Tempeste di Arcobaleni
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Anteprima del libro
Tempeste di Arcobaleni - Pyera Sestini
sempre
Prefazione
I racconti brevi di questo libro provengono da quattro diverse raccolte: Farfalle nello stomaco, Homespun Miracles, Scars and Stars e Destiny Altering Encounters.1
Ho incluso in questo volume solo una selezione delle storie che ho scritto dal 2000 al 2017 e ho voluto presentarle in ordine cronologico.2
Ho sempre avuto una grande passione per il racconto breve, un genere letterario spesso sottovalutato proprio a causa della sua brevità che, per molti, costituisce uno svantaggio rispetto al romanzo. Per me, invece, la sua brevità e immediatezza costituiscono un pregio.
Quando pubblicammo Homespun Miracles e Scars and Stars,3 scelsi di dedicare l’introduzione alla short story, quel genere letterario sul quale ero ben documentata e che avevo imparato ad apprezzare durante i miei studi universitari. Le due raccolte erano nate come testi di lettura per lo studio della lingua inglese ed erano corredati da numerosi esercizi per la comprensione e la produzione curati da Rossella Bracci e da illustrazioni di Lucia Sabatini.
Ma non intendo qui addentrarmi sulle caratteristiche della short story perché non è la sede adatta. Per il lettore di questo libro mi preme solo ricordare quanto segue.
Leggere un racconto breve significa osservare la punta di un iceberg: quello che non viene detto è di gran lunga di più di quanto viene svelato dall’autore. Il lettore dunque, con le poche informazioni a sua disposizione, diviene il vero protagonista della storia: un investigatore che riannoda i fili di una narrazione concentrata al massimo su un episodio, una giornata, un momento epifanico. O, perché no, un vero e proprio piccolo miracolo, o una tempesta di arcobaleni, come ho voluto chiamare questi eventi. Da qui il titolo della raccolta.
Farfalle nello stomaco
Introduzione
Dovevo rimuovere quella cartella per far spazio a nuovi documenti. E non era tanto un problema tecnico, quanto un bisogno esistenziale. Dovevo dare più spazio ai futuri progetti. E l’ho fatto. Però questi racconti li ho conservati, perché non potevo cancellare anche la mia memoria e perché mi piacevano, in fondo. Poi, ho fatto ancora di più, come potete vedere: li ho pubblicati. Questo coraggioso passo successivo mi ha permesso, in un certo senso, di prendere le distanze dal passato e di staccarmi definitivamente da essi.
Farfalle nello stomaco è una raccolta di otto racconti4, ritagli, frammenti di quotidianità, dove anche le piccole cose hanno il loro peso e dove l’amore ne ingigantisce l’importanza fino a trasformarle in eventi.
Protagonista è sempre la donna, prima giovanissima, poi più matura ma ancora in grado di provare forti emozioni e turbamenti; una donna che si gira volentieri a guardare al passato, che ama fantasticare, ma che non esita, all’occorrenza, a tornare al presente, a volte scomodo e meno gratificante. Sebbene un po’ nostalgica e, a tratti, malinconica, sa mettere un punto e andare da capo, quando è il momento.
E se sente quelle farfalle nello stomaco è perché è viva e l’amore è la cosa più importante della sua vita.
L’orecchino
Era certa di non essere la sola unica vittima di quella cosiddetta ansia da stress che, al pari delle forme più marcatamente cliniche, cioè delle depressioni, poteva anche frenare ogni slancio ed entusiasmo, ma il fatto di sentirsi in buona compagnia, come si soleva dire in certi casi, non le era di alcun conforto. Pensieri ossessivi, piccole manie, l’accompagnavano durante la giornata e per quanto cercasse di dirigere i pensieri altrove, sui problemi legati alla quotidianità, piano piano quel pensiero finiva per riaffiorare, fino a martellarle il cervello. Quando si cerca protezione tra le mura domestiche e si ha paura di varcare la porta di casa, la lettura può essere l’unica ancora di salvezza. Non voleva che anche il cervello finisse con il paralizzarsi.
