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Il Figlio e lo Spirito: Viaggio nel tempo della Bibbia Vol. IV
Il Figlio e lo Spirito: Viaggio nel tempo della Bibbia Vol. IV
Il Figlio e lo Spirito: Viaggio nel tempo della Bibbia Vol. IV
E-book893 pagine9 ore

Il Figlio e lo Spirito: Viaggio nel tempo della Bibbia Vol. IV

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Dal IV Vangelo:
“Do a voi un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come ho amato voi, anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo tutti vi riconosceranno come miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri”.
Si tratta dunque di individuare “quel” particolare tipo di amore come segno distintivo di riconoscimento e di appartenenza. La chiesa cristiana non nasce come un organismo chiuso e opaco rispetto al mondo esterno, deve voler farsi leggere dal mondo, essere riconosciuta e riconoscibile attraverso la misura di quell’amore che ci indica il Gesù di Gv XIII, 34-35, con l’umiltà e la contrizione che derivano dalla distanza e con la fiducia nel coraggio profetico che potrebbe colmarla.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ago 2017
ISBN9788899739157
Il Figlio e lo Spirito: Viaggio nel tempo della Bibbia Vol. IV

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    Anteprima del libro

    Il Figlio e lo Spirito - Luca Ceccotti

    PARTE IV

    Il Figlio e lo Spirito

    di Luca Ceccotti

    Edizioni Giorgione

    ISBN 9788899739157

    © 2017 Edizioni Giorgione

    www.edizionigiorgione.com

    edizioni.giorgione@gmail.com

    Proprietà riservata. Nessuna parte del presente libro può essere riprodotta, memorizzata, fotocopiata o riprodotta altrimenti senza il consenso scritto dell'editore.

    A mia madre, non ancora sorpresa dai suoi novant'anni

    CAPITOLO I

    Dove nacque l’annuncio: segnali dalla storia

    A - IL CONCILIO DI JAMNIA

    Cominciamo la quarta e ultima tappa (anche se non sarà, Dio volendo, il nostro ultimo libro sull’argomento) del nostro viaggio nel tempo della Bibbia praticamente dalla fine, intesa in termini appunto cronologici. Notoriamente gli scritti neotestamentari ritenuti canonici dai cattolici romani (e, in generale se pure con qualche limitata eccezione, dalle principali confessioni cristiane) sono stati scritti e/o redatti nella loro forma più o meno definitiva nella seconda metà del I sec., con qualche probabile appendice nei primi anni del II: lì si concluderà il nostro viaggio temporale attraverso i testi e gli eventi di cui ci occuperemo, e proprio in quel tempo storico alcuni studiosi hanno ipotizzato lo svolgersi di un’assise rabbinica farisaica cui è stato attribuito il nome di Concilio di Jamnia.

    L’espressione dunque, oltre alla coordinata temporale ipotizzata dagli studiosi, ce ne indica anche una geografica, appunto Jamnia – Iamnia in latino o anche Yv’na in ebraico – cittadina sulla costa mediterranea sud occidentale dell’attuale Stato di Israele, a un’ottantina di chilometri da Gerusalemme.

    Non sappiamo con certezza storica se questo Concilio si sia realmente tenuto: abbiamo infatti parlato di ipotesi, in quanto le opinioni degli studiosi divergono, nel senso che l’opzione conciliare fu avanzata per la prima volta da uno studioso ebreo tedesco del XIX sec., Heinrich Graetz, e fu condivisa soprattutto fino agli anni Sessanta del secolo scorso, quando molti hanno cominciato a metterla seriamente in dubbio.

    Vi sono tuttavia tre elementi ritenuti certi, in modo condiviso, dalla comunità scientifica:

    A Jamnia esisteva in quegli anni una scuola farisaica fondata dal famoso rabbino Johanan ben Zakkai (o comunque da suoi discepoli).

    In quegli anni trovò la sua definitiva sistemazione il canone ebraico degli scritti biblici: sistemazione sia nel senso di perimetrazione tra i testi che sporcano le mani e quelli che, al contrario, non le sporcano (in sostanza tra i canonici/ispirati e i non canonici), sia di una sorta di gerarchia interna tra i vari scritti in virtù della loro maggiore importanza in termini teologici, con la preminenza complessiva dei libri della Torah/Legge rispetto agli altri. Il problema dell’interpretazione della Legge era infatti, in quei tempi, l’asse portante di tutti i dibattiti teologici e dottrinali che attraversavano Israele, sia in Giudea che nel resto della Palestina e, sia pure con accentuazioni diverse, nelle città e nei ghetti della vastissima diaspora.

    Fermiamoci un attimo per un inciso sulle espressioni rabbiniche che abbiamo prima citato e che sintetizzano il dibattito in merito alla divinità dei testi di quello che viene popolarmente chiamato Antico Testamento, ma che più correttamente in ottica cristiana (particolarmente di ispirazione paolino-lucana) dovremmo definire prima Alleanza.

    Forse con qualche sorpresa per chi ci legge, le due coppie di definizioni sopra riportate (sporcano le mani/ispirati ovvero non sporcano le mani/non ispirati) non sono state invertite a causa di qualche sbadataggine sintattica: vanno lette proprio così! Con un paradosso tutto ebraico – e tutto... rabbinico – si è voluto dire che un testo che contiene veramente e profondamente la Parola pronunciata, pur tramite parole umane, dall’impronunciabile YHWH non può essere sfogliato come qualunque altra opera dell’ingegno letterario, poiché qualcosa di sacro e ultra-umano rimarrà attaccato alle mani di chi lo apre, mani che andranno quindi purificate dopo la lettura: anche questo sembra un paradosso, ma cercheremo di capirne il significato.

    Altre volte abbiamo incontrato, fin dagli scritti più antichi, il complicato gioco di sponda tra purità legale/rituale e contatto col divino. In tale ottica l’espressione dello sporcare le mani – come detto teologicamente e poeticamente paradossale – in fondo rappresenta un punto di equilibrio tra l’ancestrale paura del vedere o udire Dio e l’anelito e il desiderio di ascoltarne la voce e scoprirne la volontà.

    Per il primo aspetto si pensi – e sono solo due esempi tra i tanti possibili – all’episodio delle tavole della legge sul monte Oreb, in base al quale a chi avesse anche solo toccato la montagna durante la teofania terribile di Jhaweh era promessa morte certa... o al povero soldato Uzza’h che muore fulminato per aver cercato di sorreggere l’arca dell’alleanza, pericolante sulle travi portate da una coppia di buoi (2Sam VI, 7).

