La pandemia del dolore e la speranza
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Riflessioni e preghiere del vescovo di Bergamo, una delle città più provare dalla pandemia Covid 19. Cinque grandi capitoli: dolore, solitudine, preghiera, limite, comunità. A fronte del senso di vuoto, di rabbia, di disperazione, si erge la forza della preghiera, il valore di un sorriso, il vincolo di una comunità, piccoli segni di speranza e, soprattutto, un sentimento profondo di fede e di condivisione con i sofferenti.
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Anteprima del libro
La pandemia del dolore e la speranza - Francesco Beschi
Francesco Beschi
La Pandemia del dolore e la Speranza
© 2021, Marcianum Press, Venezia
Marcianum Press
Edizioni Studium S.r.l.
Dorsoduro 1 - 30123 Venezia
Tel. 041 27.43.914 - Fax 041 27.43.971
marcianumpress@edizionistudium.it
www.marcianumpress.it
Impaginazione e grafica: Massimiliano Vio
ISBN 978-88-6512
ISBN: 9788865127735
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
Prefazione
Introduzione
Parte I
Lo schianto
Signore, abbi pietà
Il vuoto
Il fuoco
La rabbia
Quante volte?
L’uragano
L’alleluia
L’argine
La carezza
Il giardino
La spada
Parte II
Il deserto
Gli occhi
L’agguato
La disperazione
L’acqua viva
La prova
Parte III
L’incertezza
Il dono
Il segno
La presenza
Parte IV
La forza
La supplica
Il sapore
Parte V
La ricchezza
L’esempio
La piccola Chiesa
Desiderare l’infinito
L’unico pane
I volti
I figli
Un santuario di preghiera
La cura
La porta
La sorgente
DIRE GRAZIE
Ringraziamenti
IL CALAMO – CATECHESI
Alle donne e agli uomini
della comunità bergamasca
Prefazione
La pandemia del dolore e la Speranza: fin dal titolo questa preziosa raccolta degli interventi con cui il vescovo Francesco ha accompagnato il suo popolo in questo primo anno di pandemia fa emergere i due poli della nostra esperienza di cristiani colpiti dal flagello del Covid-19.
Passo dopo passo, seguendo la scansione dei tempi liturgici o le tracce della storia di fede delle nostre terre lombarde (i santuari ei luoghi della pietà popolare, come quelli della carità e della cura…), le parole del padre e del pastore infondono conforto ai figli: « Se il dolore rischia di mangiarci l’anima, il Signore la conserva gelosamente e premurosamente nelle Sue mani».
E li accompagnano fino all’ultimo passaggio: « Noi crediamo che nella morte in croce di Gesù, Tuo Figlio, e nella Sua sepoltura, ogni crocifisso, ogni morto, ogni sepolto sia riscattato dall’abbandono, dall’oscurità, dal nulla».
Così il ritmo vitale della Liturgia non è annullato da quello mortifero della pandemia. Percorrendo le vie finora inesplorate aperte dai nuovi mezzi di comunicazione,nessuna possibilità di condivisione viene trascurata facendo propria la passione del buon Pastore perché nessuno vada perduto.
« Lo Spirito Santo – dice il vescovo Francesco – dà forma alla vita nella sua interezza e integralità, e la Chiesa è chiamata a servire la vita lì dove la vita accade». Si chiama testimonianza.
Riconoscere la testimonianza e rilanciarla, ad edificazione di tutti, è un importante compito del pastore. Con convinzione faccio mio l’incoraggiamento del vescovo Beschi alla sua Chiesa:
«Rendo grazie per quando ciascuno, nei gesti quotidiani, è stato capace – e lo sarà ancora – di manifestare la luce e la forza dello Spirito Santo, facendo della propria esistenza, delle famiglie, delle comunità e delle città, dei luoghi di lavoro e di cura, delle oscurità e del dolore delle prove, facendo di tutto questo la storia di un Dio che, per l’uomo, dona Se stesso».
