La Beata Passione
Di Jean Galot
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Anteprima del libro
La Beata Passione - Jean Galot
fede
La Beata Passione
di Jean Galot
Introduzione al libro
Nella Passione di Gesù la sofferenza umana ha assunto un valore nuovo e ha trovato il suo volto vero, definitivo. Senza dubbio c'erano stati, prima di Cristo, dolori veri, profondi. La storia dell'umanità era portatrice di una immensa miseria, e l'esistenza di ogni individuo era contrassegnata dal segno misterioso di una croce di cui egli ignorava il nome e il significato.
Alle coscienze più evolute la sofferenza appariva come un castigo di Dio, meritato con il peccato. Nel volto del Crocifisso si rivela il significato autentico del dolore. In lui la sofferenza non è più una semplice esperienza; diventa un misterioso ideale. Essa non è più una punizione che opprime né un peso che l'uomo trascina come un condannato da Dio; è un'offerta accettata liberamente e portata al Padre celeste, in uno slancio d'amore riparatore.
Gesù infatti le dà un aspetto assolutamente puro. Alle origini dell'umanità il peso del dolore era derivato dal peccato; ma ecco che quel peso, culminando nella Passione del Salvatore, cessa di presentare le stimmate del male e diventa l'espressione dell'innocenza immolata. La sofferenza appare ormai come una compagna della santità, una manifestazione di perfezione. Niente è più santo, più estraneo al male del corpo appeso alla croce.
La contemplazione del Crocifisso inoltre ci fa capire che i più crudeli tormenti si accompagnano alla più perfetta purezza dell'anima. Ci aiuta a riconoscere nella sofferenza non più un segno del peccato, ma la via dell'innocenza chiamata a sacrificarsi. Ci impedisce di considerare le nostre prove come una manifestazione della collera o della disapprovazione di Dio, insegnandoci a riconoscere in esse un dono dell'amore paterno che desidera nobilitarci, santificarci.
In Gesù la disposizione interiore non è che la risposta filiale all'amore del Padre. Il volto sofferente, da lui assunto, non ha dunque la smorfia della rivolta. è il volto dell'accettazione completa, dell'offerta generosa e integrale, senza riserve. Non una recriminazione durante il supplizio a cui il grande benefattore dell'umanità è stato ingiustamente condannato. La parola con cui Cristo esprime il suo dolore è insieme un grido d'amore: « Ho sete ».
L'asprezza, l'amarezza, il rancore non trovano posto nei suoi sentimenti. Gli innumerevoli gemiti degli uomini che si innalzano al cielo accusando Dio della sofferenza che egli manda, non riecheggiano nella voce del Crocifisso. L'ultimo grido di Gesù proclama il suo abbandono nelle mani del Padre. La morte, come il dolore, è pienamente accettata.
Ecco perché il volto del Crocifisso, anche nella sequela dei tormenti che gli sono imposti, conserva una serenità di fondo. Gesù soffre nel più profondo dell'animo, perfino nel sentimento della sua intimità con il Padre, della quale si sente più dolorosamente spogliato. Ma non si lascia prendere dal panico, e la disperazione non riesce a raggiungerlo; conserva una fiducia incrollabile, la convinzione di essere guidato dal Padre, con sicurezza, nell'avventura della croce. D'ora innanzi il volto della sofferenza cristiana sarà un volto di pace.
Sarà inoltre un volto che attende e prepara una gioia più grande; perché la fiducia di Cristo non è stata delusa, e il suo abbandono nelle mani del Padre non è stato vano. Alla tragedia del Calvario è seguito un trionfo glorioso. Nel momento in cui la sofferenza raggiungeva in Gesù il punto culminante, essa procedeva verso una gioia nuova ed esaltante. Il dolore non è una meta, è un passaggio, e preannuncia una felicità ulteriore. Nel volto sofferente sono già impressi i segni di una gioia trionfale, perché nel discepolo, come nel maestro, la Passione è inseparabile dalla resurrezione. La croce si inserisce nell'esistenza soltanto nella prospettiva della gioia pasquale.
A prima vista, il contrasto fra sofferenza e gioia finale è sorprendente, come fra disfatta e trionfo. Infatti sono due fasi di una stessa manifestazione: nel dolore l'amore sboccia e può raggiungere il culmine. Gesù aveva amato intensamente il Padre e gli uomini nella sua vita terrena; la Passione gli ha permesso di portare questo amore ai suoi limiti estremi. Il volto del Crocifisso è dunque quello dell'amore che si effonde, dell'amare infinitamente generoso nell'elargire il suo dono. è l'amore vittorioso anche durante la prova, perché si nutre del dolore e lo trasforma in amore. La gloria della resurrezione non fa che manifestare questa vittoria.