    In relazione poi alla ricerca della parola/volontà di Dio possiamo fare riferimento a una sterminata serie di episodi relativi a profeti, condottieri, regnanti, ecc. che hanno biblicamente (nel senso che ci riferiamo e limitiamo al testo biblico) cercato, con alterne fortune, di ascoltare la sua voce. Ebbene tutti loro, in qualche modo, sono stati sporcati da questo contatto: ad alcuni, causa una qualche forma di impurità, Dio ha voltato le spalle, come al tragico re Shaul/Saul; ad altri ha invece aperto il libro del suo volere, confermando o rinnovando il patto di alleanza stipulato fin dai tempi di Abraham. Eppure, anche in questi casi fortunati, un/a qualche segno/ferita è rimasto/a... e tanto più profondo/a e indelebile quanto più impegnativo è stato il contatto: su tutti ricordiamo lo straordinario episodio narrato in Gn XXXII, 25-33 e da noi commentato nel primo volume. Lì Giacobbe ha un incontro agonistico con un mala’k/delegato di Jhavè al termine del quale è benedetto e diviene Israele (ossia il capostipite del popolo che Dio si è scelto), ma riporta anche una ferita incurabile laddove il Signore ha impresso il suo segno.

    Ecco allora perché, nell’immagine elaborata dai rabbini del I sec. d.C., i libri ispirati vanno maneggiati con molta cura e le mani successivamente lavate con rituale attenzione: quella sporcizia è infatti la nostra, il portato inevitabile dell’umana indegnità di fronte alla maestà del Signore per cui, quando, per così dire, prendiamo in mano ciò che gli appartiene, ciò che è sua Parola, inevitabilmente essa ci ferisce e ci macchia, nel senso che mette a nudo le nostre macule.

    Il terzo punto fermo, relativo agli accadimenti a cavallo tra la fine del I sec. d.C. e l’inizio del II, consiste nel fatto che in quell’arco temporale fu definitivamente sancita la frattura tra i Giudei e quelli che abbiamo altre volte definiti i giudeo-cristiani: il che è come dire il divorzio definitivo (anche se in s. Paolo troviamo una speranza escatologica diversa e a tutt’oggi delusa) tra Ebraismo e Cristianesimo. Da allora i componenti delle ekklesie che seguivano la via del profeta di Nazareth, anche di quelle più legate al tessuto storico-culturale della Palestina, cessarono completamente di considerarsi una setta o una corrente dell’Ebraismo: ormai o si era Giudei circoncisi o si era cristiani, e così è stato per secoli e secoli, fino ai giorni nostri.

    Secondo quanto ricostruito dagli studiosi fu negli anni successivi alla distruzione del Tempio – all’epoca del rabbino capo della sinagoga di Gerusalemme Gamailel II, quindi negli anni Settanta/Ottanta del I sec. d.C. – che prese corpo la cosiddetta dodicesima benedizione, chiamata del Birkat ha minim: si trattava in particolare della benedizione (in questo caso da intendersi come maledizione) genericamente invocata sugli eretici e sugli apostati. La stessa faceva parte dell’insieme delle diciannove benedizioni/maledizioni rituali che venivano lette durante le cerimonie sinagogali nel corso dell’anno liturgico e alcune di esse avevano origini assai antiche, pur se erano state in genere riformulate, soprattutto dalle scuole farisaiche del I sec.

    La versione della dodicesima Birkat risalente a quegli anni può essere così tradotta: "Che per gli eretici non ci sia speranza; sradica subitamente ai nostri giorni il regno dell’orgoglio; e periscano in un istante i nozrim e i minim; siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano annoverati. Benedetto sei tu che pieghi i superbi."

    Ebbene il termine sottolineato (nozrim) si riferisce proprio ai cristiani o, per meglio dire, ai giudeo-cristiani: la parola riporta forse l’eco del toponimo Nazareth o anche di nazireo, come abbiamo avuto occasione di spiegare nel secondo libro di quest’opera.

    In varie parti del nostro precedente lavoro abbiamo peraltro già avuto modo di anticipare (almeno in parte) la messa a fuoco dei principali elementi di tensione tra i Giudei che possiamo definire ortodossi e quel particolare gruppo/setta che seguiva una Via il cui percorso era segnato dal riconoscimento di Gesù di Nazareth come definitivo e pieno Messia, inviato dal Signore e morto in espiazione per i peccati del popolo (elemento di frizione sarà anche il diverso modo di intendere il termine evidenziato e sottolineato, tra Giudei e giudeo-cristiani... ) poi risorto dalla potenza di Dio e asceso alla sua destra. Egli poi, in un giorno al tempo stesso imminente e indefinito, sarebbe tornato per prendere possesso del Regno che il Padre gli ha preparato. In attesa di questo ritorno si compiono i giorni dello aghios pneuma, dello Spirito Santo che in un certo senso ha il compito di traghettare i fedeli credenti tra la prima e la seconda venuta.

    Per adesso limitiamoci a sottolineare un aspetto che si ricava, almeno indirettamente, dalla Birkat ha minim ovvero l’annoverare i cristiani tra i superbi, tra i sudditi che abitano il regno dell’orgoglio.

    Per capire la portata di questa definizione – che a noi sembra paradossale essendo abituati a pensare a Cristo e al Cristianesimo in termini di servizio, umiltà, amore per i poveri sia in spirito che in carne – dobbiamo tener presenti due elementi scandalosi che resero fin da subito (probabilmente già fin da quando Gesù era ancora in vita, durante la sua predicazione accompagnata da segni e oracoli ) incompatibile la forma che la pianticella neonata stava prendendo con il terreno nel quale era stata seminata.

    In primo luogo dobbiamo sottolineare ancora una volta la questione dei gentili, dei greci come erano genericamente chiamati i non ebrei, i non circoncisi.

    Non ritorniamo sulla questione, già affrontata in passato, limitandoci a precisare che la cultura greco-romana (come possiamo cominciare a definirla proprio a partire dalla seconda metà del I sec. a.C.) era vista dagli Ebrei come blasfema principalmente in relazione al peccato di superbia consistente nel considerare entità divine gli imperatori romani, e per conseguenza emanazioni semidivine i loro vassalli locali, quali il famoso Erode il Grande, durante il cui regno nacque Gesù.

