseguente adesione di Carmine Alfieri alla nf in contrapposizione violenta con la nco di Raffaele Cutolo. Quanto ai precedenti penali dell’Alfieri, essi non apparivano affatto modesti, atteso che fra di essi risaltavano: estorsione aggravata in concorso (con condanna a otto mesi di reclusione), detenzione abusiva di armi (con condanna a sei mesi di arresto), oltre all’assoluzione per insufficienza di prove in relazione all’omicidio Glorioso. Peraltro, già fin dal 01/07/1985, e quindi ben prima della sentenza di appello per la strage, il Tribunale di Napoli – Sezione per l’applicazione delle Misure di Prevenzione, aveva sottoposto Carmine Alfieri alla sorveglianza speciale della Pubblica Sicurezza. (Richiesta di misura cautelare nei confronti di Agizza Antonio e altri)

    I nemici interni e gli spioni

    Ad ogni modo, e a prescindere dalle diverse valutazioni, negli ambienti criminali l’assoluzione amplifica una convinzione già granitica: e cioè che ’O ’ntufato abbia raggiunto un tale livello di potenza militare ed economica da essere diventato invincibile.

    Ma come succede in qualsiasi ambito, pure dentro la nf c’è qualcuno che smania dalla voglia di fare carriera e scalzare il capo. È un azzardo, considerando il rispetto e l’ammirazione di cui gode Alfieri all’interno dell’organizzazione, e ci vuole davvero un coraggio da leone per sfidare ’O ’ntufato. Un coraggio che non manca a Peppe Ruocco, che ha la stoffa del criminale e che durante la guerra a Cutolo si è distinto per la sua audacia partecipando a numerosi agguati. Ha preso parte ai raid organizzati per vendicare la morte di Salvatore Alfieri e Nino Galasso, e per questo si è meritato la stima incondizionata di tutti. Lo stesso Alfieri lo porta su un palmo di mano: «Ruocco era una persona validissima, cioè era uno non dico dei più validi, ma tra i più validi. Per questo fatto tendevo pure ad affezionarmi a lui».

    Ruocco non si sente inferiore a nessuno e comincia a comportarsi come se non dovesse rendere conto ad altri:

    Commette un omicidio senza avvertire i vertici dell’organizzazione, crea un gruppo tutto suo fatto di pregiudicati dal discutibile pedigree, truffa alcuni commercianti, si atteggia a capo clan, si presenta in ritardo alle riunioni convocate da Alfieri, tiene dei summit a casa sua con malavitosi estranei alla nf. E poi consente che alcuni delinquenti a lui legati tamponino con la loro auto la vettura con a bordo Antonio Alfieri, figlio del superboss, trascinandolo per almeno cinquanta metri nella piazza di Piazzolla. In più di una occasione ’O ’ntufato lo richiama, pregandolo di tenere un

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