Si può dire che ormai il volto della sofferenza racchiude la fonte della gioia più elevata, perché in esso si sviluppa segretamente l'amore più grande. La sofferenza dunque non potrà più essere né scoraggiamento né sconfitta; e se non perde il suo carattere penoso, e resta una ferita, diventa però una ferita d'amore, un aprirsi del cuore a un affetto più vivo e più completo, che stimola un'offerta di sé più generosa, in cui la personalità raggiunge il suo compimento.
« Ecco l'uomo » (Gv. XIX, 6). La parola di Pilato deve essere intesa in tutta la portata che essa assume nel dramma in cui si inserisce, e oltre gli intendimenti di colui che la pronunciò. è nella Passione che la natura umana di Gesù si completa: il Verbo fatto carne non avrebbe assunto integralmente la condizione dell'umanità se fosse sfuggito alla sofferenza; attraverso il dolore supremo da lui sopportato, l'uomo compie il suo destino terreno, e l'amore porta il suo cuore umano ad effondersi. Il Figlio di Dio è uomo fin dal momento del consenso di Maria nell'Annunciazione e del presepio di Betlemme, ma lo diventa compiutamente solo col Calvario. Allora il corpo rivela la sua debolezza, l'anima del Cristo manifesta sentimenti sublimi: sulla croce grandeggia l'uomo.
Da quel momento Gesù imprime alla sofferenza l'aspetto della perfezione umana. Soffrire vuol dire diventare più profondamente uomo. Anche se esteriormente il dolore fa apparire un uomo degno di pietà, e questo era il caso di Gesù presentato da Pilato alla folla, esso tuttavia esalta le qualità migliori della natura umana, e la generosità nella umiliazione si raddoppia. A coloro che partecipano alla Passione si applicherà in futuro la sentenza del giudice romano: « Ecco l'uomo », l'uomo plasmato ed ingigantito dal dolore.
D'altra parte, se la sofferenza mostra l'uomo nella sua debolezza fisica e nella sua grandezza morale, rivela, in Gesù, Dio stesso. Solo un Dio può soffrire con tale nobiltà e dignità. Cristo ha potuto essere un uomo perfetto nella Passione perché era Dio. La esclamazione del centurione, testimone della morte di Gesù, attesta il trasparire della divinità nel suo modo di soffrire e di morire: « Questo uomo è veramente figlio di Dio » (Mc. XV, 39; Mt. XXVII, 54).
Cristo dunque conferisce alla sofferenza umana un aspetto divino. Egli ha mostrato come Dio ha voluto assumersi la sofferenza solidalmente con noi. Non è questa la risposta più eloquente a chi incessantemente sussurra o esprime proteste contro Dio e lo accusa di indifferenza e di crudeltà per il dolore umano? Cristo in croce è Dio che risolve il problema della sofferenza non adottando una soluzione esterna, con dimostrazioni della sua onnipotenza, ma sottoponendosi egli stesso al dolore, sperimentando interiormente questa realtà così amara, così pesante. Pur nella sua immensità, il Figlio di Dio fa propria la sofferenza umana, e testimonia che, lungi dall'essere indifferente o crudele, Dio si interessa alla sorte dell'uomo fino a condividerla. Invece di essere una sconfitta, come pareva all'uomo, la sofferenza diviene proprietà di Dio, privilegio del Verbo incarnato. Diventa persino rivelatrice di Dio. Nel volto doloroso di Cristo appare la disposizione fondamentale dell'essere divino: «Dio è amore» (I Gv. IV, 16). Dio si fa conoscere agli uomini con la Passione; la sua bontà e benevolenza verso l'umanità vi si dimostrano ampiamente, e ci indicano che non soltanto egli irradia amore, ma che è l'amore nella sua massima intensità. Il dolore porta in sé l'aspetto del Dio d'amore, ce lo fa scoprire. E custodisce così il mistero più nascosto della Rivelazione.