    Inoltre, e più in generale, gli Ebrei tradizionalisti ritenevano adamiticamente peccaminosa (nel senso del peccato originale di Adamo) la pretesa culturale della grecità di fondare un umanesimo nuovo, un umanesimo tutto umano, con sullo sfondo gli evanescenti (e, oltretutto, molteplici) dèi olimpici in tutt’altre faccende affaccendati. Non era perciò accettabile che degli Ebrei come i primi cristiani, e forse Gesù stesso, si aprissero in-condizionatamente verso i Greci, cioè senza nemmeno chiedere loro di divenire, come passo propedeutico, proseliti circoncisi: ricordiamo – e ne parleremo ancora più avanti – la già descritta polemica tra s. Paolo e la Sinagoga proprio su tali questioni, probabilmente già a partire dagli albori degli anni Quaranta.

    La polemica non fu in verità solo con la Sinagoga; abbiamo infatti già visto come essa fosse anche una polemica intracristiana che ha attraversato tutto il primo secolo: probabilmente al tempo della Birkat a minim e di Jamnia i paolini avevano preso il sopravvento e ciò contribuì ad approfondire il solco con l’Ebraismo.

    L’altro aspetto che vogliamo sottolineare – sempre, lo ricordiamo, per dar conto del marchio di superbia impresso dagli ebrei ortodossi sui giudeo-cristiani – ci porta dalle questioni culturali e terrestri verso i cieli aperti e sconfinati della teologia ultima, quella che davvero cerca di affrontare le tematiche estreme della natura stessa del divino e del suo rapporto con l’umano.

    Parliamo, ovviamente, della umanità/divinità del Cristo, concepibile secondo la visione trinitaria e alla luce insostenibile della incarnazione.

    Questi temi non li affronterò adesso e subito, essendo in pratica il core di questo quarto volume: possiamo però già intuire quella insostenibilità che abbiamo sopra evidenziato. Davvero di fronte a un ebreo anche dei nostri giorni – ma anche di fronte a un musulmano (pur di aperte visioni) dei nostri tempi – certe argomentazioni proprio non si possono sostenere, pena un amichevole sorriso tra il divertito e il moderatamente scandalizzato... almeno nei nostri salotti interculturali, dove per fortuna si può discutere senza inconvenienti di natura fisica, diversamente ad altri luoghi del tempo e/o della geografia. Attenzione però: non si creda che queste questioni così celesti siano da confinarsi solo nel recinto della speculazione teo-filosofica fine a se stessa; se così fosse, lungo il corso della storia umana non sarebbe accaduto ciò che è accaduto. Queste teorie e queste Teo-logie disegnano anche visioni dell’uomo e del suo destino (sociale, politico, economico, psico-esistenziale, ecc.) diverse, divergenti e spesso conflittuali, pur sotto l’unico ombrello di un unico Dio – secondo chi vi crede – o sotto l’unico cielo verde e azzurro che circonda e sovrasta questo granellino di polvere perduto nell’immensità di un creato creatosi da sé, secondo chi ha altre convinzioni.

    Dunque questo terzo aspetto, tra quelli emersi ai tempi di Jamnia, è ovviamente il più rilevante dal punto di vista di noi cristiani, intendendo il noi come riferito a quei miliardi di cittadini che nel mondo sono nati, vissuti o viventi, in luoghi del pianeta la cui cultura è impregnata di Cristianesimo o, in omaggio a quei giudeo-cristiani emarginati a Jamnia o altrove, di giudeo-cristianesimo.

    Occhieggiando al – e al tempo stesso bypassando il – noto dibattito sulle radici (giudeo)cristiane dell’occidente e/o dell’Europa possiamo dire che, se quella pianta/occidente ha svariate radici, come a mio avviso giustamente sostengono molti studiosi pensando alla filosofia di Platone e Aristotele piuttosto che al diritto Romano (e altro ancora) non di meno i segni materiali e immateriali che questo nostro occidente rimanda a chi lo osserva con occhi non del tutto disattenti e superficiali sono profondamente connotati dal e realmente leggibili con il codice interpretativo che ci viene dalla Bibbia intesa sia come testo in quanto tale (creduto o meno Parola di Dio) che come insieme del plurisecolare lavorio esegetico, ermeneutico, teologico, filosofico, poetico, artistico, politico, edilizio-architettonico, ecc. che va avanti da circa tremila anni a questa parte.

    Sappiamo che nella storia del pensiero di questo stesso occidente ci sono, ci sono stati e ci saranno ancora pensatori che riconoscono tutto questo ma lo hanno ritenuto, lo ritengono e lo riterranno una gabbia, magari dalla quale dovremmo liberarci. Alcuni di loro vedono peraltro nei segni di questa – nuova ed ennesima – modernità interculturale i prodromi di un universalismo che svellerà le sbarre di questa (supposta) gabbia, cosa che per altri rappresenterebbe invece una iattura, un’evenienza contro cui combattere una guerra di resistenza simile a quella dei Maccabei e del loro (ipotizzato) ideologo Daniele, di cui abbiamo scritto nel precedente volume. In ogni caso cerchiamo intanto di capire il panorama all’interno di questa gabbia/non gabbia, di questo oggi interpretabile solo alla luce del passato, cioè della Storia, di cui la Bibbia/Libro e la Bibbia/Codice sono imprescindibili elementi di conoscenza.

    Fatti ed eventi in Palestina

    È intorno al 100 d.C. che si consuma la frattura definitiva tra Ebraismo e Cristianesimo, frattura che segna anche la nascita di una nuova religione che fino ad allora non c’era... o almeno che molti avevano ritenuto di poter annoverare e mantenere nell’alveo del Giudaismo. Per questi giudeo-cristiani Gesù era sì un Mashìach dal volto diverso da quelli di Mosè, di Elia e di Davide ma in fondo, e in qualche misura, era anche loro erede diretto, più figlio di quella Storia che non genitore di un’altra. Si trattava insomma più di un figlio di Davide e figlio dell’uomo che non del figlio di Dio o addirittura – scandalo degli scandali e degno del marchio di superbia impressogli dai rabbini farisei – Dio incarnato.

    Sul declinare del primo secolo ormai le correnti che possiamo definire giudeo- cristiane, nel senso sopra precisato, si vanno estinguendo e, simbolicamente, l’insegnamento di Paolo di Tarso (risalente agli anni Cinquanta) prende il sopravvento su quello di Giacomo, l’autore della prima delle cosiddette lettere cattoliche e personalità di rilievo della prima Chiesa cristiana di Gerusalemme. L’universalismo a-etnico di Paolo (pur egli stesso autodefinitosi, nella lettera ai Filippesi, ebreo figlio di ebrei) risulterà vincente e ciò porterà ( a dispetto delle speranze dello stesso apostolo) a un divorzio-ripudio da cui nascerà una nuova famiglia religiosa.