Aveva provato anche a leggere romanzi e thriller dagli intrecci impossibili da seguire e si era arresa. La poesia poteva distrarla e magari placarle l’animo, bastava trovare quella giusta. Pensò perfino di rileggere i classici, quelli che ti fanno studiare al liceo e che finisci con l’odiare perché fai fatica a capire, Keats, Wordsworth, Coleridge, ma specialmente Keats, che le era sempre piaciuto di più, con la sua ossessione della permanenza, della caducità dell’esistenza e dell’arte come sola risposta all’angoscia esistenziale. Però troppi aggettivi, troppi dettagli. Dove trovava il tempo di osservare così minuziosamente un fiore, o un insetto? Ricordava il tempo passato a cercare le parole nel dizionario e quello speso a scrivere il significato con un lapis a punta sottile proprio sopra la parola. Neanche Keats funzionava perché per goderne bisognava avere la mente sgombra e la capacità di concentrarsi.
Era un circolo vizioso: più cercava di rilassarsi, più la tensione aumentava, saliva, saliva, fino a diventare quasi panico, immobilizzante sensazione. Cosa l’aveva ridotta così: il lutto, la malattia, e i problemi della convivenza in una casa che non era mai riuscita a sentire completamente sua. E ora era di nuovo Natale e si accorgeva che, malgrado tutto, i giorni passavano in fretta, con una velocità impressionante, nonostante l’apparente monotonia, passavano inesorabili, lasciandola sempre più confusa di fronte alla vita e al suo significato.
La morbidezza della trapunta del suo letto era una grande consolazione. Era stata una scelta davvero azzeccata quella: le lenzuola abbinate facevano la loro comparsa con una risvolta impeccabile, i morbidi cuscini disposti con cura, ma in maniera apparentemente casuale, le davano l’impressione di sdraiarsi nel letto di un harem, era tutto così sensuale, nonostante l’apparente sobrietà dei colori.
Mamma, guarda cosa mi ha regalato Davide!
Il tempo volava, pensò. Era la verità, non un luogo comune. Il tempo volava da un Natale ad un altro, da un compleanno ad un altro, da un anniversario ad un altro. E sembrava non voler significare nient’altro.
Quando la vide correrle incontro, si rese conto di quale incredibile metamorfosi si fosse compiuta sotto i suoi occhi. Si era persa i vari stadi, distrattamente, troppo immersa nei suoi problemi. Si era persa il meglio senza assaporare i mutamenti, senza saper fermare i momenti più significativi. Non aveva mai assaporato il presente. Con il fardello del passato sulle spalle si preoccupava solo del futuro. Di certo mancava qualcosa alla sua vita, qualcosa che doveva starle dentro e che invece non c’era.
È un profumo, mamma!
Esclamò la figlia venendole incontro e gettandosi sulla sua trapunta con la bottiglietta in mano.
Attenta!
le disse mentre l’abbracciava. Stettero strette per un po’, in silenzio. Poi le disse:
Adesso torna di là, iniziate ad addobbare l’albero. Ti raggiungo in un momento.
Pensò che forse avrebbe dovuto iniziare lei e che la figlia e il suo amichetto, due bambini di appena dodici anni (erano nati ad appena un giorno l’uno dall’altra), non erano certo in grado di dare alle decorazioni quella disposizione che lei voleva. Se c’era una cosa che odiava in un albero di Natale era l’accozzaglia di palle di diversi colori senza una precisa simmetria.
Seguì con lo sguardo la figlia fino alla fine del corridoio, dove avrebbero sistemato l’albero. Notò come le somigliava fisicamente, ma il carattere era del padre, pensò.
