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Appuntamento a Chinguetti. Le vie del destino
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Appuntamento a Chinguetti. Le vie del destino
E-book168 pagine2 ore

Appuntamento a Chinguetti. Le vie del destino

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Info su questo ebook

Eva e Leonardo per sentirsi felici hanno bisogno di vivere con intensità, anche a costo di sfidare la sorte. Non sono una coppia incline alle convenzioni sociali, ai viaggi organizzati e alle destinazioni turistiche. Si offrono amore e libertà reciproci, accollandosene i rischi. Nonostante il tentativo di restare sempre al timone della propria vita, si imbattono in  appuntamenti con il destino che mettono a dura prova le loro sicurezze ed equilibri. Non sono immuni dalla violenza di un mondo sempre più ostile, in cui il pericolo di attentati è onnipresente, Madre Natura (forse esasperata dal comportamento degli umani) a volte diventa una matrigna spietata. E  nemmeno il rassicurante ventre della famiglia di origine si rivela quel luogo idilliaco in cui rifugiarsi.
LinguaItaliano
Data di uscita14 ott 2019
ISBN9788868273149
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    Anteprima del libro

    Appuntamento a Chinguetti. Le vie del destino - Cristina Cristofoli

    Wilde)

    Capitolo I

    Eva

    Gli uomini?

    […] Il vento li spinge qua e là.

    Non hanno radici, e questo li imbarazza molto.

    (Antoine de Saint-Exupéry)

    O la ami o la odi. L’Africa ti fa sentire una minuscola creatura. Un inutile parassita che Madre Natura tollera per benevolenza ma che, da un momento all’altro, potrebbe scrollarsi di dosso come un enorme mammifero infastidito dalle mosche che gli si posano sul corpo.

    Eva era ancora in aereo, con addosso un nuovo ciondolo a forma di Africa, stretta tra una passeggera troppo grassa e un uomo rapito dai videogiochi, come un fanciullo che ne scopre il fascino per la prima volta.

    Stranamente aveva anticipato di quasi due settimane il suo rientro. Non le era mai successo prima. Non sapeva decifrare l’esatto motivo di questa improvvisa nostalgia di casa, forse dovuta a un lieve malessere fisico degli ultimi giorni o, forse, all’inconfessabile desiderio di riabbracciare il proprio compagno con il quale aveva concordato, per l’ennesima volta, vacanze separate. Probabilmente non sentiva più il bisogno di tanta libertà. Cominciava ad anteporre il noi all’io e così aveva deciso di non completare le tre settimane di vacanza ma di limitarsi a una, con un rientro a sorpresa che avrebbe comunicato al compagno solo una volta atterrata.

    «What is the purpose of your life, my little daughter?»¹

    Nel piccolo schermo del sedile erano apparsi alcuni fotogrammi di un documentario dedicato a Muhammad Ali che si rivolgeva con dolcezza alla figlia più piccola. La bimba, forse cogliendo la profondità della domanda, non sapeva dare risposta. Il padre allora le aveva rivolto un quesito più semplice: «What is the purpose of the cow?»

    Questo la bimba lo sapeva: «La mucca ci dà il latte!» aveva esclamato.

    «What is the purpose of the sun» l’aveva incalzata il grande pugile.

    «Il sole ci riscalda» aveva risposto con prontezza la vocina dall’altra parte del telefono.

    «Sì, ci scalda e fa crescere le piante» aveva puntualizzato con saggezza la voce maschile. «Ebbene,» aveva concluso il grande Cassius Clay «tu sei un human being, un essere umano, e devi avere un purpose nella tua vita».

    Eva aveva dato una furtiva occhiata al dizionario compresso nella app del suo telefonino: indicava le parole scopo, fine, intenzione come traduzioni di purpose. Ma si specificava che, in certi contesti, purpose significa anche determinazione, ostinazione, fermezza. Sicuramente parole consone al colosso dall’enorme massa muscolare, ma dalla ancora più immensa forza di volontà.

    Era rimasta ipnotizzata dalla domanda del pugile: «What is the purpose of your life

    Se l’era sempre chiesto. In certi periodi con maggiore insistenza, dandosi evasive risposte. Per anni si era ostinata a cercare di dare un senso alla sua vita. Riempiva le sue giornate con le più svariate attività e obiettivi, con il solo risultato di colmare quel vago senso di vuoto che a volte la assaliva, salvo ritrovarsi con un ancor più frustrante vuoto di senso: tutto ciò che faceva, per quanto apparentemente positivo, le scivolava tra le mani come la sabbia, lasciandola con un fastidioso senso di inutilità. Poi, più umilmente, aveva intuito che il senso della sua vita doveva trovarlo, non darselo e che la strada giusta era quella della consapevolezza, non della costante ricerca dello stupore e delle emozioni forti. Ma nemmeno grazie a questa illuminazione era approdata a una risposta soddisfacente. A volte cercava di convincersi che il senso della vita fosse semplicemente viverla. Era un ragionamento tautologico, ma profondamente vero. Eppure non le bastava. Sembrava una di quelle risposte che tanto piacciono agli adulti quando vogliono togliersi dai piedi i figli capricciosi: «No, perché no».