    Dunque, facendo un paio di passi a ritroso nel tempo, lasciamo Jamnia e i farisei impegnati nel (supposto) concilio rabbinico e cominciamo col tracciare – ovviamente per sommi capi – il quadro storico-politico- culturale della Palestina dall’inizio del regno di Erode il Grande fino a ciò che avvenne alcuni decenni dopo Jamnia, ovvero la fine di Gerusalemme come città ebraica.

    B - DA ERODE IL GRANDE ALLA DISTRUZIONE DEL TEMPIO

    Al termine della tappa lungo la strada del tempo della Bibbia che chiudeva il nostro precedente volume, avevamo lasciato la Palestina, ormai in via di stabilizzazione sotto il dominio romano, all’epoca in cui un ignoto ebreo alessandrino scrisse e pubblicò in greco il libro della Sapienza, il più recente dell’A.T.: si tratta di un’opera la cui datazione spazia tra il 30 e il 20 a.C. e siamo quindi a pochi anni di distanza dalla nascita di Gesù di Nazareth.

    La ferma presa del potere da parte dei romani aveva in qualche misura rischiarato l’orizzonte della regione, superando il torbido periodo delle guerre intragiudaiche tra fazioni politiche e scuole rabbiniche, cui abbiamo fatto cenno nello scorso volume.

    La Palestina, come i romani avevano chiamato l’insieme di quelle terre riferendosi ai Pheleset/Filistei tra le varie popolazioni che la abitavano, era suddivisa in tre entità distribuite da nord a sud: Galilea, Samaria e Giudea, a loro volta amministrate da sottoregnanti delegati dai romani: vi erano poi entità statuali minori – in genere confederazioni di piccole città – governate per lo più da tirannelli locali.

    Sul piano linguistico-culturale possiamo dire sommariamente che se da un lato l’aramaico (con varianti dialettali) era l’idioma parlato come lingua madre dalla generalità della popolazione, la conoscenza del greco come seconda lingua era in genere appannaggio del ceto politico e degli addetti al grande commercio, oltre che di parte delle élites intellettuali.

    Nel complesso l’ellenizzazione – quel processo culturale su cui ci siamo soffermati nel volume precedente – riguardava in modo pregnante la parte settentrionale (la Galilea) mentre nel sud, ovvero nella Giudea, gli usi e costumi della grecità – ormai impastata con l’elemento latino – si trovavano in interazione dialettica con il mondo teologico-sapienziale di matrice ebraica più ortodossa.

    Centro culturale e politico-decisionale di coloro che erano e volevano rimanere gli eredi ortodossi dello Jhavismo più tradizionale e arcaico, della religione dei Padri basata sulla Legge e sui Profeti, era il Sanhedrin/Sinedrio. Si trattava di un’assise formata tradizionalmente da settantuno membri, i più influenti del clero della Giudea e di cui facevano parte anche esponenti delle entità ebraiche della diaspora: a capo vi era il Kohèn gadòl/ Sommo sacerdote – in pratica l’erede della grande tradizione sacerdotale dei leviti che affondava le sue radici nel capostipite Aronne – con funzioni di primus inter pares nella giudicatura delle cause. Nell’Israele più antico la carica era ereditaria e si tramandava di padre in figlio mentre con la perdita progressiva dell’autorità politica, a partire dal periodo romano, i sommi sacerdoti erano di nomina regia: ad esempio il citato Erode il Grande (37 a.C.-4 a.C.) nominò non meno di sei sommi Kohèn.

    In pratica il Sinedrio aveva compiti di amministrazione e interpretazione della legge ed era luogo di discussione e di confronto: il dibattito teologico e dottrinale sull’interpretazione della Torah, assai fitto in quegli anni in tutta la Palestina, prima o poi transitava tra i banchi dell’assise gerosolimitana che aveva voce in capitolo definitiva per pronunciarsi in merito alla halakah, cioè alla correttezza dottrinale di sentenze, opinioni, interpretazioni sia di natura teorica che pratico-regolativa.

    Come ben sappiamo anche da fonti neotestamentarie (in sostanza dai Vangeli) il Sanhedrin aveva non di meno rilevanti compiti in veste di organo giudicante sulle questioni processuali fondamentali, quelle che noi definiremmo di natura penalmente grave: sembra tra l’altro che non sia del tutto vero quello che è riportato da alcune fonti (compreso Gv XVIII, 31) ovvero che il Sinedrio non avesse potere di condanna a morte, posta unicamente nelle mani del governatore Romano. Più probabilmente – come peraltro si intuisce da quanto riportato dai sinottici – la necessità di una sorta di ratifica da parte del potere imperiale romano riguardava alcuni periodi dell’anno, particolarmente quando a motivo di occasioni liturgiche Gerusalemme veniva invasa da una folla di pellegrini delle più svariate etnie e cittadinanze; l’imputato di turno avrebbe potuto risultare un civis romanus e quindi soggetto a una legislazione e a un codice procedurale particolare che faceva in effetti capo a Cesare, come ricorderà chi ha letto gli Atti di Luca a proposito delle vicissitudini giudiziarie del civis romanus Paolo di Tarso.

    Erode il Grande, come abbiamo sopra riportato, divenne re della Giudea (da intendersi nell’accezione ampia, comprendente anche il nord Galilaico, la Batanea e l’Iturea) nel 37 a.C., prima per incarico di Marco Antonio e successivamente di Ottaviano Augusto, essendosi schierato dalla parte di quest’ultimo (risultata, come noto, quella giusta) quando questi entrò in conflitto con Marco Antonio.

    Pur non essendo di stirpe ebraica Erode aveva una visione alta e imponente non solo di se stesso ma anche delle terre che si trovò a governare, per cui fu un notevole edificatore di monumenti, palazzi, fortificazioni e intere città, tra cui la famosa Cesarea Marittima, lungo la costa del Mediterraneo.

    L’opera per la quale è maggiormente ricordato rimane comunque il Tempio di Gerusalemme: non si trattò di una costruzione ex novo, cioè di un terzo Tempio, bensì di una restaurazione con ampliamento e abbellimento del secondo Tempio, quello ultimato sul finire del VI sec. a.C. a cura dei rimpatriati dall’esilio babilonese.

    Anche se la cosa può suonare strana – leggendo la data di morte del sovrano, ovvero il 4 a.C. – è ritenuto pressoché certo che fu durante il suo regno che nacque Gesù di Nazareth, malgrado che la nascita del Cristo sia quella da cui viene fatto iniziare il conteggio degli anni della nuova era, quelli chiamati appunto dopo Cristo (d.C.) o, in Inglese, after Christ (a.C.) per distinguerli da quelli classificati, nella tradizione latina, come ante Christum natum/Avanti Cristo (a.C.) ovvero before Christ (b.C.).