+ Angelo card. Scola
Arcivescovo emerito di Milano
Imberido di Oggiono, 19 marzo 2021
San Giuseppe, Sposo della Beata Vergine Maria
Introduzione
A fulgure et tempestate – Libera nos Domine!
A peste, fame et bello – Libera nos Domine!
A flagello terrae motus – Libera nos Domine!
Ut fructus terrae dare et conservare digneris – Te rogamus, audi nos!
Litanie dei Santi
1. Nell’antica sequenza liturgica risuona potente l’eco del testo dell’ Apocalisse: «Ed ecco un cavallo di colore pallido e colui che lo cavalcava si chiamava Morte (Thánatos), e gli teneva dietro l’Inferno, e gli fu data potestà sopra le quattro parti della terra per uccidere con la spada, con la fame, con la morte e con le bestie feroci» (6,7-8). Il terribile cavallo pallido
, cioè di colore livido, cadaverico, è una morte che uccide con ogni mezzo. Il vocabolo greco thánatos, in questo caso, cerca di fotografare quella particolare esperienza di morte collettiva, simultanea, in apparenza inspiegabile, che nei secoli abbiamo imparato a chiamare pestilenza
e con la quale credevamo di non dover più fare i conti, almeno nella maniera convulsa e violenta dei nostri antenati. L’ingresso del Covid-19 sulla scena del mondo ci ricorda invece che una malattia può sorgere e propagarsi anche in società tecnologicamente avanzate, e se questo ci coglie di sorpresa è solo perché un tempo, dinanzi agli immani flagelli, l’uomo reagiva teatralizzando
e quindi addomesticando
il nemico: lo accoglieva in casa, imparava a conviverci. Nei Trionfi della Morte affrescati sulla soglia o all’interno dei luoghi sacri (meraviglioso quello nell’Oratorio dei disciplini a Clusone, 1484-1485), la fede insegnava a non assolutizzare il pericolo e a sperare nella misericordia divina, confidando nella vita eterna. È un procedimento mentale, prima ancora che religioso, e l’abbiamo smarrito abbeverandoci alla fonte delle magnifiche sorti e progressive
– nell’ironica descrizione di Leopardi –, maliziosamente subdole nel trasformare i luoghi di cura in templi della scienza.
2. Il presente volume raccoglie gli interventi del vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, nel tempo oscuro della pandemia. L’arco temporale abbraccia quella che oggi – a distanza di pochi mesi – definiamo retrospettivamente prima ondata
del virus, ma che allora ci appariva come un’esperienza assoluta, priva di riferimenti, avvolta nell’incertezza, di cui subivamo l’inizio e della cui fine potevamo solo sperare. Sono interventi assai diversi tra loro, soprattutto nella forma, orale ma anche scritta (omelie, preghiere, rosari, lettere alla comunità e alle professioni), e tutti risentono delle particolarissime restrizioni imposte dalle autorità politiche e ispirate dalle autorità sanitarie, soprattutto nel divieto di ritrovarsi in chiesa per partecipare alla Messa. Il primo testo è del 26 febbraio 2020 (Mercoledì delle Ceneri), l’ultimo del 26 agosto (Pontificale di Sant’Alessandro), cui si aggiunge l’omelia pronunciata in occasione della Messa di Ringraziamento di fine anno: sul fronte sanitario, si va dallo scoppio della pandemia in terra bergamasca fino al termine dell’emergenza, l’allentamento delle misure di sicurezza, il ritorno all’agognata normalità, poi rivelatosi – adesso possiamo dirlo – tragicamente effimero. Nella scansione del tempo liturgico è coperto tutto il denso periodo che inizia con la Quaresima, attraversa la Pasqua, supera la Pentecoste e approda infine al Tempo ordinario. Abbiamo scelto di non presentare i testi secondo l’ordine cronologico, preferendo raggrupparli in cinque capitoli che rispecchiano altrettanti temi e consentono meglio di cogliere l’ampiezza e la profondità della riflessione. Essi sono: il dolore, la solitudine, il limite, la preghiera, la comunità.