    Forse per questo Eva amava tanto l’Africa. Perché le dava la sensazione di un ritorno al primordiale, al luogo in cui tutto ebbe origine. Con budget di gran lunga più ridotti avrebbe potuto viaggiare in paradisi asiatici, con mari cristallini, ristoranti prelibati e hotel di alto livello dove servizievoli camerieri sono pronti ad anticipare qualunque desiderio. E invece no. Ogni volta sceglieva il caldo polveroso dell’Africa, con i suoi alberghi decadenti, il personale sciatto e inaffidabile, il cibo impresentabile, la promessa di una buona doccia puntualmente negata. Si giustificava dicendo che non amava il caldo umido dell’Asia, la sua eccessiva densità di popolazione e la laboriosità dei suoi popoli che non si fermano mai. Ma non ci credeva nemmeno lei.

    L’Africa, l’aveva nel cuore da quando era bambina e sognava di diventare veterinaria per poter curare i grandi mammiferi della savana. Passava interi pomeriggi incantata davanti alla televisione a guardare i telefilm sugli animali africani e i loro dottori, come Nata Libera, la storia della leonessa Elsa e dei suoi umani, i coniugi Adamson. A volte li rivedeva ancora e, dopo tanti anni, la facevano ridere con le loro rappresentazioni stereotipate dell’uomo bianco evoluto e dell’africano un po’ tonto e bisognoso di aiuto. «Sì, bwana!» perfino il doppiatore quando pronunciava queste parole, simulando un ridicolo (presunto) accento africano, in cuor suo forse un po’ si vergognava.

    Chi era veramente Eva? La prima donna progenitrice del genere umano, secondo la Bibbia. Il nome che Adamo, primo uomo secondo la Genesi, ha dato alla sua compagna dopo averla chiamata donna. Un nome essenziale, ma al tempo stesso solenne e denso di significati. A Eva piaceva quel nome così stringato, formato solo da tre lettere, di cui due suoni vocalici: se non fosse stato per l’odiosa pronuncia tedesca (Effa) e l’abitudine a usarlo come imprecazione (puttana Eva! ) sarebbe stato perfetto.

    Si addiceva al suo carattere apparentemente estroverso ma, nella realtà, incline alla riflessione e alla continua ricerca dell’essenza delle cose, nella consapevolezza che le verità a cui gli esseri umani hanno accesso sono per lo più parziali e ingannevoli. Eva si era sempre chiesta come facessero i genitori ad azzeccare nomi adatti ai propri figli ancor prima di conoscerli e poi, viceversa, a comprenderne così poco il carattere quando li crescono. Spesso si domandava come sarebbe stata nel ruolo di madre. Il suo senso di empatia le consentiva di decifrare istintivamente gli stati d’animo di qualunque essere vivente, persona o animale. Ancora prima di averlo elaborato nella mente, ciò che accadeva lo sentiva nelle viscere ed era consapevole che, nella sua vita, era sempre stata la pancia a decidere. Poi la testa aveva puntualmente creato l’alibi e le necessarie giustificazioni.

    Eva stava tornando dall’ennesimo viaggio di volontariato a contatto con la natura e, ripensando all’esperienza vissuta, si sentiva felice.

    Il contatto fisico con gli animali la elettrizzava, sia che si trattasse di scattanti felini che di placidi pachidermi. Percepirne il calore del corpo e le vibrazioni della muscolatura le dava puro piacere. La affascinavano soprattutto i mammiferi per il loro volto espressivo e il loro body language capace di comunicare inequivocabilmente paura, aggressività, sottomissione e affetto. Provava sicuramente una minore attrazione per i rettili e gli insetti, di cui però ne apprezzava non solo le forme inconsuete e i colori sgargianti, ma soprattutto la grande capacità di trovarsi uno spazio in un creato popolato da animali ben più grandi. La rassicurava l’idea che Madre Natura, nella sua generosità, desse una chance a tutti: ciascuno, anche il più piccolo insetto, aveva una sua utilità, il suo purpose nel creato.

    Nella sua vita Eva avrebbe desiderato avere più animali. I pochi con cui aveva potuto relazionarsi, suoi o di conoscenti, li aveva tutti nel cuore: Arturo, il micio bianco e nero, suo compagno di giochi dell’infanzia; Alì, il suo gattone tigrato dell’adolescenza che tornava sempre ferito dai combattimenti; Frida, l’allegro cocker nero degli amici di famiglia con cui si rotolava sui prati; Tito, il gigantesco terranova dei vicini di cui si occupava in loro assenza. In età adulta il fox-terrier Puk con il musetto affusolato, il pelo lanoso e l’aria da peluche, per arrivare fino alla micia psicopatica dei vicini che aveva un nome da maschio e passava intere giornate immobile, seppure con la coda agitata che tradiva il suo nervosismo, ad aspettare in fondo al giardino una talpa all’uscita dalla sua tana. Erano passati mesi da quando i suoi padroni avevano stanato ed eliminato la bestiola, ma la gatta ogni mattina si riposizionava e attendeva ostinata.