    Senza addentrarci nel complicato gioco dei riscontri incrociati effettuati dagli studiosi e dagli storici professionisti sembra che Gesù sia nato tra il 4 e l’8 a.C., con una preferenza per gli anni 6/7: dal momento che la data più probabile per la crocifissione sembra attestarsi intorno al 30 d.C. viene così a cadere un altro numero tradizionale che un po’ tutti conosciamo, ovvero 33, nel senso degli anni vissuti carnalmente dal Messia di Nazareth: egli probabilmente morì sul patibolo del Golgota intorno ai 36/37 anni di età. Giova precisare che queste datazioni, oltretutto non accertate con precisione matematica (nel senso storico dell’espressione), non sono mai state ritenute elemento di rilievo in termini di verità di fede da nessuna delle principali chiese cristiane, che invece ritengono irrinunciabili, a prescindere dalla loro accertabilità in termini storici, altri elementi di cui ci occuperemo in seguito.

    Tornando al e concludendo il sommario ritratto di Erode il grande che abbiamo abbozzato, segnaliamo che allo stesso era attribuito un carattere estremamente sospettoso, secondo alcuni ai limiti del paranoico. Egli vedeva complotti dappertutto... anche se in quell’epoca e in quegli ambienti non era necessario a tal fine avere una fantasia particolarmente fertile, visto quali nidi di vipere erano le famiglie e le corti dei regnanti: è peraltro certo che addirittura fece uccidere moglie e alcuni figli temendo

    che volessero detronizzarlo per prendere il suo posto. Questo tratto caratteriale rende peraltro verosimile l’episodio (riportato solo dal Vangelo di Matteo) chiamato popolarmente della strage degli innocenti.

    In ogni caso, magari anche grazie a questi tratti di sospettosa crudeltà, Erode riuscì a vivere fino a 73 anni (età considerevole a quei tempi) e a morire nel suo letto nonché a nominare successori del suo regno i figli rimastigli: Archelao (Giudea, Samaria e Idumea), Erode Antipa (Galilea) e Erode Filippo (Batanea e altre province minori).

    Vediamo allora gli avvenimenti principali che attraversarono la Plaestina dalla morte di Erode il grande (4 a.C.) fino alla distruzione del Tempio (70 d.C.).

    C - LA DISTRUZIONE DEL TEMPIO E L’INIZIO DELLA FINE (70 d.C.)

    Dobbiamo dire in premessa che la maggior parte dei contributi storiografici per la ricostruzione di questo periodo storico attraversato dalla Palestina – in particolare da Gerusalemme e dalla Giudea – ci provengono da un ebreo romanizzato quale fu Giuseppe Flavio (37-100 d.C.) che rivestì addirittura il ruolo di comandante delle milizie giudaiche al tempo della prima guerra (67-70 d.C.): una volta sconfitto e catturato egli entrò nelle grazie del futuro imperatore Vespasiano che lo nominò storico di corte aggiungendo al nome ebraico Giuseppe (il nome completo in aramaico era Joseph bar Matthias) proprio quello della dinastia dei Flavii cui apparteneva Vespasiano.

    Oltre al sostegno all’aspirante futuro imperatore giovarono a Giuseppe anche le sue caratteristiche di protagonista embedded – come diremmo con linguaggio attuale – delle vicende bellico-politiche della Palestina del I sec. d.C. Questo può naturalmente farci sospettare tutta una serie di possibili implicazioni di natura encomiastica nei confronti di colui che lo salvò da una probabile prigionia cui sarebbe seguita un’altrettanto probabile deportazione, facendone invece un intellettuale funzionario (e forse funzionale) alla corte imperiale: comunque il suo contributo storico-cronachistico appare ancor oggi decisivo per la comprensione degli avvenimenti di quegli anni e di quei luoghi.

    Altri contributi storiografici, nel complesso marginali rispetto a quelli di G. Flavio, ci vengono dal più tardo Tacito, nato nel 70 d.C. e morto nel 126.

    Come detto, ad Archelao viene assegnata la parte più importante e calda della Palestina, quella maggiormente refrattaria alle influenze politico- fiscali dei romani nonché a quelle culturali e filosofico-religiose dei greci. Data la maggiore debolezza del nuovo sovrano (che per la verità non sarà mai nominato dai Romani come vero e proprio Rex a differenza del padre, vista la diffidenza che essi avevano per una figura che appariva decisamente meno affidabile, almeno dal loro punto di vista) si riaccesero in Giudea, in Samaria e nella stessa Idumea focolai insurrezionali che accompagnarono il breve regno del figlio di Erode: egli infatti ascese al trono alla morte del padre (4 a.C.) e fu rimosso dai Romani e mandato al confino nella lontana Gallia nel 6 d.C.

    In seguito i Romani decideranno di non nominare un nuovo sovrano ma di destinare la parte meridionale della Palestina al controllo del legato di Siria, in pratica il diretto rappresentante imperiale in gran parte di quello che oggi chiamiamo medio oriente. Data la specificità di Gerusalemme e della Giudea il legato nominerà tutta una serie di governatori/procuratori che si alterneranno tra Gerusalemme e Cesarea Marittima tra il 6 e il 41 d.C., quando assisteremo a un breve ritorno di fiamma della monarchia unitaria, con il re Agrippa I. Tra questi governatori ci sarà anche il famoso Ponzio Pilato – dal 26 al 36 – il quale deve quasi in toto la sua notorietà alle citazioni che ne fanno i Vangeli, sia i sinottici che Giovanni.

    In Galilea (la terra d’origine di Gesù) i Romani lasceranno governare un altro personaggio divenuto anch’esso famoso in gran parte a causa delle citazioni nei vangeli: parliamo del già ricordato Erode Antipa, il carceriere e giustiziere di Giovanni il Battista.

    Il Battista, che viene spesso definito come il profeta precursore (sottinteso del Messia Gesù) era visto da molti come erede spirituale e profetico del grande Elia anche per questo suo rapporto dialettico- territoriale con la Galilea e con i suoi governanti. Infatti il territorio della Galilea di epoca romana costituiva una parte di quello che fu il regno di Israele, la parte settentrionale dell’ex Israele unito di Davide e Salomone; inoltre la riportata polemica tra il Battista/battezzatore e la coppia regale del suo tempo (Erode Antipa e la moglie-concubina Erodiade) ricorda per molti versi quella tra Elia di Tisbe e il suo re Achab, colpevole di essersi legato a una consorte straniera, la fenicia Gezabel. A oltre otto secoli di distanza i Vangeli riproporranno dunque l’antica dialettica tra i grandi profeti del Nord (in questo senso possiamo annoverarvi anche lo stesso Gesù) e gli infedeli sovrani traviati da mogli straniere, o comunque estranee, che li dirottano verso culti e mode inaccettabili per un vero israelita.