Non potrà più perdere l'aspetto divino che Gesù gli ha dato. I cristiani sono chiamati a impegnarsi nella sofferenza come in una impresa divina, sull'esempio del Maestro. Dio li induce a soffrire, come ha sofferto lui. Come li rende capaci di amare, attraverso l'amore divino, così dà loro la forza di soffrire al modo divino. Da quel momento, anziché immiserire l'uomo, la sofferenza sviluppa in lui la perfezione di Dio e non benefica soltanto l'individuo che la deve sopportare. Nel suppliziato del Golgota, bisogna riconoscere il Salvatore dell'umanità. In lui si annuncia la meravigliosa fecondità del dolore. Con il sacrificio cui si sottomette, Cristo trasforma il mondo.
Sulla croce egli sembra vinto; i suoi avversari hanno buon gioco nel ridere di lui. La condanna al supplizio l'ha ridotto all'impotenza, e la totale spogliazione che gli è stata imposta sembra attestare una irrimediabile debolezza. Ora, nell'istante in cui è privato di tutti i mezzi umani d'agire, egli è in realtà pienamente efficiente a seguire le disposizioni del piano divino. Con la sua sofferenza e il suo fallimento egli merita la salvezza del mondo.
Cristo fa così del dolore il grande strumento di redenzione, il grande mezzo di riscatto. Egli ci invita a credere che ogni sofferenza ci è data per una missione redentrice e che, generosamente accettata e offerta, essa contribuisce a mutare il mondo, a rendere migliore l'umanità. Quando un uomo ha perduto tutto, gli resta sempre la ricchezza del dolore; quando una vita sembra inutile, svuotata della sua produttività umana, può ancora diventare efficace con l'offerta stessa di quell'inutilità, con l'umile accettazione di quell'incapacità.
Nel volto torturato di Gesù è necessario vedere un centro irradiante, l'origine dell'immensa quantità di grazie che affluiranno nel mondo. La sofferenza è il prezzo di innumerevoli gioie per gli uomini, e tutto il bene che esiste nelle anime è frutto della passione di Cristo.
Offrendo il suo volto alla sofferenza, Cristo vi ha perciò impresso il segno di una fecondità divina. Il dolore è fonte di progresso e di felicità per chi l'accetta, e anche per altri; procura agli uomini grazie di santità ed è destinato ad accrescere la loro gioia.
Di tutti i «perché» pronunciati dall'uomo, quello suscitato dalla sofferenza è il più drammatico. Il dolore infatti penetra nella profondità dell'essere umano, la turba o la sconvolge. Pone inoltre un problema non solamente teorico, ma pratico; l'interrogativo «perché» non deriva semplicemente da un interesse speculativo; ma risuona come un grido personale, il grido di una persona colpita in ciò che ha di più intimo o di più caro.
A questo problema di vita il Calvario offre una risposta viva. Nella carne e nell'anima del Cristo la sofferenza rivela la sua ragione d'essere e offre le sue vere dimensioni. Il volto del dolore s'identifica, dal tempo della Passione, con il volto di Cristo: viso puro e santo, viso della perfezione umana, viso divino d'amore, viso di Salvatore che realizza la sua missione. Questo volto di Cristo risponde a tutte le domande degli uomini sofferenti: a coloro che si credono puniti, mostra che si tratta di un invito alla riparazione più che di castigo; a coloro che si considerano sminuiti o spezzati dalla prova, ricorda che nella prova c'è una via alla perfezione e alla nobilitazione; a coloro che si credono vittime della potenza arbitraria, della durezza o della freddezza incomprensiva di Dio, attesta la simpatia divina che vuole assumere come suo il dolore e l'amore divino che si umilia fino al sacrificio totale; a coloro che si affliggono per gli ostacoli posti alla loro azione da disgrazie e fallimenti, testimonia la fecondità soprannaturale delle loro incapacità.
Di conseguenza bisogna sforzarsi di conoscere meglio il volto del Cristo sofferente, d'entrare nel segreto dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti. Una luce s'irradierà sui dolori umani. Non che tutta la oscurità possa esser dissipata: la sofferenza resta un mistero, che oltrepassa la nostra intelligenza e sconcerta la nostra ragione. Ci sarà sempre quaggiù qualcosa di inesplicabile nelle nostre prove.
Ma questo mistero occorre penetrarlo in comunione con il mistero della Passione. Unendo la propria vita a quella del Salvatore o lasciandosi incorporare in essa, il cristiano cessa di scontrarsi con la sofferenza come se fosse un problema irritante; la croce entra nella sua esistenza, croce condivisa con il Maestro. Il dolore diviene parte integrante della sua vita e del suo amore, accettato e assunto come una missione.