Li vedeva bene dalla sua camera da letto, che si trovava davanti al lungo corridoio. Scartavano le palle senza far troppa attenzione e le collocavano sui rami come se stessero facendo un gioco, ignorando la storia di ognuna di loro. Non sapevano che ciascuna aveva una storia, talvolta perfino un nome: c’erano quelle del padre bambino che andavano conservate con una cura particolare, perché non erano infrangibili, anzi delicatissime; quelle della mamma bambina, tra le quali l’uccellino rosa pallido con le setole nella coda, simile a quella di un pavone, di colore viola, che era appartenuto al di lei padre e che perciò aveva per lei un valore particolare; c’erano poi quelle regalate da parenti e amici, piccoli capolavori, di un gusto ormai raro, quasi un peccato doverle rincartare a feste finite.
Tutto cambiava, tutto, tranne quegli oggetti del passato, tranne l’uccellino con le setole viola, che si attaccava al ramo dell’abete con una specie di molletta, come quelle per i panni di bucato, solo più piccola.
Le cose non cambiavano, come l’arte per Keats, pensò. Se c’era qualcosa che poteva davvero fermare il tempo, quella era l’arte.
Mentre ascoltava la conversazione tra i due bambini, che sceglievano insieme le decorazioni, mettendo da parte quelle che non incontravano i loro gusti, si ricordò del portagioie sul cassettone. Sentì il bisogno di chiudere la porta, per sentirsi più protetta da sguardi e rumori di ogni tipo, che avrebbero interferito con la sua capacità di ricordare.
La sua camera non era particolarmente grande, ma il letto di ottone con la trapunta rosso bordeaux e i molti cuscini disposti con una simmetria maniacale, con il tappeto orientale ai piedi del letto, la rendeva ai suoi occhi abbastanza accogliente.
Sul cassettone, che aveva una ribalta, c’era una lampada da tavolo con il supporto anch’esso di ottone e una scatolina di radica, o meglio un portagioie, con una decorazione di madreperla sul coperchio. Come ogni oggetto disegnato per contenere oggetti preziosi, aveva una piccola chiave, dalla quale penzolava una piccolissima nappina color giallo antico. Era un oggetto che il padre aveva acquistato ad un mercato di antiquariato per farne dono proprio a lei dopo il matrimonio.
Lo specchio, collocato davanti al cassettone, era grande e ben intonato al resto della stanza. Si guardò mentre teneva tra le mani il piccolo oggetto di legno.
Ci sei ricascata – si disse.
Sì, aveva di nuovo sentito quell’impulso, quasi irrefrenabile, di aprirlo e osservarne il contenuto. Si sentì di nuovo come quella bambina che si nascondeva nel ripostiglio. Era lì che si svolgeva la sua vita segreta di bambina, i suoi giochi e dove si rifugiava nei suoi momenti di tristezza o quando non voleva farsi trovare dai suoi genitori.
Aprì il portagioie e diede un'occhiata all’interno foderato di velluto viola. C’erano soltanto orecchini, la sua passione. Li indossava anche, certo, ma una o due volte al massimo, poi venivano riposti lì dentro, come se fossero monetine in un salvadanaio.
Il suo tesoro era di scarso valore, trattandosi per lo più di oggetti di bigiotteria, ma senza dubbio erano originali e qualcuno addirittura eccentrico: era un museo in miniatura, un museo di memorie.
Il cofanetto con la fodera di velluto viola era angusto e i piccoli oggetti vi erano stipati senza alcun ordine. Ristabilirne le coppie sarebbe stato facile: sarebbe bastato rovesciare il contenuto sulla trapunta. No, non per tutti. D’improvviso sembrò che l’oggetto aumentasse di volume, o meglio di profondità. Il viola del velluto le parve un vortice di acqua marina che cercasse di inghiottire quei minuscoli monili scintillanti. Vi infilò la mano dentro, quasi ad impedire che qualcuno sprofondasse nell’abisso di velluto, ne cercò