    Il passaggio della Giudea al diretto controllo romano sembra mettere fine ai torbidi e alle sommosse, almeno fino all’avvento di Ponzio Pilato. Questo ci dice Giuseppe Flavio il quale evidentemente traccia un quadro assai negativo di quel governatore, quadro almeno in parte diverso da quello evangelico. G. Flavio infatti lo considera un politico crudele e corrotto, un uomo venale e senza scrupoli pronto a qualunque infamia per convenienza personale in termini di carriera e di pecunia.

    Comunque sia è certo che sotto il suo governatorato si verificheranno una serie di sommosse di piccola e media entità, di cui, come segnaleremo a suo tempo, troviamo eco nelle pagine dei Vangeli.

    Forse la più importante o comunque la più emblematica fu quella definita delle insegne. In pratica Pilato introdusse in Gerusalemme, nei luoghi di potere e di governo della città, le insegne militari con gli stendardi raffiguranti gli imperatori, da Ottaviano Augusto in poi. Come abbiamo già avuto modo di ricordare nel precedente volume, già dal 28 a.C. gli imperatori, per volere dello stesso Ottaviano che ne fu il capostipite, erano considerati divini nel senso che a essi era dovuta la pratica della venerazione che sconfinava, o poteva sconfinare, nella vera e propria adorazione.

    Questo tentativo di Pilato – effettuato quando era appena arrivato in Giudea e quindi forse non ancora in grado di valutarne bene l’impatto sulla mentalità ebraica – era per gli israeliti ortodossi doppiamente inaccettabile, sia in quanto solo a YHWH poteva essere prestata adorazione, sia a motivo del fatto che la loro religione proibiva severamente, considerandola bestemmia, la raffigurazione umana: un semplice uomo che si fa divinità e che, per di più, viene effigiato in quanto divinità, era davvero troppo anche per gli ebrei meno zelanti.

    A proposito di zelanti e Zeloti, tutte le testimonianze storiche riferiscono di una popolazione che, in Gerusalemme e nel resto della Giudea, era in larga misura contraria alla rivolta contro il potere romano, ben conoscendo la disparità delle forze in campo: vi erano certamente, come sostenevano polemicamente gli storici che viaggiavano sulla lunghezza d’onda degli autori dei libri dei Maccabei, dei veri e propri collaborazionisti, magari disponibili a rinnegare per convenienza la religione dei Padri; tuttavia lo spettro delle posizioni politico-teologiche del tempo comprendeva anche, oltre agli irriducibili e battaglieri Zeloti di cui abbiamo tracciato un ritratto nello scorso volume, anche una fetta assai numerosa di popolazione e di ceto intellettuale che era rimasta fedele al Giudaismo e ai fondamentali della religione Jhavista ma che riteneva di poterli preservare e custodire – magari in attesa di tempi migliori nei quali riprendere il filo della riscossa messianica – senza schierarsi a battaglia contro l’occupante romano e contro la modernità in generale. Lo stesso Giuseppe Flavio, pur essendo stato un miliziano e comandante dei ribelli, non aveva in simpatia gli Zeloti, dei quali traccia un ritratto assai negativo.

    Durante la governatura di Ponzio Pilato, come noto, vengono situati gli avvenimenti principali della vita pubblica di Gesù adulto: la predicazione itinerante, le salite a Gerusalemme in occasione delle festività, i semeia/segni ei i terata/prodigi miracolosi, l’arresto, la crocifissione, la morte e resurrezione.

    Poco di questo è rintracciabile nella storiografia fuori dai Vangeli, che opere propriamente storiche non sono, anche nell’accezione tipica di quei tempi. Tuttavia l’attenzione che gli evangelisti mostrano (anche) alla tracciabilità dei riferimenti storici e, paradossalmente, le stesse contraddizioni tra i quattro evangelisti canonici, indicano la chiara presenza di fonti locali, magari passate in modo assai limitato nella grande storia, che tracciano altresì un quadro attendibile dell’avventura di Gesù secondo la carne (è una delle definizioni date da S. Paolo), quadro molto più circostanziato di quelli relativi ad altri personaggi mai contestati dalla storia ufficiale. Ricordiamo a tal proposito che addirittura alcuni studiosi hanno sostenuto la tesi (oggi ritenuta superata dalla quasi totalità della comunità scientifica) della non esistenza fisica del Cristo, il quale sarebbe secondo tali ipotesi da considerarsi come un personaggio mitologico costruito ex post a cura di una corrente dell’ebraismo dissidente dell’epoca.

    Ritornando alla Storia che troviamo sui libri di Storia, arriviamo al 41 d.C. quando, come detto in precedenza, abbiamo un tentativo di ricostituzione di uno stato unitario dell’intera Palestina con a capo un vero e proprio Re.

    Erode Antipa – il re della Galilea – è morto ed Erode Agrippa I gli succede come sovrano di quel territorio corrispondente a ciò che un tempo fu il regno di Israele unito, all’epoca di Davide e Salomone. Si trattò in fondo dell’avverarsi degli auspici degli ebrei fedeli alla religione e al culto Jhavista ma di tendenze moderate. Questo Erode Agrippa (citato come Erode da Luca negli Atti al cap. XII, ove si dice che fu lui a decretare la morte di Giacomo il maggiore, l’apostolo fratello di Giovanni) fu infatti un proselito di sicuro zelo giudaico – la stessa persecuzione contro i nozrim lo dimostra – e parve così che potesse essere riallacciato il filo dell’Israele unito e Jhavista, interrotto alla morte di Erode il Grande quasi mezzo secolo prima.

    Ma la storia dispose altrimenti: Erode Agrippa I morirà appena nel 44 e i Romani, data la giovane età del possibile erede Agrippa II, riprendono il controllo diretto della situazione, con modalità piuttosto risolute al punto che innescano ancora una serie di rivolte e tentativi di ribellione più o meno organizzati. È questo tra l’altro il periodo dei sicari, termine che deriva dal latino sicae, riferito a una sorta di lungo pugnale ricurvo utilizzato dai briganti Traci; l’aggettivo venne utilizzato dai Romani per definire una fazione particolarmente pugnace degli Zeloti – appunto i sicari – che utilizzavano pratiche che oggi definiremmo terroristiche per portare avanti la lotta armata, come ad esempio gli assassini singoli o di gruppo, perpetrati sia allo scopo di creare sgomento nella popolazione moderata che di rinfocolare speranze indipendentiste per gli antiromani più irriducibili.