Spetta a ciascuno di realizzare questa comunione col Cristo sofferente. Un libro può aiutare a dirigere gli sguardi verso il Redentore. Tale è lo scopo di questa opera: orientare la contemplazione verso il Salvatore, descrivere il volto dell'Uomo dei dolori, scrutare gli atteggiamenti e le disposizioni più profonde di Gesù nella sua passione. Non ci fermeremo certo ai particolari esterni del dramma; la nostra attenzione verterà sull'essenziale, sul piano invisibile di Dio e sull'interiorità di Cristo.
Così potrà apparirci meglio, nella sua bellezza pura e commovente, il volto ideale della sofferenza.
Capitolo primo
I primi lineamenti del ritratto
Quando, dopo la sua resurrezione, Cristo ha voluto spiegare ai discepoli di Emmaus e poi a tutto il gruppo dei discepoli il senso degli avvenimenti che essi avevano appena vissuto, ha ricordato loro che la Passione era annunciata, secondo le Scritture, nella legge, nei profeti e nei salmi: occorreva che il Messia soffrisse per entrare nella gloria (Lc. XXIV, 26 s., 4446). è importante dunque ricercare nell'Antico Testamento i primi accenni del dramma redentore. Tre immagini commoventi del Messia che si sacrifica si presentano a noi: nella legge, Isacco legato sul rogo (libro della Genesi); nei profeti, il personaggio ideale del servo che soffre (libro di Isaia); nei salmi, la prova personale del giusto abbandonato.
I. Il sacrificio di Abramo
«Accadde che Dio mise alla prova Abramo: Prendi tuo figlio, l'unico figlio, che tu ami, Isacco; va nella terra di Moria, e là offrilo in olocausto su una montagna che io t'indicherò
» (Gen. XXII, 12).
In questa raffigurazione lontana del sacrificio redentore, un aspetto invisibile ma essenziale del dramma ci è posto sotto gli occhi. Quando vediamo Abramo incamminarsi con Isacco verso il monte di Moria, monte che sarà identificato con la collina su cui sarà costruito il tempio di Gerusalemme, scopriamo che Gesù, nella sua « Via Crucis », non cammina solo verso il Calvario. Egli è guidato dal Padre, attore principale della dolorosa tragedia.
Senza dubbio è Isacco che deve essere immolato; ma Abramo deve sacrificare il suo cuore di padre. Il racconto dell'episodio ci fa immediatamente intuire che il padre attraverso il figlio è la prima vittima. A lui è richiesto il sacrificio più grande che possa essere preteso da un cuore umano, il sacrificio di un figlio unico.
Quando Cristo porta la sua croce, si avvia a compiere l'immolazione di sé. Ma il Padre che guida il suo cammino, e la cui volontà sovrana viene compiuta nella salita al Golgota, è il primo a sentire l'intensità del dramma. è lui che ha deciso di mandare suo Figlio alla morte, e tutto il suo amore paterno è impegnato in questa decisione; non risparmiando suo Figlio, il Padre non ha risparmiato il suo cuore.
Egli andrà anche più lontano di Abramo: Dio trattiene il braccio di Abramo nel momento in cui s'appresta a colpire la vittima innocente: «Abramo! Abramo!... Non alzare la mano sul fanciullo, non fargli alcun male! » (Gen. XXII, 1112). Ma nessuno poteva trattenere la mano del Padre che ha voluto porre una croce al centro del mondo e su questa croce far salire Gesù. Il Padre, Signore supremo della vita, ha il pieno potere di decidere una immolazione, ed egli la richiede al suo affetto personale.
Coloro che hanno accusato Dio di crudeltà nell'avvenimento della Passione, o che continuano a pronunciare questa accusa riferendosi alla sofferenza umana, non si rendono conto che il Padre celeste è stato crudele, implacabile con se stesso per non esserlo con noi. è il Padre che ha tratto dal suo amore tutta la sostanza del sacrificio.