    Eva non si vergognava ad ammettere che le era più facile voler bene a un’affettuosa creatura a quattro zampe, che non ti chiede nulla e ti dà tutto, senza giudicarti né tanto meno criticarti, piuttosto che a un umano, con le sue intransigenze e spigolature caratteriali. Ipotizzava che fosse per questo motivo, oltre che per un fenomeno di moda, che i progetti di volontariato a contatto con gli animali si fossero diffusi nei luoghi più remoti del pianeta e avessero coinvolto qualunque tipo di specie: felini, erbivori, roditori, primati, rettili, anfibi. Gli esperti di marketing sanno che i volontari, gratificati dall’idea di impegnarsi in un progetto buono e utile, sono disponibili non solo a lavorare gratuitamente, ma anche a mettere mano al proprio portafoglio. Dover pagare per poter lavorare è un ossimoro, eppure è una formula che trova proseliti.

    Eva si rendeva conto dei pericoli insiti nel volontariato e nelle assurde commercializzazioni che ruotano attorno a esso. Ogni tanto, con tono serio, proclamava di voler fondare un Nutria orphanage per dare la possibilità a volontari di tutto il mondo di occuparsi, ovviamente a pagamento, dei prolifici toponi che da anni popolano i fossi dei comuni italiani. Era sicura che sarebbe stata sufficiente qualche foto in cui le bestiole appaiono con sguardo languido e indifeso, accompagnate da uno slogan elementare (Nutri le nutrie) per attrarre ingenui volontari da tutto il mondo. E magari pure qualche turista pronto a pagare per provare l’emozione di accarezzare una nutria o darle del cibo, come già accade in molti paesi africani in cui i tour operator inseriscono tra le attività (a pagamento! ) anche il poter osservare un volontario (umano) che lancia pezzi di carne (per lo più di qualche malcapitato asino) a un leone affamato, o poter toccare un pitone o qualche altra improbabile bestia.

    Per Eva, partecipare a un progetto di volontariato rappresentava semplicemente un modo per essere accolta con un briciolo di sincero calore dalle popolazioni autoctone che, altrimenti, identificano come potenziale fonte di denaro ogni viaggiatore bianco (chiamato, a seconda degli idiomi locali, toubab, muzungu o con altri termini dal vago sapore dispregiativo). Per gli africani, tutti gli europei sono ricchissimi. Il che, in effetti, ha un fondo di verità: come sempre tutto dipende dai termini di paragone.

    1 Qual è lo scopo della tua vita, piccola mia?

    Capitolo II

    Leonardo

    C’è una tale sproporzione tra quello che uno è

    e quello che gli altri pensano egli sia,

    o almeno quello che dicono di pensare che sia!

    (Albert Einstein)

    Il deserto era la sua passione. Da adolescente Leonardo era un ragazzo introverso e studioso, con una maschera arrogante che portava per nascondere la sua timidezza.

    Il nome deriva dal longobardo Leonhard. Prende origine dall’unione di due parole: lewo, leone e da hard, forte, coraggioso. Il suo significato è dunque: forte come un leone. Similmente a Eva, anche Leonardo si riconosceva nel suo nome che, oltretutto, richiamava subito quello del celeberrimo scienziato del Rinascimento. Dettaglio, quest’ultimo, che contribuiva ad alimentare il suo ego.

    Leonardo effettivamente eccelleva in tutto: a scuola, nello sport e in qualunque attività si impegnasse. Aveva anche un fisico atletico e un volto intrigante, che non passava inosservato. Era molto ambìto tra le donne di tutte le età, a cui si concedeva per brevi flirt, con scarso coinvolgimento emotivo.

    Non era attratto da una specifica tipologia di donne: brune o bionde, magre o formose, giovani o mature. Gli bastava concentrarsi su un singolo dettaglio piacevole per renderle meritevoli di una breve avventura sessuale, che aveva caratteristiche a metà strada tra il ludico-ginnico e il ludico-ricreativo. La noia però subentrava presto, a volte dopo poche ore o pochi giorni, al massimo entro una manciata di mesi. Non lo faceva con cattiveria, con la precisa volontà di ferire o trattare male la partner di turno. Gli sembrava un comportamento normale, di cui non faceva mistero: non prometteva mai nulla, né giocava a fare il romantico. Era onesto e coerente, dal primo sguardo al momento in cui si liberava dell’occasionale preda, a cui faceva capire le regole del gioco fin dall’inizio. Era il tipo di uomo che faceva impazzire donne fragili e adoranti che quasi ambivano a farsi trattare male, perché affascinate da un carattere apparentemente così forte e sicuro di sé. Ed era proprio quella la tipologia femminile che, in cuor suo, Leonardo più disprezzava e di cui non riusciva ad ammirarne dolcezza e affettuosità.

    La carenza di empatia aveva origini lontane, ma Leonardo ancora non ci aveva fatto i conti.

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