    Può essere a tal proposito interessante riportare l’ipotesi di alcuni studiosi riguardo alla presenza di elementi insurrezionalisti nella sequela che accompagnava Gesù lungo le strade e le città della Palestina. La cosa potrebbe destare qualche sorpresa, dal momento che sia i Vangeli che tutto l’insieme del nuovo testamento canonico ci indicano l’impostazione decisamente irenica e non violenta degli insegnamenti del Maestro. In realtà dobbiamo tenere presente che anche in altre parti dei Vangeli sono riportate frasi o episodi che lasciano intuire la presenza, nell’opinione di alcuni discepoli, di una serie di equivoci politico-militari sulla natura del rabbì proveniente dalla Galilea. Ripromettendoci di tornare più avanti sull’argomento segnaliamo di nuovo (ne abbiamo parlato nello scorso volume) l’episodio relativo alla pretesa di due dei dodici (e/o delle loro madri) di poter avere posti di rilievo nel supposto futuro governo dell’incipiente Israele restaurato sotto la guida di Gesù, evidentemente visto nei panni di un nuovo Davide molto simile a quello antico: questo episodio può indicare la presenza, nel gruppo che seguiva il Nazareno, di personaggi per così dire fautori dell’indipendentismo politico, di natura messianicamente ortodossa ma al tempo stesso moderata. Se leggiamo altresì il v 15 del cap. VI di Luca compiamo invece un passo nella direzione di una presenza più radicale: si cita infatti, tra i dodici della cerchia più intima, un certo Shìmouna ton kaloymenon Zeloutèn ovvero Simone quello chiamato Zelota, altrove definito il Cananeo. Nei Vangeli non si dice nient’altro di particolare sul personaggio ma la notazione (di per sé inserita per distinguerlo dal Simone più noto, ovvero quello chiamato Pétros/Pietro) può far pensare a un simpatizzante del movimento Zelota.

    Tornando ai sicari degli anni ‘30/’40 segnaliamo che alcuni interpretano il soprannome del Giuda più (sia pure in termini negativi) famoso – l’Iscariota – come l’indicazione di una presenza legata al radicalismo più spinto nella lotta armata, appunto quella dei cosiddetti sicari. Gli studiosi non hanno mai potuto stabilire con certezza il significato del termine greco tradotto con Iscariota: forse il patronimico (come precisa Gv in 6, 70-71) forse il luogo d’origine (una semisconosciuta località chiamata Eukariot) forse una professione, che ricorderebbe un artigiano esperto nella tinteggiatura... oppure appunto la presenza della radice aramaizzata s’kar per cui potremmo in quel caso tradurre con Giuda il sicario.

    Quello che appare certo è che nel gruppo dei discepoli, fin nella cerchia dei più vicini al Maestro, vi erano personaggi e sensibilità assai variegate in un momento peraltro altamente magmatico dal punto di vista delle attese apocalittico-messianiche nel mondo Palestinese. Questo ci rimarca una caratteristica importante – che vedremo emergere spesso quando ci misureremo con le letture commentate di brani neotestamentari – di quelle che furono le attribuzioni di ruolo date al Gesù/Messia nelle vesti di Salvatore (come spiega il suo stesso nome) della casa di Israele. Il profeta e maestro di Nazareth in sostanza lasciò che gli si raccogliessero intorno tutte le anime e le sensibilità presenti nel variegato mosaico di coloro che, a vario titolo e con svariate intenzioni, avvertivano la spinta e il bisogno di portare avanti una storia teologica ed etica millenaria, che essi continuavano a vedere incarnata nella missione speciale di un popolo speciale, quello di Israele: speciale non in virtù di particolari benemerenze ma semplicemente per il fatto di essere stato dal Signore investito, per la di lui misteriosa volontà, quale portatore e portavoce della (sola) Voce in grado di mettere per così dire in contatto il cielo con la terra.

    In quest’ottica che potremmo definire di ecumenismo israelitico dobbiamo anche leggere – sia pure con un significato che dal teologico passa all’esistenziale – l’estrema e spesso scandalosa multicomposizione sociologica del suo seguito: i pubblicani collaborazionisti, le donne viandanti e dal dubbio passato, i ciechi, gli storpi e i lebbrosi (quindi immondi e colpevoli secondo le interpretazioni più tradizionaliste del giudaismo) raccolti, curati e convertiti, gli strozzini alla Zaccheo... un piccolo sgangherato esercito senz’armi in marcia verso una città e un destino, verso una croce che quasi li annienterà disperdendoli come un gregge assalito dai lupi: appunto quasi... e quel poco più che niente sarà uno degli snodi, una delle stazioni di cambio, della storia dell’umanità.

    Ritornando alle tempeste della Palestina del I sec. d.C., in questo crescendo di sommosse e fatti di sangue ci avviciniamo a quello che nel titolo abbiamo definito l’inizio della fine, ovvero l’esito della cosiddetta prima guerra giudaica con la distruzione del Tempio e l’inizio della fine di Gerusalemme come città ebraica. Ci vorranno in realtà altri sessantacinque anni prima che venga messo il sigillo sulla più che millenaria avventura di Israele come Stato di Dio, quando Gerusalemme non sarà più non solo la sede della divina potestà amministrata dai suoi umani esecutori ma nemmeno, genericamente, la città degli Ebrei: lo vedremo nel prossimo capitolo.

    Per il momento segnaliamo solo che in quegli anni assistiamo a un’altra esecuzione celebre, nel senso che è celebrata come una tappa del martyreion della chiesa delle origini, ovvero l’esecuzione capitale di Giacomo il Giusto, avvenuta nell’anno 62.

    Questo Giacomo, da non confondersi con il maggiore la cui esecuzione, come sopra riportato, è ascrivibile a Erode Agrippa I nel 41 o 42 d.C., è definito nei Vangeli e negli Atti fratello del Signore (sottinteso Gesù) ed era una personalità di spicco, forse addirittura la preminente insieme a Cefa/Pietro, nella ekklesìa gerosolimitana degli anni ‘50/60.

    Possiamo accennare al fatto che questo Giacomo, sotto alcuni punti vista, è stato suo malgrado una pietra dello scandalo su alcune questioni di tipo dottrinal-dogmatico che hanno diviso le varie confessioni religiose cristiane.

    In primo luogo e soprattutto l’espressione fratello del Signore, contenuta sia nei Vangeli di Mt e Mc (riferita anche ad altri fratelli) se presa alla lettera smentisce quello che per i cattolici è, a partire dal V secolo e con definizione ufficiale nel Concilio di Costantinopoli del 553, un dogma della fede cristiana, ovvero la perpetua verginità di Maria.