I sentimenti di Abramo nel momento in cui si appresta a immolare suo figlio ci permettono di intuire ciò che ha dovuto svolgersi nel cuore del Padre durante la Passione. Il patriarca doveva sentirsi lacerare il cuore profondamente, non solo perché doveva acconsentire alla morte di suo figlio, ma perché doveva condurlo lui stesso a quella morte e provocarla. Può forse essere stato meno penoso per il Padre non accogliere, durante l'agonia, la supplica di Gesù, assegnargli il calice di dolore e condurlo ad un terribile supplizio? Noi siamo abituati, dal racconto evangelico, a prendere in considerazione durante l'agonia e la Passione soltanto i sentimenti di Gesù, e siamo impressionati dalla desolazione che egli prova. Per avere un'idea completa di questa dolorosa separazione, bisognerebbe conoscere bene la generosità sublime del Padre che ha voluto scavare un largo solco tra sé ed il suo dilettissimo Figlio, e imporre così a Gesù, nonostante il suo affetto paterno, la sofferenza più acuta, più intima. Il Vangelo non potrebbe descriverci questo aspetto celeste dell'abbandono, ma l'episodio del sacrificio di Isacco solleva un angolo del velo e ci fa almeno intuire che in quel punto c'è un mistero.
Se il Padre fa alzare la croce e vi appende il proprio Figlio, lo fa perché vuole aprirci, il più ampiamente possibile, il suo cuore paterno. Ci mostra che egli dona tutto all'umanità, che non esita a sacrificare ciò che ha di più caro in vista della nostra salvezza. Desidera essere in pieno il Padre degli uomini.
Questa finalità del sacrificio è suggerita dalla promessa fatta ad Abramo: « Poiché hai fatto ciò e non mi hai rifiutato tuo figlio, l'unico tuo figlio, io ti ricolmerò di benedizioni, moltiplicherò i tuoi discendenti come le stelle del cielo e la sabbia in riva al mare» (Gen. XXII, 1617). Per il fatto che il Padre celeste non ha rifiutato il suo unico Figlio nel suo amore per l'umanità, egli è divenuto Padre di quegli uomini, numerosi come le stelle o i granelli di sabbia. In seguito al sacrificio, la sua discendenza si è moltiplicata all'infinito. Era già Padre degli uomini per il fatto di averli creati; diventa, con la redenzione, loro Padre nel senso più ampio di un amore paterno che tutto dona.
Così, come Isacco era nel suo sacrificio la manifestazione della generosità di Abramo, Cristo porta in sé, nell'immolazione del Calvario, l'insondabile generosità del Padre. La croce è prima di tutto il messaggio di un amore paterno che vuole effondersi a profusione sugli uomini donando loro ciò che ha di più prezioso, suo Figlio, con l'intenzione di riunirli in Gesù e di fare di tutti loro dei figli di Dio.
2. Il servo che soffre
Un ritratto divino e umano
I canti del servo di Yahvé, opera di un profeta di cui non conosciamo il nome, e che sono stati attribuiti a Isaia, ci presentano il ritratto più importante del Messia, specialmente del Messia sofferente (Is. XLII, 17; XLIX, 19; L, 49; LII, 13 LIII, 12).
Accade che in un ritratto noi notiamo particolari della fisionomia che non ci avevano colpito guardando la persona stessa. L'artista ci fa scoprire attraverso la sua opera ciò che la natura non ci aveva rivelato. Il viso ci appare in una luce nuova, con un'espressione che prima ci stupisce, poi ci seduce: «Tuttavia è sempre lui », diciamo contemplando i lineamenti del disegno, familiari e insieme sorprendenti. Cominciamo a renderci conto che la sua personalità era più ricca di quanto avessimo creduto fino a quel momento, che certi aspetti essenziali ci erano sfuggiti. D'altra parte, la vista abituale di una persona ci induce a farcene un'immagine adattata ai nostri bisogni personali, ai nostri gusti, al nostro temperamento. Trasformiamo ciò che vediamo; ciò che ci circonda assume il colore delle nostre reazioni quotidiane. L'emozione suscitata da un ritratto ci libera da questa visione deformante, ci aiuta a ritornare a un apprezzamento più obiettivo, perché ci mostra la stessa persona vista da un temperamento e da occhi diversi dai nostri.