3. Il primo incontro con la pandemia è l’esperienza del dolore. In primavera si parlava apertamente di guerra, la metafora bellica voleva descrivere la violenza del virus. Un errore, a nostro avviso, perché il conflitto presuppone sempre la presenza di un nemico con cui è possibile scendere a patti, fosse anche il patto estremo e più disperato, la resa. Impossibile, purtroppo, con il Covid-19. È vero però che l’esperienza della malattia – di ogni malattia – ci riporta con la mente al campo di battaglia, là dove la sofferenza regna sovrana, colpisce e paralizza [1] . Di fronte al dolore ci sentiamo soli, e soli perché abbandonati. Cerchiamo un conforto che non arriva [2] . Il dolore non entra ragionevolmente
nell’esistenza umana, non trova il suo posto in valigia come una camicia ben stirata accanto alle altre, prima del viaggio. È un piede dentro una scarpa troppo stretta, è una giacca più piccola di tre taglie. Più la realtà è crudele, tanto più forte è la tentazione di abbassare lo sguardo: ma non è difficile riconoscere il volto di Giobbe dietro le tende verdi dei reparti di Terapia intensiva, congestionati al di là di ogni limite. Ci rigiriamo insonni nel letto cercando invano un sollievo [3] .
Di tutti i campi di battaglia, questo è il più difficile per la fede, perché conduce inesorabilmente al dilemma: Dio e/o il dolore? Giobbe paragona Dio a un arciere sadico che scaglia frecce contro di lui, a un leopardo che affila gli occhi su di lui, al generale trionfatore che sfonda il cranio dei vinti. L’urlo del male risuona con forza e, irresistibile, scava nella nostra mente un pozzo senza fondo. Colpita al cuore, la testa reagisce in modo scomposto [4] . Gli amici di Giobbe, quando lo vedono da lontano, non lo riconoscono più e scoppiano a piangere… Si siedono con lui per terra sette giorni e sette notti senza dirgli una parola, vedendo l’atrocità della sua sofferenza. Il dolore isola, e nella solitudine è più facile sbandare [5] . La prova non unisce, la prova divide [6] , e il timore spezza il respiro [7] .
Giobbe non è solo pazienza di fronte al dolore innocente: la malattia ha capovolto radicalmente e senza ragione l’esistenza felice di un uomo giusto, onesto e pio. È la ribellione di chi, la pazienza, l’ha persa. Però non rifiuta il mistero del male, non pretende di ricondurlo alla ragione umana: lo affida a un pensiero superiore che supera ogni orizzonte terreno. Folgorante l’intuizione di Salvatore Natoli: «Giobbe – suggerisce il filosofo – sa che Dio è fedele e se lo chiama in causa non lo fa per condannarlo, ma perché non lo vuole perdere». Giobbe insomma prende la disperazione e ne fa molto di più: adotta il male nella sua forza di scandalo necessario. Trovare un argine alla violenza non è facile, men che meno conservando un atteggiamento virile [8] . È qui, in questo momento, il più terribile, quando siamo in acqua e non tocchiamo, e manca la terra sotto i piedi, che non bisogna stancarsi di cercare la luce [9] . Soprattutto quando tutto sembra negare ogni prospettiva di futuro [10] .