    Nei Vangeli (Mt e Lc) si afferma la nascita virginale e soprannaturale di Gesù ma niente si dice a proposito di eventuali altri figli naturali avuti dai due sposi. A tal fine gli ortodossi e i cattolici (ma vale anche per i primi protestanti come Lutero e Zwingli) interpretano l’espressione fratello/i o ipotizzando figli avuti da Giuseppe da un matrimonio precedente oppure nel senso di una consanguineità rapportabile a quella tra cugini di sangue: in effetti nel mondo ebraico e dell’antico oriente spesso si era soliti racchiudere nell’insieme familiare anche i figli dei fratelli di una coppia di sposi; ricordiamo peraltro che i Vangeli e tutto il nuovo

    Testamento sono stati scritti in greco, per cui anche le terminologie parentali sono state tradotte dall’ebraico o dall’aramaico secondo i canoni greci, quindi anche il termine adelphos/fratello potrebbe essere inesatto per eccesso... o per difetto.

    Un altro elemento rilevante della figura storica di Giacomo il Giusto è relativo alla paternità di molti scritti cristiani che a lui è stata accreditata. Tra quelli canonici abbiamo solo la Lettera di Giacomo mentre assai più cospicua è la produzione a lui attribuita da varie tradizioni, anche se non recepita nel codice cattolico: la Prima e la Seconda Apocalisse di Giacomo, il Libro segreto di Giacomo e il Protovangelo di Giacomo: questa ampia attribuzione letteraria, a prescindere dalla sua certificabilità in termini storici, è comunque la spia della grande considerazione che il personaggio aveva acquisito nell’ambiente del primo Cristianesimo, sia da parte dei cristiani che dei loro avversari, come testimonia il suo martirio. Tale figura sembra rivaleggiare, se appunto prendiamo in considerazione i contributi che ci arrivano dal versante apocrifo, con quelli che sono considerati dalle principali chiese come i due pilastri del Cristianesimo nascente (ovviamente a parte il Cristo stesso) ovvero Pietro e Paolo, figure invece preminenti negli Atti di Luca e recepite come tali dalla maggior parte delle ekklesìe già a partire dalla fine del I sec. e fino ai giorni nostri. Vedremo, quando ci occuperemo appunto della lettera di Giacomo, le notevoli differenze con le altre lettere cattoliche nonché la sua vicinanza con le visioni più caratteristiche del profetismo apocalittico dell’Israele classico.

    Chiusa, almeno momentaneamente, questa parentesi sul martirio di Giacomo il Giusto, arriviamo a quella data e a quell’evento di decisiva importanza per la storia del mondo ebraico e dell’umanità intera, ovvero il 70 d.C. con la distruzione del secondo tempio.

    Non c’è in realtà molto da dire sul piano della cronaca bellica, nel senso che si ripete uno schema che abbiamo già visto in azione lungo tutto il I sec., pur se con intensità ed esiti diversi.

    Siamo nel 66 e abbiamo al potere un ennesimo governatore poco attento e sensibile, forse corrotto (nella fattispecie un certo Gessio Floro) cui segue l’organizzarsi delle forze resistenti che riescono a mettere insieme un vero

    e proprio esercito a partire dalle bande armate che circolavano in Palestina. Questa armata in piena regola miete una serie di prime vittorie giudaiche – addirittura infliggendo la prima sconfitta alla mitica XII legione Fulminata, ovvero portatrice del fulmine, fondata da Giulio Cesare nel 58 a.C. – avendo a capo un condottiero dal nome evocativo per noi uomini del ‘900, ovvero Giuseppe Ben Gurion: tra i suoi giovani comandanti c’è anche, come ricordato, il nostro Joseph bar Matthias... da cui stiamo attingendo buona parte delle notizie qui riportate.

    Quello che cambia rispetto a precedenti episodi è la natura della risposta dei romani: in passato essi avevano sostituito il governatore impopolare, magari accompagnando l’operazione con qualche elargizione a beneficio della popolazione e dei notabili; quando ciò non era sufficiente si aggiungevano alcuni interventi spesso più simili a operazioni di polizia che non a vere e proprie iniziative militari. Infine si raggiungeva un accordo con la parte moderata del potere sacerdotale lasciando intatti i pur controllati privilegi del clero, del Sinedrio e del Tempio.

    Stavolta invece, forse a causa dell’imponenza della rivolta che la trasforma in vera e propria guerra – appunto quella che è definita la prima guerra giudaica – la risposta dei romani sarà durissima e definitiva, nel senso che rappresenterà per ciò che restava di Israele come entità politico-religioso- territoriale... l’inizio della fine.

    Nel 67 Nerone nomina legato della Siria un personaggio di prima grandezza, destinato a un grande avvenire politico: parliamo di Tito Flavio Vespasiano il quale, insieme al figlio Tito, riorganizza le legioni romane così che le sorti della guerra cominciano a cambiare verso. È in quell’anno che il comandante dei ribelli giudaici in Galilea, Giuseppe non ancora Flavio, si arrende e si consegna ai romani divenendo come detto un aperto sostenitore di Vespasiano: questo sostegno, che non sappiamo se decisivo ma certamente utile, contribuì all’ascesa al trono imperiale del capostipite della dinastia dei Flavii, il quale succedette a Nerone nel 69 d.C., anno noto come quello dei quattro imperatori.

    Infatti alla morte di Nerone si scatenarono, legati alla successione, torbidi particolarmente... limacciosi al punto che nell’arco di 15 mesi il trono imperiale vide ben quattro occupanti: l’uscente Nerone, i fugaci Galba e Vitellio e infine Vespasiano, che tenne saldamente il trono per dieci anni. A quel punto al figlio Tito rimase il ruolo di comandante in capo delle milizie dell’Urbe e, secondo Giuseppe Flavio, il merito della radicale vittoria nei confronti dei ribelli fu da ascriversi essenzialmente allo stesso: ovviamente, considerando i già citati rapporti tra lo storiografo ed ex generale giudeo e i Flavi non è da escludere qualche esagerazione encomiastica.

    In ogni caso l’esercito giudeo è sconfitto, gli irriducibili Zeloti si asserragliano in Gerusalemme, nella cittadella di Davide, per un’ultima disperata resistenza accompagnata da purghe nei confronti di quella parte della popolazione considerata come collaborazionista: tra le vittime ci fu anche il sommo sacerdote Anania o Anano – colui che decretò la morte di Giacomo il fratello del Signore – il quale pur essendo stato posto a capo del

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