Il volto storico di Cristo ci è giunto attraverso il Vangelo. Ma quell'immagine rischia di deformarsi senza rendercene conto, noi poniamo in rilievo certi tratti mentre ne lasciamo altri in ombra. Per ritornare a una rappresentazione più fedele della personalità di Gesù, non dobbiamo solo riprendere contatto con il testo evangelico, ma confrontare il quadro del Vangelo con il ritratto del « servo di Yahvé ». Presentato con linguaggio umano, questo ritratto è stato tuttavia composto da Colui che avrebbe avuto come compito, operando l'incarnazione nel seno della Vergine Maria, di conferire a Cristo la sua fisionomia umana. Molto tempo prima di dar forma nella carne al volto del Figlio di Dio, lo Spirito Santo ne ha abbozzato i tratti più sublimi. Ispirando ad un profeta ebreo la descrizione del « servo di Yahvé », egli ha rivelato con l'anticipo di cinque secoli il volto doloroso e trionfante del Redentore. Questo ritratto, dunque, non è una copia; è un progetto, un abbozzo, ma un abbozzo il cui autore è divino. Inoltre è tale da far colpo, da attirare la nostra attenzione su aspetti della personalità di Gesù che rischierebbero di passare inosservati a noi. Più si studia questo ritratto, più si è colpiti dal pensiero trascendente che l'ha ispirato, e più si è sorpresi nel constatare a quale punto la verità del Vangelo vi è già presente. Se non sapessimo con certezza che questo ritratto precede di molto la venuta di Cristo sulla terra, penseremmo che fu composto dopo tale venuta, perché ci induce a dire spesso: « è proprio lui »; persino nei particolari la somiglianza è sorprendente.
Se lo Spirito Santo ha disegnato la figura del Salvatore prima di realizzarla, l'ha fatto perché voleva fornire al popolo ebreo e all'umanità una prefigurazione degli eventi della nostra salvezza, ma specialmente una comprensione più profonda di quegli eventi dopo che essi avessero avuto luogo. Il ritratto del «servo di Yahvé » ha certamente preparato gli spiriti all'idea del Messia sofferente, senza riuscire d'altra parte a fare molta impressione sul popolo eletto, che sognava prima di tutto il trionfo e la gloria del Messia. Ma il suo compito preciso supera notevolmente quello di una semplice preparazione: è rivolto a tutti gli uomini e particolarmente a tutti i cristiani. Ci mostra come il destino del Salvatore fosse stato fissato nelle sue grandi linee e anche nei minimi particolari dalla volontà divina. Ci aiuta a capire ciò che la croce da parte sua ci insegna, ma che è così difficile da ammettere e penetrare a fondo, la funzione essenziale della sofferenza in un'impresa che vuole assicurare la liberazione e la felicità.
Inoltre, ispirando a un profeta la redazione di quei canti, lo Spirito Santo poneva in opera un principio di importanza fondamentale nell'economia dell'Incarnazione redentrice: Dio è l'autore di tutta la redenzione, ma la compie con la cooperazione dell'umanità. Dio è, attraverso l'ispirazione, l'autore del ritratto del « servo di Yahvé ». Ma egli ha stabilito e disegnato quel ritratto con il consenso di una intelligenza e di un cuore umani. Più tardi, alla vigilia dell'Incarnazione, lo Spirito Santo ricolmerà della pienezza della grazia colei che sarà destinata a diventare la madre del Salvatore; formerà l'intelligenza e il cuore di Maria perché ella possa a sua volta formare il Figlio a sua immagine, e perché tale immagine coincida con l'immagine divina. In colui che deve, a distanza di secoli, abbozzare il ritratto del Messia, lo Spirito Santo ha lavorato in modo meno completo, ma analogo. Per far sorgere quel volto straordinario e quel destino incredibile egli ha dovuto operare molto a fondo sull'intelligenza e sul cuore dello scrittore, elevare a poco a poco i suoi pensieri umani al livello dei pensieri divini. Indoviniamo questo lavoro constatando l'evoluzione delle idee da un canto all'altro. Ci rendiamo conto che è stato penoso per il profeta, perché ci risulterebbe difficile capire come egli sia stato guidato a sottolineare la funzione della sofferenza nell'opera del Messia, se non avesse dovuto riconoscere sempre più vivamente nelle proprie prove la mano divina. Lo scrittore ha dovuto trarre dalla sua vita e dal suo dolore il ritratto del Messia sofferente. Non che, prendiamo nota, abbia voluto ritrarre se stesso; al contrario egli si allineava tra i peccatori per i quali un Redentore innocente si offriva in espiazione. Ma ha potuto capire la nobiltà e la bellezza della sofferenza solo dopo aver accettato per sé il dolore e senza dubbio la persecuzione. Questo magnifico ritratto egli l'ha dunque pagato ben caro. Ma è anche un onore per lui l'avervi concorso con tutto il suo essere.