4. Quel che colpisce, nell’esperienza del Covid-19, non è la pandemia in sé; in fondo, le catastrofi naturali sono sempre esistite, la febbre spagnola ha mietuto cinquanta milioni di vittime, molte più di quelle che ne avrà fatte il Coronavirus prima dell’introduzione di un vaccino. Quel che colpisce è il nostro modo di reagire, l’incapacità di reggere alla forza d’urto delle ondate, il nostro annaspare nel mare dell’incertezza. Se vogliamo cercare il bandolo della matassa in cui ci sentiamo avvolgere e soffocare, come Laocoonte nelle spire dei serpenti, serve resistere alle sirene rassicuranti di etiche disinvoltamente prêt-à-porter: ci farebbero sentire subito meglio, ma non porterebbero molto lontano. Purtroppo la crisi che stiamo attraversando supera di gran lunga il crinale sanitario e interroga la sanità di tutto il nostro pensiero, le scelte politiche che sono state fatte, il modello sociale, politico ed economico che abbiamo deciso di darci. Avevamo (e forse – tanto vale confessarlo subito – abbiamo ancora) la spregiudicata tendenza a considerarci al riparo da questo tipo di catastrofi, sanitarie e naturali. Orgogliosi di aver addomesticato la folgore e la tempesta (dimentichi dell’elementare, ruvida saggezza dell’antica rogazione), ci vantavamo di aver sottomesso anche la fame, ma facendo finta di dimenticare che il discorso vale per noi e solo per noi, l’Occidente opulento ed egoista che prospera indifferente all’indigenza di popolazioni intere, colpevoli solo di essere troppo distanti dalla nostra vista. Vale anche per i terremoti e per le guerre, troppo rari e troppo circoscritti per rendere davvero universale, nella compassione, l’affanno delle vittime. Ma si sa, lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
La pandemia, invece, ci colpisce ab imis fundamentis, scuote, sconvolge, macina e alla fine sfarina certezze secolari costruite appoggiando pazientemente, uno sopra l’altro, i mattoncini di quella corsa talvolta sfrenata di cui non possiamo più fare a meno ed alla quale diamo il nome di progresso. È qui la sorgente dello scoramento, madre di ogni depressione. La crisi interroga la nozione stessa di progresso medico alla luce di uno scenario non certamente inedito, ma di cui volentieri avevamo dimenticato l’opacità. È l’angoscia in cui precipitiamo quando dobbiamo curare malati senza avere una terapia risolutiva, o senza averla per tutti, vivendo nel buio dell’incertezza, senza sapere se i trattamenti siano davvero efficaci. È qui che si apre la crepa più profonda. Tutti i cittadini sono potenzialmente malati e quindi sono tutti pazienti da curare, e su tutti incombe la responsabilità non solo di sorvegliare il proprio stato di salute, e quindi intercettare tempestivamente i segni della malattia, ma anche la responsabilità di non contaminare gli altri, per non mettere in pericolo il sistema intero. Per questo, la crisi ci interroga sul nostro modo di abitare il mondo, se vogliamo capire in quale mondo vogliamo vivere. Anche solo per evitare di inciampare un’altra volta nella questione dell’accesso limitato alle cure, nella saturazione delle terapie intensive. A differenza degli animali, che nascono dotati di artigli, gusci e corna per difendersi, l’uomo nasce vulnerabile e tale resta a lungo, se non per sempre. Per questo ha bisogno di ricorrere alla tecnica per sopravvivere, come ammonisce Prometeo, il cui mito sta conoscendo una seconda, inaspettata giovinezza.
« A peste, fame et bello, libera nos, Domine!»: nelle Litanie dei Santi, la peste viene prima nell’ordine delle catastrofi, segno di rispetto per l’avversario più temuto. Ma se una volta l’umanità trovava conforto nel pensiero di un Dio che interviene immediatamente e direttamente nella storia, per indirizzarne le sorti e raddrizzarne le storture, da un po’ di tempo eravamo caduti in un trabocchetto peggiore, l’illusione che la scienza fosse capace di spiegare ogni catastrofe naturale, e quindi arginarla, e renderla inoffensiva. Com’è dolce il canto delle sirene della modernità, accompagnate dalla fertile inventiva delle scienze, instancabili nell’animare la religione della ragione… Smarrite d’un colpo le secolari certezze su cui posava il nostro quieto vivere, ci ritroviamo esposti ad angosce che credevamo confinate nel rassicurante recinto del passato remoto. Invece, inesorabile, il presente ci consegna a domicilio i vuoti a rendere di certezze troppo, troppo soffici per remare controcorrente verso l’avvenire, quando tutto sembra contro di noi e contro ogni ragionevole speranza [11] .
5. Era da tempo immemore che non vedevamo le nostre città deserte. Ora, sotto i nostri occhi, diventano città fantasma, e le strade improvvisamente